Il decreto della discordia
La lirica sulle barricate
Il decreto sulle fondazioni liriche è arrivato nel tardo pomeriggio di ieri al Quirinale. Bondi ha dovuto correggerlo perché il testo approvato dai ministri venerdì ha fatto arrabbiare tanti. Anche nella maggioranza.
Un decreto fantasma come il Vascello di Wagner, poiché non si conosce il contenuto, ma che non citerebbe più la Scala e Santa Cecilia; una selva di archetti in rivolta contro il ministro Sandro Bondi, latore del decreto stesso; un deus ex machina, che prende le sembianze del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ancora una volta tirato per la giacchetta nell’agone politico.
di Luca Del Fra (l’Unitą. 21.04.2010)
Il decreto sulle fondazioni lirico-sinfoniche - i nostri maggiori teatri d’opera dalla Scala al Maggio fiorentino, dal San Carlo al Regio di Torino -, approvato venerdì scorso in consiglio dei ministri, sta causando un pandemonio al punto che, viste le proteste perfino nella stessa maggioranza, il testo è stato pesantemente riscritto prima di arrivare, ieri nel tardo pomeriggio, a Napolitano. Sarebbe composto da sette articoli non cita, com’era invece venerdì, la Scala e Santa Cecilia. Al presidente fanno appello l’opposizione, sindaci e sindacati, musicisti e sovrintendenti, perché non firmi un testo dove molti ravvisano profili d’incostituzionalità. A cominciare dalla presunta urgenza, che giustificherebbe l’uso stesso del decreto per risolvere i problemi dei maggiori teatri italiani, anche se gli effetti, stante la prima stesura, si vedrebbero almeno tra un anno. S’aggiunga che il ministro delle attività culturali Bondi si arrogherebbe il diritto di modificare leggi che disciplinano lo spettacolo con dei semplici regolamenti. E ancora: almeno il testo del 15 aprile, avverte Silvano Conti della Cgil, «modifica lo statuto dei teatri “di interesse nazionale” facendo sì che conti chi mette più soldi». Anche un privato, dunque. Il provvedimento nascerebbe per far fronte alla crisi delle fondazioni lirico-sinfoniche, afflitte da pesanti deficit, ingrossati annualmente da passivi di bilancio: una evidente conseguenza dei tagli alla cultura di questi anni, in particolare dei governi quelli di centrodestra.
Il progetto del governo è far pagare le spese ai lavoratori, senza entrare minimamente nel merito del perché i nostri teatri, o almeno la maggior parte, funzionino male. Per indorare la pillola, inizialmente ne erano stati salvati due, la Scala e Santa Cecilia, causando le reazioni nervose degli altri sovrintendenti con la singolare l’eccezione di Marco Tutino del Comunale di Bologna - oltre che dei sindaci delle rispettive città, ma con gioia del sindaco milanese Letizia Moratti e del sovrintendente scaligero Stéphane Lissner. E contro le critiche venute dal neogovernatore toscano Rossi e dal sindaco fiorentino Renzi (entrambi Pd), Bondi reagisce dicendo che oggi pubblica oggi sul sito del ministero i bilanci dei teatri: quando accadde un anno e mezzo fa, molti sovrintendenti si infuriarono definendo quei numeri inattendibili.
COLPIRE I LAVORATORI
I sindacati hanno reagito compatti contro la divisione dei teatri in serie A e serie B e, per la prima volta da quando è sovrintendente alla Scala, Lissner si è trovato in contrasto con il sindacato. Se il provvedimento sarà firmato, inizieranno due mesi di scioperi a oltranza che faranno saltare tutte le rappresentazioni, e i sindacati minacciano anche di occupare i teatri. Oltre a colpire i lavoratori, anche se non ufficialmente il decreto commissaria tutti i teatri, spogliando regioni, enti locali e i privati di ogni reale funzione, demandando la trattativa dei contratti all’Aran, l’agenzia del pubblico impiego.
Un’iniziativa del genere fu tentata nel ’95 quando i teatri erano enti pubblici, ma l’Aran dichiarò la propria scarsa competenza in una materia come il contratto di un musicista d’orchestra o di un tecnico di palcoscenico: oggi il risultato è che così si ritrasformano i teatri in enti pubblici. Anche più preoccupante appare abrogare una serie di articoli della legge 800/67 che sancisce, in ossequio alla Costituzione, che lo Stato finanzia la cultura: cosa che evidentemente non interessa affatto né l’attuale governo, né tanto meno Bondi.