Muti: "Non toccate Mameli è meglio di Va’ Pensiero"
Il direttore d’orchestra: "Quelle note rappresentano la storia di tutti noi e sarebbe assurdo cambiarle con Verdi" "Il Nabucco è meravigliosamente poetico ma è un canto di perdenti: è una lamentazione, una preghiera"
di Leonetta Bentivoglio (la Repubblica, 17.03.2011)
Che cosa accende la fiamma del Nabucco? Perché batte invariabilmente forte il cuore patriottico di questo monumento musicale? «Perché vi si specchia l’essenza stessa dell’Italia», risponde uno straordinario specialista di opere verdiane come Riccardo Muti, «anche se l’opera è basata sulla Bibbia». Ma al di là dell’argomento biblico, con la sua violenta storia di un popolo, gli Ebrei, esule e asservito a un tiranno, il re di Babilonia, fu in qualche modo facile, per un Paese frammentato e oppresso come l’Italia in cui debuttò il Nabucco (Scala, 1842), proiettare la speranza di un prossimo risorgimento in quel grandioso affresco musicale. Lo fece soprattutto ritrovandosi nel Va’, pensiero, pagina corale di inestinguibile efficacia, in grado di sollecitare un desiderio di riscatto che continua a riguardarci anche in quest’Italia odierna, invelenita dagli scandali e soffocata nelle sue risorse culturali. Lo ha dimostrato Muti qualche sera fa, sul podio della prima del Nabucco a Roma, accogliendo la richiesta di bissare quel coro, e anzi invitando il pubblico a unirsi al canto collettivo, in un’onda clamorosa di emozioni condivise che sfidava coraggiosamente il rischio della retorica.
«Io credo davvero nella bandiera e nella patria», afferma il direttore d’orchestra con la consueta veemenza. «Ci ho creduto fin da bambino, essendo cresciuto in una terra del Sud dove questi valori sono radicati. L’ho ribadito anche in periodi in cui la fede nel tricolore sembrava politicamente sospetta. Ho sempre creduto nell’Italia, nella sua gente, nei suoi talenti. E continuo a credere in quel suo ricco patrimonio artistico e culturale che ci rappresenta e fa la nostra grandezza nel mondo. Per questo andrebbe difeso».
Crede anche nell’Inno di Mameli?
«Certo: mi coinvolge e mi commuove. Non mi pongo mai di fronte a questo pezzo con un atteggiamento giudicante, come un critico che ne analizza la fattura. Nell’inno italiano sono nato: fa parte del nostro Dna. È la musica dei milioni di miei connazionali che hanno sacrificato la vita per la loro terra. D’altra parte, con qualche rara eccezione, come l’inno tedesco, derivato da un quartetto di Haydn, e come l’inno inglese e quello russo, nessun Paese, per i suoi inni, conta su pagine musicali di autentico pregio. Non sono pensate in profondità, ma fatte per spronare un popolo, imprimergli vigore e motivarlo. Anche la Marsigliese, cantata con fierezza dai francesi, al cui spirito nazionale si armonizza egregiamente, non spicca per qualità musicale».
Lei ha eseguito tanto l’Inno di Mameli, persino in luoghi del mondo difficili e remoti grazie ai "Viaggi dell’Amicizia" del Ravenna Festival, dove dirige ogni volta l’inno locale accanto al nostro.
«È così che sono diventato un esperto di inni! Ho diretto l’egiziano, il tunisino, l’armeno, il marocchino, il siriano, il libanese... A noi si uniscono di volta in volta musicisti e coristi del posto, e per loro imparare il testo è un’impresa. Parole come "dell’elmo di Scipio s’è cinta la testa", per uno straniero, possono essere uno scioglilingua. Il 9 luglio saremo a Nairobi, e a cantare l’Inno di Mameli ci saranno anche i bambini del Kenya. Sono situazioni coinvolgenti e unificanti. Comunque, accanto ai vari inni, posso testimoniare che il nostro non sfigura mai, anzi: spesso è il migliore».
Resta dunque convinto che non va messo in discussione?
«Non avrebbe senso: Fratelli d’Italia è la nostra storia. È i nostri eroi e caduti. È i valori e gli onori della patria. Trovo assurdi certi appelli alla sua sostituzione. Teniamoci l’Inno di Mameli e che Dio ce lo conservi».
Eppure, come lei ci ha di nuovo fatto comprendere nei giorni scorsi a Roma, il Va’, pensiero è l’Italia...
«La sua poesia è magistrale, ma non potrà mai essere un inno, perché è un canto di perdenti, dove gli Ebrei piangono l’esilio e la sconfitta. In realtà è una lamentazione e una preghiera. Fu Verdi a spiegare che, scrivendo quel coro, aveva in mente il Salmo "Superflumina Babylonis". È grave e sottovoce, dal tempo lento, e il suo carattere desolato esprime dolore e rimpianto. Non nacque per fomentare la ribellione contro gli invasori austriaci, e infatti nella sua malia sommessa non ha il senso di riscossa di un coro risorgimentale. Eppure, grazie alla sua forza evocativa, il Va’, pensiero è divenuto il sogno della patria persa, il sentimento di un’identità comune e il riflesso di istanze di liberazione".
Perché allora non considerarlo un possibile inno?
«Perché è inimmaginabile, per esempio, il Va’, pensiero cantato da una squadra di sportivi: farebbe crollare la pressione. Ci vuole un altro piglio, un vigore particolare, che quello di Mameli possiede. Bisogna anche capire che il Va’, pensiero non vive solo di una meravigliosa melodia, ma di una superba orchestrazione e di una serie di linee di contrappunto che la attraversano dandole un significato profondo e complesso. Per eseguire quella pagina, insomma, non si può prescindere dal contesto di orchestrazione e armonizzazione concepito per Nabucco dal compositore".
Che cos’ama di quest’opera verdiana?
«La sua sinfonia strepitosa dal punto di vista della forma, dell’incisività, della potenza ritmica e rivoluzionaria. Le sue pagine corali ispirate al Rossini tragico, e altre di estrema raffinatezza cameristica. Il bellissimo uso strumentale dell’orchestra e la definizione di figure ben stagliate e caratterizzate, con due giganti quali Nabucco e Abigaille, che sono porte d’accesso ai personaggi immensi della maturità verdiana: in Nabucco c’è già tutto il Verdi degli anni successivi».