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’FATTORIA ITALIA’. LA SCRITTA SUL CANCELLO D’ENTRATA: ’POPOLO DELLA LIBERTà’. La forma della Repubblica è cambiata nell’aula del senato alle 20 in punto del 22 luglio, 171 sì 128 no e 6 astensioni al lodo Alfano.... e il Presidente della Repubblica continua ad esortare: "Forza Italia!!!

LE "BUGIE" DI MASSIMO GIANNINI E LA "VERITA’" DI BERLUSCONI: "FORZA ITALIA", "IL PRESIDENTE SONO IO"!!! Questo il problema, e non viceversa - a cura di Federico La Sala

giovedì 29 gennaio 2009 di Federico La Sala
[...] ANCORA una volta dobbiamo essere grati a Giorgio Napolitano. Il suo richiamo al rispetto dei "principi fondamentali della Costituzione", che nessuno "può pretendere di modificare o di alterare", è la terapia più tempestiva ed efficace contro la "sindrome di Cromwell" che ormai pervade il presidente del Consiglio, come ha magistralmente spiegato Gustavo Zagrebelsky nell’intervista a Repubblica di ieri. In un equilibrio sempre più instabile tra i poteri dello Stato, il presidente della (...)

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> LE "BUGIE" DI MASSIMO GIANNINI E LA "VERITA’" DI BERLUSCONI: "FORZA ITALIA", "IL PRESIDENTE SONO IO"!!! --- «l’ennesimo vulnus» al fondamentale principio della «distinzione e del reciproco rispetto tra poteri e organi dello Stato».

sabato 7 febbraio 2009


-  La scelta sofferta di Napolitano "Io devo difendere le istituzioni"
-  Il capo dello Stato ha appreso del dl dalle agenzie di stampa

di Massimo Giannini (la Repubblica, 07.02.2009)

«L’avevo detto subito a Gianni Letta: non vedo proprio le condizioni per un decreto legge. Non ne hanno tenuto conto. Ma io, Costituzione alla mano, non potevo fare altrimenti». È tardo pomeriggio, e nel suo studio Giorgio Napolitano riflette a voce alta, sul corpo di Eluana trasfigurato in totem simbolico, e ora svilito in vessillo ideologico di un conflitto che non ha precedenti nella storia italiana. Il presidente della Repubblica lo vive con dolore personale, ma anche con la consapevolezza di aver fatto solo il suo dovere istituzionale. «Quel decreto non potevo firmarlo», ripete. Se non al prezzo di «snaturare le funzioni che la Carta costituzionale mi assegna». Non è stata una scelta a cuor leggero. Prima ancora che Capo dello Stato, Napolitano è padre e nonno. Conosce cos’è «il dono dei figli». Cos’è «la scoperta del sentimento più tenero, quello che si prova per i bambini dei propri figli». Cos’è «il senso profondo della famiglia». E dunque sa cosa costa il suo diniego alla firma del provvedimento d’urgenza varato dal governo per impedire la sospensione dell’alimentazione di Eluana. Ma sa anche quanto vale «la natura di garanzia istituzionale» della sua carica. Quanto vale il rispetto dei principi che reggono il nostro Stato di diritto. Quanto vale una corretta dialettica tra l’esecutivo, il giudiziario e il legislativo.

Napolitano aveva capito che il governo avrebbe tentato l’affondo già da giovedì pomeriggio, quando cominciavano a trapelare le prime voci su un possibile decreto d’urgenza. A questo si riferisce il Capo dello Stato, quando dice «l’avevo detto subito a Gianni Letta». Era stato proprio il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, su incarico di Berlusconi, a telefonare al Quirinale nel pomeriggio di due giorni fa, per sondare l’orientamento del presidente su una «prima bozza» del provvedimento. «Non vedo le condizioni», era stata la risposta immediata di Napolitano. Ma il premier non aveva desistito. Poco più tardi gli sherpa di Palazzo Chigi erano tornati alla carica, ipotizzando addirittura una possibile visita di Berlusconi a Napolitano. «Se volete venite pure - era stata la risposta di rito degli uffici del Colle - ma sappiate che il presidente su questo punto è irremovibile: c’è una sentenza della Cassazione, e un decreto legge che stabilisca il contrario costituirebbe una lesione palese dei vincoli costituzionali che legano l’esecutivo al rispetto del principio di intangibilità del giudicato». Ma neanche questo era bastato. E così, alle undici di sera, sul Colle era arrivata l’ultima telefonata di Letta, quasi trionfante, che parlando con il segretario generale del Colle Donato Marra sventolava un parere informale del presidente emerito Valerio Onida come «la soluzione definitiva del problema».

A quel punto Napolitano ha capito che il governo non si sarebbe più fermato, e che sarebbe arrivato fino allo strappo istituzionale. Così, già dalla nottata di giovedì, ha messo al lavoro i suoi tecnici e i suoi collaboratori dell’ufficio legislativo, Salvatore Sechi e Loris D’Ambrosio, per stendere un testo motivato e tirare fuori i precedenti di decreti legge non controfirmati dai suoi predecessori. Così è nata la lettera che ieri mattina il Quirinale ha recapitato a Palazzo Chigi. Una lettera inequivocabile. Che giudica «inappropriato» lo strumento del decreto legge in una materia del genere, ribadisce la mancanza dei requisiti di necessità e di urgenza e il contrasto con gli articoli 3, 13 e 32 della Costituzione, e ricorda i precedenti di Pertini, Cossiga e Scalfaro.

Una lettera indirizzata personalmente al presidente del Consiglio. Una lettera che doveva restare riservata, perché fin dall’inizio del confronto Quirinale e Palazzo Chigi avevano operato all’interno della cosiddetta «moral suasion», che presuppone una collaborazione leale ma informale tra le due istituzioni. Una lettera che, secondo gli obiettivi di Napolitano, poteva offrire «per tempo» al Cavaliere una «via d’uscita» dignitosa. Ma Berlusconi ha deciso di rompere gli equilibri, di rendere pubblica la lettera del Capo dello Stato e di andare alla guerra aperta. C’è un dettaglio che la dice lunga sul fairplay del premier e sulla sua volontà di rompere: il Capo dello Stato ha appreso la notizia dell’avvenuta approvazione del decreto solo dalle agenzie di stampa. «Ho fatto il possibile per evitare tutto questo», riflette ora il presidente. E la chiave di questo suo tentativo di conciliazione preventiva, fa notare, sta nelle ultime tre righe della sua lettera: «Confido che una pacata considerazione delle ragioni da me indicate valga ad evitare un contrasto formale in materia di decretazione d’urgenza, che finora ci siamo congiuntamente adoperati per evitare».

Questa era la «via d’uscita». Il premier ha preferito non imboccarla. Così è deflagrato qualcosa di più di un «contrasto formale». «Ma io non potevo cedere», è il ragionamento di Napolitano. Ne va della sua funzione costituzionale. E ne va della difesa della democrazia parlamentare. E’ questo, soprattutto, che adesso il Capo dello Stato non riesce a tollerare. Berlusconi che dopo il Consiglio dei ministri dice in conferenza stampa «sono pronto a cambiare la Costituzione sul tema dei decreti legge». In questa affermazione c’è lo stravolgimento del dettato costituzionale. E c’è anche la violazione di un «patto» che Napolitano e il premier, proprio sulla decretazione d’urgenza, avevano raggiunto nell’autunno scorso. Era il 7 ottobre 2008, quando il presidente della Repubblica, rispondendo sulla «Stampa» ad un articolo del costituzionalista Michele Ainis che denunciava la trasformazione del Parlamento in votificio, affermava con forza: «Sui decreti legge vigilerò con rigore».

Un’uscita che fece scalpore, e che spinse Berlusconi a recarsi sul Colle il giorno stesso per un chiarimento. Ora Napolitano ricorda che a fine colloquio il premier uscì raggiante, dettando testualmente alle agenzie: «Sui decreti legge il Capo dello Stato non si troverà mai più di fronte a un fatto compiuto». Sono passati solo quattro mesi, e il fatto compiuto è arrivato. Il presidente della Repubblica non poteva lasciar passare quello che chiama «l’ennesimo vulnus» al fondamentale principio della «distinzione e del reciproco rispetto tra poteri e organi dello Stato».

È chiaro che nel rapporto tra i due presidenti molto si è consumato e molto è andato perduto, in questa dissennata battaglia sul corpo di Eluana. «Non voglio portare la responsabilità di lasciar morire quella ragazza», ha detto ieri il Cavaliere, quasi a voler scaricare quella responsabilità sul Capo dello Stato. E’ l’ultima offesa che ha voluto «dedicargli». Napolitano non replica. Né ai veleni del Cavaliere, né agli anatemi della Chiesa. Ripete solo una frase: «Mi rammarico molto per quel che ha fatto il governo». E in quel rammarico c’è tutto. L’amarezza di un uomo, ma anche l’asprezza di un politico che, d’ora in avanti, non farà più sconti a nessuno.


Lite istituzionale che divide anche Colle e Santa Sede

di Massimo Franco (Corriere della Sera, 07.01.2009)

Col senno di poi, l’espressione «braccio di ferro» è un eufemismo. Il caso di Eluana Englaro ha provocato una frattura fra Quirinale e palazzo Chigi che delinea una crisi istituzionale grave e dagli esiti imprevedibili. Sancisce qualcosa di più di un’incrinatura nei rapporti fra Giorgio Napolitano ed il Vaticano, finora ottimi. E lascia intravedere una spaccatura parlamentare che ricorda tanto i fronti referendari del passato sull’aborto e sul divorzio. Con il centrosinistra ed i radicali contrari a sospendere le procedure che porteranno alla morte della ragazza; ed il centrodestra di Silvio Berlusconi in lotta con il tempo per approvare una legge che le sospenda.

Il conflitto era in incubazione dall’altra sera, quando sono trapelate le perplessità del presidente della Repubblica sul decreto studiato dal governo. Ma le voci ufficiose secondo le quali Napolitano in realtà non si era pronunciato l’aveva congelato. Ieri mattina, però, la situazione è precipitata. Berlusconi, incalzato dalle gerarchie cattoliche, ha deciso che il decreto andava comunque presentato in Consiglio dei ministri. E mentre il governo stava decidendo, è arrivata la lettera del capo dello Stato che preannunciava il rifiuto di firmare il provvedimento. Doveva essere l’estremo tentativo per evitare lo scontro; e invece ha finito per drammatizzarlo.

Il premier ha sospeso la riunione, e mostrato una missiva che nelle intenzioni era riservata. E alla ripresa, pretendendo e ottenendo l’unanimità, Berlusconi è andato avanti, respingendo la lettera al mittente. Evidentemente, la speranza di bloccare l’iniziativa del governo con un altolà era mal riposta. Quella nota nel bel mezzo della riunione è stata interpretata come un tentativo di «commissariare» il governo. Ed ha permesso a Berlusconi di lanciare una sfida che si è appena iniziata ed accenna a salire di tono.

Finora il premier non aveva mai reagito frontalmente alle critiche di Napolitano. La diplomazia informale fra i due palazzi aveva sempre scongiurato contrasti. Ed erano stati costruiti in tre anni rapporti istituzionali più che cordiali e corretti. Berlusconi ha sferrato l’offensiva scegliendo lui il terreno, meno scivoloso di quello della riforma della giustizia. Il fatto che ad una domanda rivoltagli in conferenza stampa abbia risposto che non è sua intenzione promuovere la messa in stato d’accusa del capo dello Stato è rassicurante a metà. Soltanto affacciare questa ipotesi rende l’idea della piega che rischia di prendere il conflitto istituzionale.

La difesa compatta di Napolitano che proviene dal centrosinistra insiste sulla correttezza della lettera; e sul calcolo a freddo del premier di scontrarsi col Quirinale. Perfino Antonio Di Pietro, che nelle scorse settimane non ha esitato ad attaccare pesantemente il presidente della Repubblica, adesso si schiera con lui insieme all’estrema sinistra ed ai radicali. Ma tanta solidarietà politica dell’opposizione, alla quale si aggiunge quella del presidente della Camera, Gianfranco Fini, potrebbe risultare a doppio taglio. Invece di puntellare e rilanciare il profilo sopra le parti offerto sempre da Napolitano, minaccia di farlo diventare l’icona degli avversari del governo. Un epilogo paradossale, che può aggravare e radicalizzare il conflitto.


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