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EVANGELO E COSTITUZIONE. Per la critica dell’antropologia e della teologia di "Mammona" e di "Mammasantissima" ....

IL PRESEPE E LA NOTTE DI NATALE. La lezione di Pirandello a Benedetto XV e a Benedetto XVI - a cura di Federico La Sala

LA "SACRA" FAMIGLIA DELLA GERARCHIA CATTOLICO-ROMANA E’ ZOPPA E CIECA: IL FIGLIO HA PRESO IL POSTO DEL PADRE DI GESU’ E DEL "PADRE NOSTRO" ... E CONTINUA A "GIRARE" IL SUO FILM PREFERITO, "IL PADRINO".
lunedì 22 dicembre 2008
[...] Venuta la notte di Natale, appena il signor Pietro Ambrini con la figlia e i nipotini e tutta la servitù si recarono in chiesa per la messa di mezzanotte, il signor Daniele Catellani entrò tutto fremente d’una gioia quasi pazzesca nella stanza del presepe: tolse via in fretta e furia i re Magi e i cammelli, le pecorelle e i somarelli, i pastorelli del cacio raviggiolo e dei panieri d’uova e delle fiscelle di ricotta - personaggi e offerte al buon Gesù, che il suo demonio non aveva (...)

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> IL PRESEPE E LA NOTTE DI NATALE. ---- ---- Noi barbari (di Thomas Assheuer)

venerdì 26 dicembre 2008

Etnologia

Noi barbari

-  di Thomas Assheuer
-  Die Zeit, Hamburg, 20.11.2008

http://www.zeit.de/2008/48/Levi-Strauss-100?page=all

(traduzione dal tedesco di José F. Padova)

-  Questo articolo è corredato da un’illustrazione visibile al link:
-  http://www.zeit.de/popups/bildungskanon/popup-volk (ci si sposti con le frecce)

-  Claude Lévi-Strauss compie oggi 100 anni. Il suo pensiero è attuale come non mai.
-  Nessun altro ha descritto con altrettanta lucidità la forza distruttiva della nostra civilizzazione.

In questi giorni la comunità degli studiosi comincia con gli allestimenti per la sua immortalità. Claude Lévi-Strauss compie cento anni e gli oratori ufficiali moltiplicheranno lo splendore purpureo della sua celebrità e di lui diranno ciò che vi è da dire: che egli è l’etnologo vivente più importante e anche l’antropologo più significativo, il testimone sommo del XX secolo, un intellettuale eminente. E naturalmente un illustratore della scienza, colui che con i suoi indimenticabili libri ci ha fatto conoscere i «popoli primitivi».

Tutto questo è giusto e tuttavia è soltanto la mezza verità. In realtà il festeggiato ha fatto anche un’altra scoperta, che mette i panegiristi in imbarazzo. Nei suoi viaggi di esplorazione Lévi-Strauss si imbatté in una cultura tribale che gli apparve irritabile ed estremamente pericolosa. Essa ha depredato la natura, devastato intere regioni, venerato idoli vanesi, massacrato i propri simili ed era malfamata per le sue storiche carneficine. Frattanto questa esotica cultura tribale ha messo in fuga tutti i rivali e domina il mondo. Il suo nome è «civilizzazione».

Anche il secondo messaggio, con il quale Claude Lévi-Strauss ha fatto parlare di sé negli anni ’50, fu una provocazione. L’Uomo, lasciò intendere, è una «macchina» con «miliardi di cellule nervose sotto il termitaio del cranio». In contrasto con l’animale guidato dall’istinto la macchina umana ha uno svantaggio innato. Per cavarsela nella giungla dei fatti e delle contraddizioni ha bisogno di aiuti simbolici e di miti esplicativi.

A prima vista i miti, che da millenni gli uomini si raccontano, sono di sconcertante molteplicità; ma in realtà, così sostiene Lévi-Strauss, essi seguono invisibili modelli e strutture invarianti. Quasi tutte le culture conoscono la storia del misterioso Gral e quasi tutte si raccontano la storia del figlio che desidera ardentemente la madre e che vuole togliere di mezzo il padre. O la storia della donna cui il giaguaro dà la caccia nella foresta vergine e che è salvata da una voce di bambino. In simili storie la figure sono intercambiabili, non deve esserci necessariamente né un giaguaro né un bambino. Tuttavia sono identiche le strutture che si nascondono sotto la superficie narrativa. Tutto questo può soltanto significare: non già le persone pensano loro stesse nei miti, ma i miti si pensano nelle persone. E la nuova teoria che ha portato alla luce le leggi della struttura si chiama - strutturalismo.

Ora, prima di fare a Lévi-Strauss il rimprovero, secondo gli usi accademici, della «avversione per l’individuo», si dovrebbe riflettere su un punto: il metodo strutturale, sviluppato nei quattro volumi della Mythologica, era innanzitutto un atto di equità, una riabilitazione e un tardivo riconoscimento delle culture non occidentali. Quindi, se tutte le società «cavalcano» le medesime strutture, se l’intrecciato cosmo immaginario dei «primitivi» è complesso in modo simile a quello della civiltà progredita, la civilizzazione occidentale perde in un sol colpo la sua superiorità culturale. «La ricchezza e l’audacia nelle invenzioni estetiche dei melanesiani, la loro facoltà di includere nella vita sociale i prodotti più oscuri dell’attività inconscia dello spirito, formano una delle più alte vette che gli uomini abbiano mai raggiunto in questo campo. Il «selvaggio» non è un essere vivente arretrato, ma è un partecipante con parità di diritti nella rappresentazione teatrale dell’umanità, che ebbe inizio da tempo immemorabile su questo pianeta “graziato” da una combinazione cosmica e che prima o poi, esaurito dalla sua stessa opera, giungerà alla sua fine naturale.

Ritratto

Claude Lévi-Strauss

L’etnologo nasce il 28 novembre 1908 a Bruxelles, figlio di genitori ebrei francesi. Studia filosofia e diritto a Parigi, insegna come professore al ginnasio e diviene professore di sociologia all’Università di San Paolo (Brasile) nel 1935. In questo periodo si collocano lunghi viaggi di esplorazione nel centro del Brasile. Nel 1939 è richiamato nell’esercito francese e nel 1941 si rifugia negli Stati Uniti. Dopo il suo ritorno Lévi-Strauss insegna Antropologia sociale al Collège de France. Le sue opere sono pubblicate in tedesco dalle Edizioni Suhrkamp. Thomas Reinhardt ha scritto un’eccellente monografia per le Edizioni Junius.

Mentre l’astro del razionalismo lentamente si offusca, Lévi-Strauss fa risplendere il genio delle culture orali, l’incantesimo del culto e della magia. A rilucere iniziano anche le età derise in quanto «infantili», per esempio la «rivoluzione neolitica», che«ebbe ugualmente il suo Pasteur come anche le altre». In tutti i tempi «gli uomini hanno amato, odiato, sofferto, ricercato e lottato. Nella realtà non vi sono popoli infantili; sono tutti adulti, anche quelli che non hanno scritto alcuna cronaca della loro infanzia».

Del «cuore» teoretico dello strutturalismo oggi poco è rimasto e da metodo rigoroso divenne una moda buffa, che presto diede sui nervi perfino al suo inventore. Anche lo charme provocatorio si è sbiadito. Nessuno più trascurerà oggi con noncuranza la distinzione di mito e religione o susciterà l’impressione che la libertà umana sia in conclusione un incidente irrilevante nel teatro strutturale della natura, né tanto meno una dolce finzione che si dipinge sulla parete della prigione, per meglio sopportare l’umana miseria.

Pierre Bourdieu, un tempo suo ammiratore, si distaccò per questo leggermente da Lévi-Strauss; Jean-Paul Sartre lo accusò di «oblio della storia». Non era del tutto sbagliato. In effetti Lévi-Strauss nei passi più foschi della sua opera trasforma la storia del mondo in una messa in scena naturale, in un corteo di maschere dai segni mitici, che si trascina sul globo terrestre fino alla fine di tutti i giorni. «Naturalizzazione dei rapporti» gridavano gli studenti nel Maggio 1968 a Parigi e malignavano: «Le strutture non corrono in giro per la strada».

Per quanto sconvolgente fosse, la controversia rimase stranamente in superficie. Perché l’impegno sul campo del ricercatore, nel frattempo divenuto celebre, era di altra natura, era molto più radicale di quanto i rivoluzionari potessero immaginarsi. Infatti Lévi-Strauss studiò non soltanto il «pensiero selvaggio» dei «popoli naturali»; si pose allo stesso tempo come un etnologo del Moderno - come qualcuno che si vede costretto a esaminare profondamente la «natura» della civilizzazione. Perché in qualunque luogo i suoi viaggi lo conducessero, passo passo si scontrò negli orridi marchi a fuoco dell’Occidente, mentre il «primitivo», l’incontaminato e autentico è introvabile, o nel migliore dei casi oscuro e opaco.

«Ciò che i viaggi ci mostrano è la sporcizia con la quale abbiamo lordato il volto del genere umano». Il pugno di indios con i quali ancora entra in contatto sono degli scampati, sopravvissuti al loro sterminio. Sempre più il «luogo selvaggio» diventa lo specchio che gli svela la verità sulla sua propria, abbrutita età. «Come l’indio nel mito sono anch’io corso tanto lontano quanto la Terra lo permette e, giunto alla fine del mondo, ho interrogato gli esseri e le cose e ho conosciuto la sua medesima delusione».

La frase è tratta da Tristi Tropici, il racconto, di trascinante scrittura, su un viaggio in Brasile, pubblicato nel 1955, che nello stesso tempo è tutto: un’elegia romantica, un incomparabile monumento della cultura occidentale, di cui preannuncia il tramonto - e una malinconica lettera d’addio, il cui destinatario non è altri che l’intera umanità.

I tropici per Claude Lévi-Strauss sono desolati in molti sensi. La loro vita non vive più, sono predisposti al distacco e segnati dall’approssimarsi della loro morte. Non ci vorrà molto prima che la resistenza maestosa della foresta pluviale venga infranta e le stirpi indie del Mato Grosso si estinguano o vegetino nelle periferie cittadine, catturati dai missionari del razionalismo, che corrono attraverso la boscaglia con la fiaccola dell’età dei lumi e ne riducono in cenere i segreti. «Mai più i viaggi, scrigni pieni di promesse fantastiche, ci sveleranno incontaminati i loro tesori. Una civilizzazione sovreccitata disturba per sempre la calma dei mari. Una fermentazione di odori equivoci guasta i profumi dei tropici e la freschezza degli esseri viventi». Le «isole della Polinesia soffocano nel cemento», le baraccopoli «corrodono l’Africa».

Il mondo è cominciato senza uomini. E così anche finirà.

Questa è l’infinita, straziante melodia di Tristi tropici, mai sdolcinata, un requiem alla cultura occidentale, la «grande creatrice di tutti i prodigi, dei quali ci rallegriamo» - una cultura alla quale non è riuscito «produrre questi portenti senza il loro rovescio della medaglia». Quanto miserabile è il suo mito di eterno progresso, il riciclaggio senza visione della propria vacuità - e quanta memoria è insita nei rituali dei «selvaggi», che ricevettero il loro passato in vita e in ogni albero incontrarono il loro antenato. L’Occidente non ha alcuna intuizione che la sua presunzione è provinciale, il suo raziocinio imperiale e il suo benessere vacuo. «Noi non comprendiamo perché principi, che sono stati fruttuosi per il nostro sviluppo, non siano apprezzati dagli altri tanto da indurli a prenderli per il loro proprio uso».

Non è già che per Lévi-Strauss i selvaggi siano le persone migliori. Anch’essi hanno commesso pesanti peccati, soprattutto gli Aztechi con la loro «sete maniacale per il sangue e la tortura». Eppure nella gara per la distruzione del mondo le società occidentali, non importa se capitaliste o comuniste, occupano il primo posto - per quanto riguarda i rituali della crudeltà, la somma dei massacri e delle atrocità le si dovrebbe paragonare agli Aztechi. Di nuovo, il modo nel quale le culture arcaiche si comportano con la rottura delle regole sociali pretese da lui profondo rispetto. L’Occidente chiude i suoi criminali a migliaia dietro le sbarre e ne fa marcire i corpi ancora vivi - gli stessi antropofagi si comportano più umanamente. «Alla maggior parte delle società, che noi chiamiamo primitive, questo uso avrebbe provocato profondo disgusto e ci avrebbe impregnato ai loro occhi della stessa barbarie che noi cerchiamo di addossare loro».

Anche il modo occidentale di concepire l’economia gli appare singolarmente esotico. Esso dice: «Tutto quello che tu fai - deve avere una ricompensa». Esso è stregato dalla magia-vodoo della crescita ed è pazzamente invaghito dell’insulsa accumulazione di beni e capitale. La sua essenza è l’eccesso, il forzato «incremento di energia». I suoi stregoni hanno ricompensato passioni che le culture arcaiche disprezzano profondamente, soprattutto eccesso e cupidigia. E i «primitivi»? Essi vivono in equilibrio con la creazione, vogliono dono e danno dono in contraccambio.

Infine i tropici sono tristi perché suscitano nel viaggiatore il presagio della certezza che la civilizzazione ha tagliato il legame con la natura e si è estraniata per sempre dal ciclo del Divenire e della Trasgressione, della nascita e della morte. Soltanto un filosofo ha visto arrivare la sventura, Jean-Jacques Rousseau, «il nostro maestro, il nostro fratello, al quale [tutti] noi non abbiamo dimostrato altro che ingratitudine». Attraverso tutta la propria opera Lévi-Strauss lo porta in palmo di mano, lo venera [ndt: gli è ai piedi], perché Rousseau lo aveva saputo: per l’umanità sarebbe stato meglio aver mantenuto la via mediana, l’equilibrio fra l’ «inerzia della condizione primitiva» e l’ «attività irruente del nostro amor proprio». Adesso «è troppo tardi», la surriscaldata civilizzazione non può mantenere le sue fondamenta naturali e scomparirà come quei «giganteschi animali preistorici», la cui diffusione era incompatibile con i «meccanismi interiori della loro esistenza». Ciò che segue è la stasi e l’entropia. L’uomo lavora con successo alla «dissoluzione dell’ordine [naturale] primitivo», caccia la «materia organizzata in una condizione d’inerzia» e «distrugge miliardi di strutture per spostarle in uno stato nel quale esse non si lasciano più integrare». Vi è un conforto nel cuore delle tenebre? Vi è. «Il mondo è iniziato senza gli uomini e finirà anche senza di loro».

Il sogno della vita buddista e delle meditazioni sull’indicare [mostrare, insegnare]

Con il viaggio nell’estraneo la civilizzazione si «strania» in una cultura tribale divenuta selvaggia, che ricopre tutto con le sue piaghe o si impone con i suoi patterns. A partire dal colonialismo, «questo peccato mortale», l’Occidente disprezza l’incontaminato e «vi sarà quiete soltanto quando l’arcobaleno delle culture umane sarà affondato definitivamente nell’abisso della nostra furia». Un’ultima volta la foresta vergine amazzonica gli apre gli occhi sulla tragedia della cultura occidentale, sull’epidemia dell’insensatezza: essa volle libertà, ma resta soffocata dalla mancanza di libertà - come schiava della sua propria forma di vita giacque nelle catene della costrizione materiale e misurata su questo la vita dei selvaggi era di paradisiaca libertà. O in una formulazione più grandiosa: la Modernità tappa le «fessure aperte nel muro della necessità» - per «completare la sua opera nel medesimo istante in cui chiude a chiave la sua stessa prigione».

Certamente, questa era la critica della cultura degli anni ’50, il pessimistico incantesimo di una prosa sull’offuscamento del mondo, che poteva rappresentarsi il futuro soltanto come rovina, come arroccata tristesse, come grigio sul grigio di progressione e uniformità senza senso, in breve: come «umanità astratta», che «è avida di Agfacolor» e «inserisce tutto il vivente nel circuito mercantile». In direzione opposta l’etnologo sogna di una Modernità altra, «buddistica», nella quale svanisce la «distinzione fra il senso e la mancanza di senso [ndt: qui come significato]» e che è riempita dalle «meditazioni sull’essere ai piedi dell’albero».

Questa è la sua più bella contraddizione, la più filantropica. Lévi-Strauss «esotizza» la civilizzazione e la descrive dal punto di vista della sua fine - e precisamente per questo essa gli diviene nuovamente familiare e riconquista la sua benevolenza. Con questa mossa del suo pensiero l’etnologo conclude la sua avventura intellettuale, per definire la quale una grande parola è abbastanza grande: la riflessione su di sé della Modernità, l’avventuroso tentativo di pensare il tutto come Tutto. Tutto è perduto, si dice ora, «ma nulla è perso (al gioco). Noi possiamo ricominciare tutto da capo». Non ci sarà un altro mondo e in ciò sussiste il compito dell’uomo, difendersi dal declino e mettere in opera il sogno di una «umanità fraterna». Già per questo concetto si può celebrare chi oggi compie cento anni.


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