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Premio Nobel per la Letteratura...

HAROLD PINTER. UNA VITA CONTRO L’ASSURDO E CONTRO LA GUERRA. Una nota di Elisabetta Stefanelli e di Dario Olivero

giovedì 25 dicembre 2008 di Federico La Sala
[...] Pinter, nato ad Hackney, un sobborgo di Londra, il 10 ottobre 1930, inizio’ la sua carriera teatrale come attore, prima frequentando grandi scuole di recitazione, poi girando l’Irlanda con una compagnia shakespeariana con lo pseudonimo di David Barron.
La sua carriera di drammaturgo inizio’, quasi per caso, nel 1957, quando scrisse per un amico in quattro giorni un atto unico intitolato ’La stanza’. Del 1958 il celebre ’Festa di compleanno’, in cui due ignoti visitatori piombano a (...)

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martedì 30 dicembre 2008

GIANFRANCO CAPITTA RICORDA HAROLD PINTER [Dal quotidiano "Il manifesto" del 27 dicembre 2008 col titolo "Gentleman e sovversivo"]

Il giorno dopo aver ricevuto a Firenze una laurea honoris causa, aveva detto: "Ho saputo quello che succedeva a New York dagli schermi televisivi dell’aeroporto, proprio mentre tornavo dall’Italia a Londra. E ho pensato subito che era prevedibile, in qualche modo inevitabile, dopo tanti anni di terrorismo di stato, che potesse esserci una reazione cosi’ violenta. Il popolo americano non immaginava neppure che ci potesse essere un odio cosi’ profondo nei suoi confronti, perche’ e’ tenuto nell’ignoranza piu’ assoluta delle azioni del suo stesso paese". Era l’undici settembre del 2001. Qualche giornale americano penso’ bene di scrivere, nei giorni successivi, che l’attacco alle Torri gemelle era cominciato dalle parole di Harold Pinter.

La morte dello scrittore, a 78 anni, alla vigilia di natale come Beckett, oltre al dolore da’ una grande sensazione di sgomento e di solitudine. Con lui scompare il piu’ grande scrittore contemporaneo di teatro, ma di questo ci consola il fatto che i suoi testi sono una eredita’ corposa, e quanto mai viva e destinata a vivere sulle scene. Quello che verra’ a mancare e’ invece un testimone cosi’ lucido dei nostri tempi, tanto rigoroso quanto spietato nel coglierne i falli e gli orrori, le debolezze, gli opportunismi, le colpe. Un intellettuale di successo e di fama mondiali, insignito di moltissimi premi e riconoscimenti fino al Nobel per la letteratura di tre anni fa, applaudito nei teatri di tutto il mondo, oggetto di infiniti studi e saggi presso tutte le accademie, ma che non ha mai rinunciato alle sue opinioni, alle sue denunce, al suo essere, oltre (e forse ancor prima) che uno scrittore, un "cittadino", non solo del Regno Unito, ma del mondo. Ha scritto decine di capolavori per il teatro, ha sceneggiato film di straordinario successo popolare e di eccellenza critica. Ma non si e’ mai sentito pacificato dal successo. Ha mantenuto lo spirito ribelle dell’adolescente di origine ebraica minacciato dai fascisti ad Hackney, e che non volle fare il militare.

E mentre centellinava la biopsia del conflitto interpersonale nei suoi testi teatrali, ha continuato incessantemente a decifrare i conflitti tra le classi, le economie, le nazioni. Ha denunciato i fascismi e le oppressioni scrivendo articoli, capeggiando sit-in davanti alle ambasciate londinesi, partecipando a delegazioni di Amnesty (dopo quella in Kurdistan assieme ad Arthur Miller, causo’ un incidente diplomatico clamoroso all’ambasciata Usa ad Ankara).

Era un uomo di grande carattere Harold Pinter, dietro i modi cortesi e impeccabili di un gentleman. Amava il cricket, il tennis e lo squash che compaiono nei suoi lavori. Aveva un’intesa strettissima con la moglie Antonia Fraser, storica e militante di sinistra anche lei. Ma si doleva di sentirsi emarginato in patria, cosa quasi ovvia date le sue posizioni politiche: ma forse anche per questo si batteva contro tutte le discriminazioni, contro tutte le violenze.

Nell’arco della sua scrittura, in quelle magistrali indagini sui rapporti tra le creature, aveva pubblicato il suo quasi ultimo testo teatrale proprio alla fine del Novecento, Ceneri alle ceneri. E nel rapporto ora fragile ora violento tra un uomo e una donna, faceva emergere la colpa maggiore del secolo, l’orrore dell’Olocausto. L’understatement segnava la sua scrittura, mentre con grande foga sosteneva le sue convinzioni civili. Ogni volta si informava con grande affetto delle sorti del "Manifesto". E si raccomandava: "Teniamoci in contatto!".

ROBERTO SILVESTRI RICORDA HAROLD PINTER [Dal quotidiano "Il manifesto" del 27 dicembre 2008 col titolo "Pinter e il cinema" e il sommario "Il piu’ misterioso degli ’arrabbiati’. Non solo Losey"]

"Non ho mai scritto un film originale, ma mi e’ molto piaciuto adattare libri di altri. Ho fatto trenta sceneggiature, due non sono mai state girate, tre sono state riscritte da altri. Diciassette (inclusi quattro adattamenti dai miei drammi) sono state realizzate cosi’ come erano scritte.

Credo che questo sia inconsueto. Sono convinto che adattare romanzi per lo schermo sia un atto creativo, un lavoro serio e affascinante perche’ bisogna immaginare nuove forme per le idee che vi sono espresse".

Cineasta pinteriano a tutti gli effetti, Pinter. Il tradimento, la menzogna, la violenza e’ il centro ossessivo della sua poetica. Arma principale di combattimento l’ironia, usata come bisturi. Certo, la falsita’ nella famiglia, nella coppia, nell’industria culturale, ma anche nella Democrazia che l’occidente sbandiera, visto che viviamo coperti da coltri di bugie, come quando i media urlano: "Il Nicaragua sandinista e’ bieco carcere totalitario, ma il Salvador e’ modello di democrazia". Stalin, Hitler e gli Usa, i piu’ splatter del secolo XX, per lui.

Pinter sa visualizzare e isterizzare, in spazi claustrofilici radianti, la dialettica perversa che agita i rapporti umani, padrone e servo, maschio e femmina, carnefice e vittima... "Una scrittura rara, economica, esatta: le sue parole hanno il loro ritmo - dira’ l’adorato Losey - ed egli ha capito subito che le parole dette nei film hanno valori e funzioni differenti. A volte e’ la parola in se stessa, a volte e’ la scena completa, con un principio, un centro e una fine, quasi presa di peso dal teatro, ma con le immagini tra i dialoghi che risuonano quanto e spesso piu’ delle parole".

Un magnete politico radicale per molti artisti, inglesi e della diaspora, che faranno affascinante quel pezzo speciale di cinema cosmopolita ormai perduto: l’americano Losey, il ceco Karel Reisz (col capolavoro di sdoppiamento e ambiguita’ che e’ La donna del tenente francese, ’81, da John Fowles), il tedesco Schloendorff, i "new Hollywood" Jerry Schatzberg e William Friedkin (Festa di compleanno), il no-Hollywood Paul Schrader (Cortesie per gli ospiti), il greco-turco Elia Kazan (Gli ultimi fuochi), e poi Peter Hall, David Jones (Tradimenti e Il processo), John Irvin, Morahan, Branagh (Gli insospettabili, 2007)...

Intanto, e’ pinteriano il suo metodo di scrittura, che permette di dare un occhio al libro, che non ce l’ha, e un "terzo occhio" al regista (e due in piu’ quando, come nel Servo e in L’Incidente, la sua apparizione d’attore e’ indice, indizio di un passaggio notevole e pesante del racconto): "non posso scrivere una scena se non la vedo scorrere davanti agli occhi. Ho come una cinepresa in testa. Immagino gli angoli di ripresa, le prospettive... Il problema e’ collegare dei fatti tra loro, e l’articolazione visiva al cinema e’ diversa dalle altre forme di sintassi". Come regista fa cose tv e Butley (’73), con Alan Bates, da Simon Gray, apologia di un perdente gay votato all’autodisintegrazione, tra alcool e sigarette. Mai un io narrante nei copioni, piuttosto un lavoro dell’inconscio che agisce, scrive, ricorda, torna dal passato.

I due copioni mai girati sono Victory, da Conrad (l’amour fou per una donna e per la solitudine, calpestato dalla malvagita’ umana), scritta con Richard Lester. E Alla ricerca del tempo perduto, il mega-progetto con Losey da Proust (su cui ha lavorato per l’interno 1972, dopo il trionfo di Messaggero d’amore, e poi ha ripreso nel 2000, per l’adattamento teatrale del copione, con D. Trevis). Ma il rapporto di Pinter con il cinema non inizia nel ’63, quando Clive Donner dirige il copione beckettiano (sulla "folie du jour" direbbe Blanchot) Il guardiano (argento a Berlino), tre uomini in una stanza, "parlano e sparlano, usano le parole come ganci dove appendere la follia che li invade, li percuote, li disturba". Fu passione teenager il cinema, prima ancora del teatro, merito dei gangster-movies con Bogart e Cagney, dei b-movies con Franchot Tone, di Ford, Ejzenstein, Bunuel e Cocteau, scoperti a 14 anni nei cineclub: "Dai thriller Usa ho imparato, forse, il linguaggio: cosi’ teso, secco, hemingwaiano".

MEMORIA. GIANFRANCO CAPITTA: IL NOSTRO CARO AMICO HAROLD [Dal quotidiano "Il manifesto" del 27 dicembre 2008 col titolo "Il nostro caro amico Harold" e il sommario "Ha portato in scena il peso di parole e silenzi. Per raccontare i conflitti di famiglia, di coppia, di caseggiato, di classe, tra nazioni. Dal Calapranzi fino agli attacchi brucianti a Bush e Blair. E al Nobel"]

E’ duro accettare l’idea che Harold Pinter non ci sia piu’. Innanzitutto perche’ resta la sua opera, imponente: 29 commedie, molti testi piu’ piccoli, le poesie, i molti film da lui sceneggiati a Hollywood e in Gran Bretagna, i suoi articoli e i suoi interventi. E resta anche il fatto che il cancro all’esofago che l’aveva colpito nel 2000, lui era stato in grado di sconfiggerlo e superarlo: facendo poesia del suo rapporto con le cellule necrogene, ritornando in pubblico dopo la vittoria del Nobel nel 2005 (alla cui premiazione aveva partecipato solo attraverso un video, per quanto bruciante di condanna verso la politica estera americana), addirittura tornando a calcare le scene del londinese Royal Court con una indimenticabile e quasi autobiografica interpretazione dell’Ultimo nastro di Krapp di Beckett. Ma ultimamente, al nuovo assalto della malattia, non aveva voluto neanche sottoporsi ai protocolli terapeutici, invasivi e spossanti. E se ne e’ andato alla vigilia di natale, in un’impressionante citazione cronologica dello stesso Samuel Beckett (e peraltro la data e’ quella che e’ stata fatale anche a Giorgio Strehler).

Ma quello che proprio e’ duro da accettare per chi ha avuto la fortuna di conoscerlo e di frequentarlo, pur nella consapevolezza di tanto grande eredita’, e’ l’assenza del suo giudizio sul mondo. Che non era la chiacchiera diffusa sullo stato delle cose, ma una analisi sempre aggiornata sulle fonti di tutto quanto andasse contro i principi, davvero per lui fondamentali, di giustizia e democrazia. "Ma cosa fa ora il vostro presidente Berlusconi?" chiedeva ironico ogni volta, ed era informatissimo su dichiarazioni, schieramenti e gaffe dentro e fuori dell’Italia.

Anche se la prima domanda dopo i saluti, affettuosa e rasserenante, era da diversi anni "Come va ora ’Il manifesto’?". E il solo fatto che una persona della sua autorita’ se ne preoccupasse, era un piccolo aiuto alla sopravvivenza. In lui "il cittadino Pinter" era cresciuto fino quasi a dominare la sua grandezza e notorieta’ di scrittore: non "condizionandola", ma facendosene linfa e sostegno. Se qualche anno fa, proprio a Milano, non aveva indugiato, sornione come sempre, a confessare la propria scelta di non scrivere piu’ testi teatrali ("Se devo proprio scrivere, preferisco ora la poesia..."), rivendicava invece con forza le sue scelte e le sue convinzioni civili e politiche. Tanto da mettere in fuga, quello stesso pomeriggio, un gia’ dimenticato assessore del centrodestra milanese che avrebbe dovuto consegnargli l’Ambrogino d’oro, imbarazzato se non esterrefatto dallo scrittore che tuonava contro Bush, Blair e Berlusconi, invece di pavoneggiarsi del proprio successo teatrale.

Eppure Harold Pinter e’ stato sicuramente il massimo drammaturgo dell’umanita’ della seconda meta’ del ’900. Non per stilare classifiche o graduatorie sempre fasulle, ma perche’ anche rispetto al genio di Beckett (suo amico e interlocutore costante, in un rapporto segnato da aneddoti gustosi come il primo incontro finito in un gran mal di pancia per Pinter a causa di una zuppa di cipolle, mentre l’altro percorreva la notte parigina alla ricerca di un antidolorifico), tanto l’irlandese tendeva all’assoluto in un processo di scarnificazione della propria poesia e teatralita’, quanto l’altro era teso a incarnare in un tessuto di parole sospese e allusive, proprio i rapporti tra le persone, la loro intimita’ e i loro gesti esteriori.

Tutto il teatro di Pinter mette in scena i conflitti interpersonali. Da quando comincio’ giusto cinquant’anni fa a racchiudere in una Stanza una coppia alle prese con i propri fantasmi e con l’altro. E poi via via, nei rapporti in trasformazione di ruolo tra Il servo loseyano e i suoi padroni, tra aristocratici in decadenza e clochard dallo sguardo lungo, tra l’individuo e una "opinione pubblica" spietata come una branca o una filiazione malavitosa, dalla famiglia ai caseggiati, dalle classi umili alla borghesia affluente e colta della Londra anni Sessanta. Con ritorni fulminanti alla insanita’ di certi rapporti matrimoniali disseminati di Vecchi tempi e Tradimenti. E certi affondi e dilatazioni coscienziali nella Terra di nessuno che sta dentro e dietro ogni esistenza.

Il suo modo di scrivere e’ divenuto proverbiale, il suo stesso cognome un aggettivo, "pinteriano", per indicare quel tocco che da’ insieme ambiguita’ e spessore a ogni cosa scritta, e che reputa le pause importanti quanto le sillabe. Un patrimonio ereditato dal proprio mestiere di attore, bravo e bellissimo, dopo l’esperienza dei quartieri proletari dell’East end londinese (dove suo padre di famiglia ebrea sefardita faceva il sarto), dopo l’infanzia rapita in Cornovaglia per scampare i bombardamenti tedeschi, dopo una breve frequentazione della Rada (l’accademia drammatica dove si e’ formato il Gotha delle scene anglosassoni), e dopo un paio di processi per diserzione per la sua ostinata obiezione di coscienza al servizio militare.

Un mestiere d’attore nelle periferie del Regno Unito, alternando di sera in sera Shakespeare con i gialli della piu’ pura tradizione inglese, che gli ha permesso di capire quali fossero le parole giuste per dare corpo in scena alle sue creature. Un linguaggio che con maestria e versatilita’ rare gli faceva firmare testi per la scena, per la radio e la televisione (avendo la Bbc la fortuna di un producer geniale e lungimirante con Martin Esslin), e poi il cinema. Catalogato prima, proprio dallo stesso Esslin, dentro Il teatro dell’assurdo (un titolo che si rivelo’ una formula tanto fortunata quanto precaria e destinata ad essere presto smentita), ma dimostratosi in fretta autonomo e di definizione assai difficile, come il suo teatro: "della minaccia", "dell’intrusione", "dell’incomunicabilita’". In realta’ Pinter andava allargando il proprio periscopio dentro l’umanita’ e le sue debolezze, e le sue deformazioni politiche, mentre si schierava nella societa’ e nelle strade contro gli armamenti, i colpi di stato totalitari, le aberrazioni del postcolonialismo, le violenze reazionarie della Thatcher contro i minatori o gli altri lavoratori in sciopero.

Cosi’ che dagli anni Ottanta anche il teatro pinteriano e’ stato invaso, contaminato, vivificato e in qualche modo "storicizzato" da quella realta’: Il bicchiere della staffa, Il linguaggio della montagna, il cristallino e agghiacciante Party Time. E poi ancora testi piu’ brevi, come Il nuovo ordine del mondo (che da un calco del beckettiano Catastrophe trae uno schizzo pauroso di killeraggio imperialista) o l’atroce Conferenza stampa, ovvero la prima apparizione pubblica di un nuovo ministro della cultura, fino a quel momento responsabile di polizia e servizi segreti. Sono testi sconvolgenti, dove appaiono in scena regimi dittatoriali, persecuzioni politiche e discriminazioni "linguistiche" a colpi di assassinio, che denunciano la sopraffazione e l’ingiustizia del nostro beato occidente "democratico". Con intuizioni quasi profetiche: in Party Time un gruppo di potenti chiuso in una sorta di zona rossa dibatte di futilita’ quali la cucina o il fitness, mentre fuori infuria la rivolta e gli scontri. Da questi anzi scappa un morto, che appare, alla fine, pallido come un fantasma, e si chiama Jimmy. Il testo e’ stato scritto nel ’94, ben prima del G8 genovese e della tragedia di Carlo Giuliani. Ma Pinter ha penetrato a fondo le strutture e i meccanismi del potere, validi ovunque. Perche’ mentre scrive quei testi, si pronuncia dal "Guardian" o dagli schermi della Bbc ("Ma solo di rado, e a notte fonda, quando c’e’ meno pubblico ad ascoltare" sospirava) contro l’assassinio di Allende alla Moneda e quello di monsignor Romero in Salvador; contro la tirannia che fino a pochi anni fa gravava su Timor est, e contro i bombardamenti "umanitari" nella ex Jugoslavia; contro le persecuzioni contro i Curdi nel Kurdistan turco, e contro i militari golpisti in Argentina. Era facile per i suoi lettori ambientare in quei contesti le sue ultime creazioni teatrali. Ma lui smentiva, con cortese intransigenza: tutto questo poteva accadere nella nostra civile e progredita Europa, dove vedeva il segno del thatcherismo perpetuato da Tony Blair, o nell’America di Bush che dopo l’undici settembre aveva scoperto ancor piu’ il proprio carattere reazionario se non canagliesco, testimoniato dagli orrori di Guantanamo e di Abu Grahib. Tanto da rendere i politici dell’impero occidentale protagonisti del suo storico discorso di accettazione del premio Nobel, giusto due anni fa. Che partiva dal proprio teatro, e dal rapporto che vi risiede tra realta’ e finzione, per denunciare la madre di tutte le finzioni, la politica capitalistica con tutte le sue estreme e perfino sanguinarie conseguenze.

Un uomo deciso, Pinter, e di grandissima forza. Due anni fa, era voluto tornare in scena, scegliendo Beckett, L’ultimo nastro di Krapp, ossessione di un uomo che ascolta la propria voce di trent’anni prima. Dava i brividi ascoltarlo, con la sua voce lesa dal tumore, centellinare i sospiri e le parole, dando un senso nuovo anche a Beckett, da quella sedia a rotelle da cui recitava la presa di coscienza della propria vita. Ma dopo, offrendo sorridente vino bianco ghiacciato agli ospiti italiani e a un Dustin Hoffmann scatenato che gli chiedeva un ruolo, aveva dimostrato che il teatro restituisce la vita. Ed esorcizza il fatto che ora lui sia uscito momentaneamente di scena.

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-  VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
-  Numero 279 del 30 dicembre 2008
-  Supplemento settimanale del martedi’ de "La nonviolenza e’ in cammino"
-  Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it


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