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MILANO. VIA CONCHETTA ....

A PRIMO MORONI, IN MEMORIA. E ALLA SUA LIBRERIA "CALUSCA" E AL CENTRO "COX 18" - IN QUESTI GIORNI SIGILLATO E SOTTO SEQUESTRO. Una nota di Federico La Sala

domenica 25 gennaio 2009
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. Relazioni chiasmatiche e civiltà.
Lettera da ‘Johannesburg’ a Primo Moroni, in memoriam [19 marzo 2000] *
Caro Primo
Se dico: il diritto romano e il diritto tedesco sono entrambi
diritti, ciò è ovvio. Se invece dico: il diritto, questo
astratto, si realizza nel diritto romano e nel diritto
tedesco, questi concreti diritti, il nesso diventa mistico
(K. Marx, L’analisi della forma di valore, Bari, Laterza,
1976, p. 76).
Se dico: un uomo e una donna sono (...)

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> A PRIMO MORONI, IN MEMORIA -- NANNI BALESTRINI. Addio al Poeta dell’Avanguardia, pioniere ribelle. DaL "GRUPPO 63", a "Vogliamo tutto", a "L’orda d’oro", e ad "Alfabeta-2".

martedì 21 maggio 2019

Morto Nanni Balestrini, pioniere ribelle.

Scrittore, animatore culturale, curatore di antologie, portavoce della contestazione giovanile. Aveva 83 anni. Agli esordi componeva versi con un calcolatore Ibm

di Paolo Di Stefano (Corriere della Sera, 21.05.2019)

I nemici della neoavanguardia lo chiamavano «il poeta cotonato». Milanese, classe 1935, di padre lombardo e madre tedesca, fu Nanni Balestrini ad accendere i fuochi del Gruppo 63: per alcuni una colpa imperdonabile, per altri un grande merito. Era attratto dalle sperimentazioni elettroniche di Berio, Maderna e Stockhausen, e anche lui, allora giovane poeta e redattore della rivista letteraria «Il Verri», utilizzava un «calcolatore» Ibm per comporre versi: con il suo impeto forse incosciente fu Balestrini a convincere il barone siciliano Francesco Agnello a ospitare una riunione di letterati durante la rassegna internazionale della Nuova Musica. E così il 3 ottobre 1963 l’Hotel Zagarella di Solanto accolse il vivace manipolo di giovani intellettuali in bungalow che si affacciavano sul mare del piccolo golfo a ovest di Palermo.

I nomi oggi sono noti: c’erano Umberto Eco, Angelo Guglielmi, Renato Barilli, Enrico Filippini, Alberto Arbasino, Amelia Rosselli, Furio Colombo, Giorgio Manganelli, Francesco Leonetti... E i cinque poeti che nel 1961 avevano fatto parte dell’antologia I Novissimi: Elio Pagliarani, Antonio Porta, Edoardo Sanguineti, Alfredo Giuliani e lo stesso Balestrini.
-  Tra le presenze silenziose all’Hotel Zagarella c’era Elio Vittorini, mentre Alberto Moravia partecipò opponendosi con vigore (e divertimento) alle tesi dei «ribelli». Tra i giornalisti che seguirono la denuncia contro le Liale del ’63 (Cassola, Bassani) facevano capolino Andrea Barbato e Sandro Viola. Ne venne fuori, sull’«Espresso», una cronaca dal titolo L’avanguardia in vagone letto, tratto da una frase di Eco.

Abbandonati gli studi di economia, redattore della Bompiani (con Eco) e poi della Feltrinelli (fino al ’72, anno della morte di Giangiacomo), Balestrini è stato un precoce accanito sperimentatore, creatore e pioniere di nuove forme, combinatore di collage, indagatore sconfinante ovunque - nel teatro, nella musica, nel balletto, nelle arti visive - con assemblaggi e bricolage che facevano inorridire i pacifici fautori del romanzo tradizionale e della poesia postermetica. Il primo frutto narrativo del suo furore avanguardistico fu Tristano (Feltrinelli 1966), definito un «romanzo multiplo», che nelle intenzioni doveva essere un progetto di esemplari illimitati e diversi l’uno dall’altro, composto di materiali preesistenti, scarti e rimasugli della narrativa rosa, dei libri di geografia e di navigazione, dei saggi storico-politici. In realtà si trattò di un omaggio ironico all’archetipo del romanzo amoroso ma in forma di inventario provocatorio della merce verbale capitalistica, percepita come sostanza già un po’ deperita.

È con Vogliamo tutto (Feltrinelli 1971) che Balestrini si impone all’attenzione del pubblico (con traduzioni pressoché immediate), trattando il tema dell’autunno caldo del 1969, la mobilitazione sindacale e le rivendicazioni delle fabbriche del Nord. A colpire nel segno è il «montaggio creativo», un altro lavoro combinatorio, che questa volta si avvale della registrazione della voce al magnetofono di un operaio salernitano, Alfonso Natella, emigrato a Torino e coinvolto nella protesta: documenti prelevati direttamente dalla realtà, restituiti senza sintassi né punteggiatura, quasi come pure «impressioni» ritmiche e referenziali, la cui organizzazione per blocchi narrativi intercambiabili è spinta al limite del nonsense. Natella è l’operaio-massa vittima dell’alienazione, personaggio collettivo «ossessionato dalla ricerca di una fonte di reddito per consumare e sopravvivere», incapace però di accettare la nuova ottica produttiva.

Il «rifiuto di ogni valenza soggettiva e consolatoria» è anche la cifra dei versi di Balestrini, a partire da Il sasso appeso (Scheiwiller 1961), con il suo linguaggio programmaticamente alieno ai registri alti. Agitatore instancabile per natura, gli si deve l’invenzione del mensile Quindici, e alla fine degli Anni 70 la fondazione di un altro mensile, Alfabeta: nella cui redazione raccolse gli amici di sempre, la studiosa Maria Corti, il poeta Antonio Porta, Umberto Eco e Pier Aldo Rovatti, gli scrittori Francesco Leonetti, Mario Spinella e Paolo Volponi, il grafico Gianni Sassi. Un gruppo formidabile, da cui nacque quella che Romano Luperini ha definito «l’ultima rivista del Novecento italiano, l’ultimo nucleo culturale che tenne acceso il dibattito letterario, politico e culturale»: uno spazio che riuniva varie anime, dai critici legati al Pci alle espressioni radicali extraparlamentari, dall’accademia strutturalista agli eredi della neoavanguardia, dal pensiero debole al postmoderno internazionale.

Intanto, coinvolto nell’ondata di arresti che dal 7 aprile 1979 coinvolsero per associazione sovversiva e banda armata molti esponenti di Autonomia operaia, Balestrini evitò il carcere rifugiandosi in Francia fino all’84, quando fu assolto e potè tornare in Italia. Già nel 1976, il suo «sismografo» ipersensibile aveva registrato i sommovimenti e le paure degli anni di piombo ne La violenza illustrata (Einaudi), un nuovo libero montaggio-laboratorio, questa volta fatto di deposizioni processuali, dissertazioni, cronache di guerriglia.

Guardando alla sua energia proteiforme, anche i suoi (numerosi) detrattori dovranno riconoscere la strenua fedeltà di Balestrini a un’idea di letteratura contaminata, «sporca», a suo modo testimonianza civile dei luoghi più caldi della contemporaneità (per esempio le curve da stadio ne I furiosi, Bompiani 1994 ). A testimonianza della sua tenacia nella lotta, ancora nel 2010 tornò nell’arena della più stretta militanza rilanciando una nuova serie di Alfabeta con giovani compagni di strada come Andrea Cortellessa, Maria Teresa Carbone e Andrea Inglese. Cercava il dialogo con le generazioni più giovani e lo ottenne.


Balestrini. Addio al Poeta dell’Avanguardia

Con Eco, Arbasino e altri era stato fondatore e voce di uno dei movimenti letterari più creativi degli anni Sessanta e Settanta: il suo “Vogliamo tutto” è stato il manifesto di una intera generazione

di Furio Colombo (Il Fatto, 21.05.2019)

E adesso? Nanni Balestrini, ventenne allora, ottantenne nel giorno della chiusura, ha sempre provveduto alla esistenza, alla convivenza, allo stare e ritornare insieme, al rilanciare la fune cui aggrapparsi per continuare un legame che avrebbe dovuto evaporare negli anni e che è stato chiamato Gruppo 63.

È vero, si è disperso, ma per un ritrovarsi continuo, in un intrico di rapporti che - dalla citazione alla collaborazione professionale -, finisce solo, di volta in volta, per ragioni di destino, mai per noia o caduta di interesse. Qui sto usando la parola “destino” nel senso spagnolo di destinazione, perché uno dei più importanti eventi del Gruppo 63 ha avuto luogo a Barcellona (nel 1966), complici un gruppo di architetti, una attivissima casa editrice e alcuni pittori catalani già celebri. Erano gli ultimi giorni del franchismo, ma la Catalogna si considerava libera, e Balestrini non ha avuto alcuna esitazione nel convocare la nostra riunione in Spagna (dove il Gruppo aveva già la sua filiale).

Infatti ignorare i confini e non tener conto “dei nostri valori tradizionali” era già lo spirito profondo del gruppo che Balestrini aveva, allo stesso tempo, portato nel gruppo e assorbito dal gruppo. Esempi: da un lato Balestrini aveva agganciato la piccola (e poi molto cresciuta) casa editrice Wagenbach di Berlino, e gli scrittori del Gruppo tedesco 47. Dall’altra, con Arbasino autore della Gita a Chiasso (il messaggio era: “Andate almeno al confine svizzero per intravedere il resto del mondo, e sapere che c’è vita fuori dai sacri confini della patria”), aveva lanciato il manifesto della nuova aggregazione di poeti, scrittori, filosofi, musicisti, pittori, scienziati, liberi da ogni superstizione sovranista (la parola non esisteva, ma c’erano già i post-fascisti).

Balestrini non aveva (e dunque il Gruppo 63) e non ha mai avuto agganci politici nel senso italiano della espressione. La destra aveva trovato nel Gruppo 63 i suoi nemici (contro la tradizione, scherziamo?). Il centro non si fidava e non si sarebbe neppure accostato. Craxi era celebre per il suo rude modo di rivolgersi alla cultura con parole come “intellettuali dei miei stivali”. Il Pci non trovava l’oggetto “avanguardia” (parola comunque sospetta) nei suoi scaffali, neppure sotto la voce “sperimentalismo” (che avrebbe potuto essere un escamotage del capitalismo in cerca di infiltrazioni tra i giovani), e non apprezzava humour e satira che il gruppo spargeva intorno, anche per avere spazio e respiro rispetto all’assedio perdurante della letteratura del sentimento.

Nasce Quindici, il giornale del gruppo, dal disegno e formato unico (nel senso di enorme ed elegantissimo), proposto e realizzato (la produzione), ovviamente, da Balestrini, scritto dal gruppo, cominciando con Umberto Eco, atteso dai grandi settimanali per cogliere titoli e argomenti. Qui la politica si accosta in un altro modo, in forma di rivoluzione. Si tratta di decidere se e a chi dare la parola, nel mondo giovane che esplode al di fuori del gruppo, ma quasi contiguo. Il Gruppo 63 dice no, perché scarta e respinge la violenza. Interrompe le pubblicazioni. Comincia una stagione difficile, afona. La festosa creatività che era stata il segno del gruppo diventa un lavorare più intenso e isolato.

Balestrini scrive Vogliamo tutto, forse il libro simbolo di quegli anni (che sono anche gli “anni di piombo”), la più attendibile interpretazione di quello che sta accadendo, che non chiede adesione ma fornisce il più straordinario murale di un’epoca. Eco pubblica Il nome della Rosa con il suo immenso, leggendario successo. E qui leggereste, in ogni altra storia di gruppi culturali, che il legame si scioglie e ognuno torna alla suo unico mondo. Ma non è stato così. Nel 2016 a Milano, c’erano tutti alla mostra di Balestrini (figure ottenute da un collage di parole) a cominciare da Eco.

Poche sere fa, da Otello, a Roma, Angelo Guglielmi (il critico divenuto manager), Giovanni Battista Zorzoli (lo scienziato divenuto letterato) e Balestrini erano insieme a cena, in un incontro convocato da Balestrini per un nuovo numero della rivista Alfabeta.


Il rigore della speranza

Vogliamo tutto. Nanni Balestrini scrisse anche «L’orda d’oro»: è il lavoro che portò a termine insieme a Primo Moroni nell’anniversario del ’68, vent’anni dopo

di Sergio Bologna (il manifesto, 21.05.2019)

Se qualcuno di noi, sociologo, storico orale, giornalista, avesse nel 1969, in pieno autunno caldo, intervistato Alfonso Natella noi avremmo oggi in archivio una delle tantissime testimonianze conservate come un bene prezioso ma che pochi leggono. Consegnata, quella testimonianza, a uno scrittore, a un poeta come Nanni Balestrini, è diventata un simbolo inestinguibile dei valori del ’68 operaio e non solo. La potenza del linguaggio letterario si esprime in Vogliamo tutto con quella valenza universale che riesce a condensare storia e memoria, utopia e iperrealismo, calcolo e speranza.

Sì, calcolo anche. Perché una lotta operaia dove sono in gioco interessi grossi, dove ciascuno si gioca il posto di lavoro, dove, se finisce bene, si cambia la storia d’Italia e il rapporto tra istituzioni, da dove può nascere addirittura un nuovo modo di produrre l’automobile - una cosa così né s’improvvisa né può riuscire senza che una serie complessa d’intelligenze, di conoscenze, una massa pesante d’esperienze vengano messe assieme, trasformate in sentire collettivo, codificate in parole d’ordine... e si decida di cominciare.

Di quegli anni, di quelle lotte, noi dovremmo proprio ripensare l’idea di spontaneità e dovremmo combattere lo stereotipo dell’operaio meridionale neoassunto che si ribella «perché è incazzato». Vogliamo tutto è la voce di un sapere antico che non ha difficoltà a decodificare i meccanismi delle moderne tecno-strutture. Altro che mera incazzatura, da lì sono nate le azioni e le riflessioni che hanno trasformato la medicina del lavoro, il modo d’insegnare, di fare informazione e anche, forse, il modo di scrivere. Balestrini ha avuto il grande merito di capire che se c’era una continuità nell’esperienza di avanguardia letteraria, quella che lo aveva visto tra gli iniziatori del Gruppo 63, la si poteva trovare solo nel rapporto coi movimenti del ‘68/’69. Aveva capito che fare cultura era un’altra cosa dopo il ’68.

E qui si potrebbe riaprire il capitolo del rapporto tra intelletti e movimenti sociali con intenzioni rivoluzionarie. Un tema fin troppe volte esplorato ma che, riconsiderato alla luce dell’esperienza umana di Nanni, può presentare ancora qualche spunto stimolante. In che senso? A mio avviso per capirlo occorre prendere in mano dopo Vogliamo tutto il lavoro che Balestrini porta a termine assieme a Primo Moroni, L’orda d’oro. Lo scrivono in una situazione in cui noi ci siamo trovati l’anno scorso: l’anniversario del ’68. Come in Vogliamo tutto Balestrini s’era scelto quale interlocutore una persona che meglio poteva rappresentare l’autunno operaio, così nel 1988 si sceglie come interlocutore la persona che meglio poteva interpretare lo spirito del movimento del 1977: Primo Moroni. Il libro va a ruba, è introvabile, lo prende in mano Sergio Bianchi, lo arricchisce di contributi e lo stampa con Feltrinelli nel 1997, una terza edizione uscirà nel 2003 e l’anno scorso, 2018, lo abbiamo ancora riletto e usato nelle commemorazioni del cinquantenario. Non è usuale che un libro di storia dopo 30 anni sia ancora rivelatore.

Ecco, bastano queste due opere per consentirci di fare il paragone con un altro che ha caratterizzato la sua vita di scrittore, saggista, poeta, sulla base di un rapporto coi movimenti: Franco Fortini. Due approcci più diversi al rapporto tra cultura, scrittura e movimenti è difficile immaginarli.

Franco ha interpretato il suo ruolo come quello di un profeta, di un censore, come quello di una guida che continua a richiamare al retto cammino una moltitudine che procede un po’ disordinata. La sua voce quindi si leva sopra il movimento, si deve sentire forte. Aspro dev’essere il suo tono che richiama i confusionari al rigore, alla coerenza e i sovraeccitati alla misura. La voce di Nanni invece non si sente, si confonde con quelle della moltitudine, una voce che non ostenta saggezza ma contiene tanto sapere tacito. Non c’è il minimo protagonismo nei suoi rapporti con il movimento mentre, credo - a partire da me stesso - di protagonismo e di narcisismo è infestata la dimora di quelli che vengono definiti «intellettuali». E magari alcuni ci cascano e pensano davvero di esserlo, mentre sono invece, ahimé, inutili rompiscatole.

Franco Fortini e Nanni Balestrini si sono mossi su due dimensioni diverse, hanno interpretato due ruoli ben distinti ma ambedue indispensabili: il ruolo del battistrada (oggi diremmo della leadership) e quello che Primo Moroni definiva «il ruolo della struttura di servizio».


Nel mio viaggio con Nanni

La ricerca del linguaggio la poesia e la pratica come irripetibile luogo di comunanza e parola che si rigenera nel «noi»

di Giairo Daghini (il manifesto 21.5.19)

E noi facciamone un’altra, era un leit motiv di Nanni quello di ricominciare sempre da capo tornando al luogo da dove si è partiti. Come la rivoluzione. Come il linguaggio. Ma per farne un altro. Il linguaggio senza fine del divenire. Ho compiuto molti viaggi con Nanni, sempre scavalcando delle frontiere. Il confine è uno spazio che vale come separazione, limitazione o come possibilità di connessione e attraversamento. Lui lo ha sempre pensato e scritto come spazio di apertura e di sperimentazione. Il confine liberato dagli aculei dei reticolati per la creazione di nuovi territori. O come la forma del linguaggio liberata dalle paludi della sintassi. Nella sua opera grafica, nei suoi découpages geografici saltano i confini chiusi e si ridisegnano nuovi ambienti del vivente.

Ho iniziato quel viaggio con Nanni molti anni fa, nel 1960 quando con «Linguaggio e opposizione» egli opponeva al comune linguaggio convenzionale, il linguaggio magmatico del parlato fatto di ritmi inconsueti , di grovigli, di immagini spropositate come il luogo di straordinarie apparizioni di fatti e pensieri. «Di qui - diceva - si fa strada l’idea di una poesia che nasca e viva diversamente. Una poesia più vicina all’articolarsi dell’emozione e del pensiero in linguaggio, espressione confusa e ribollente ancora, che porta su di sé i segni del distacco dallo stato mentale, della fusione non completamente avvenuta con lo stato verbale».

L’ascolto di quelle emozioni, di quel linguaggio era anche la linea di comportamento di noi che in quegli anni facevamo intervento ai cancelli delle fabbriche dove era arrivata una nuova generazione di lavoratori. Il nostro intervento di antagonismo a quel lavoro, a quello sfruttamento si incontrava sul suo fare poesia come opposizione al dogma e al conformisno che minaccia il nostro cammino, che solidifica le orme alle spalle, che ci avvinghia i piedi, tentando di immobilizzarne i passi. Con la sua poesia, con la musica di Demetrio Stratos, con il nuovo linguaggio filosofico del marxismo e della fenomenologia ho praticato il viaggio di quegli anni.


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