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Approfondimento

Roma, Piazza Farnese, la giustizia, la Calabria: la serietà della società civile, la riduzione della stampa, l’errore di Grillo, lo scivolone di Di Pietro, la chiusura di "la Voce di Fiore", l’impegno dal basso

sabato 31 gennaio 2009 di Emiliano Morrone
Ieri ho visto almeno quattro anime alla manifestazione di Roma per la giustizia. C’era la società civile, composta, consapevole, solidale, reattiva. C’era Beppe Grillo, col suo copione di scena, riciclato e ripetitivo. C’era Antonio Di Pietro, politico, che ha definito mafioso il silenzio, quando occorre parlare. C’era la stampa, infine, pronta a selezionare, con successiva lavorazione, del materiale buono a squalificare l’evento.
Nella società civile c’erano Salvatore Borsellino, che ha (...)

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> Roma, Piazza Farnese, la giustizia .... L’uragano che si è scatenato su Di Pietro induce ad una riflessione sullo stato della libertà nel nostro Paese. Non c’è giornale, gruppo politico, sito Internet o commentatore che non si sia scagliato con furia contro l’ex Pm più famoso d’Italia: e non per controbattere l’opinione sul presunto «silenzio» del Quirinale, ma per negarne la legittimità, la possibilità stessa di esistere (di Fabrizio Rondolino).

venerdì 30 gennaio 2009

L’allarmante caso Di Pietro

di FABRIZIO RONDOLINO (La Stampa, 30/1/2009)

L’uragano che si è scatenato su Di Pietro induce ad una riflessione sullo stato della libertà nel nostro Paese. Non c’è giornale, gruppo politico, sito Internet o commentatore che non si sia scagliato con furia contro l’ex Pm più famoso d’Italia: e non per controbattere l’opinione sul presunto «silenzio» del Quirinale, ma per negarne la legittimità, la possibilità stessa di esistere. Mezzo Pd ha chiesto di rompere ogni rapporto con l’Italia dei Valori, tutti i senatori della Repubblica sono scattati in piedi per applaudire la loro «convinta solidarietà» a Napolitano, il presidente emerito Scalfaro ha segnalato l’esistenza di un reato. E lo stesso Quirinale, con un comunicato che ha pochi precedenti, ha giudicato «pretestuose» e «offensive» le parole di Di Pietro.

Quelle parole sono probabilmente sbagliate, ma non sono né arbitrarie né insultanti: appartengono al dibattito politico. Ci sono molto buoni argomenti e una notevole documentazione per sostenere che il presidente Napolitano sulle questioni della giustizia non è venuto meno al suo ruolo costituzionale di arbitro, e che il suo presunto «silenzio» non è affatto assimilabile a un comportamento mafioso. Le opinioni sollecitano controargomentazioni: non comunicati di solidarietà, ritorsioni politiche o denunce alla magistratura.

Il caso Di Pietro è tanto più allarmante, in quanto non è isolato. Il capitano della Nazionale, Fabio Cannavaro, per aver detto che Gomorra (il film) «non gioverà all’immagine dell’Italia nel mondo, abbiamo già tante etichette negative», è stato accusato di colludere con la camorra, e più d’uno ha chiesto che gli sia tolta la fascia di capitano. Su Facebook, il network sociale più popolare di Internet, è in corso una campagna per cancellare quei gruppi di discussione che si proclamano fan dei mafiosi e, più recentemente, quelli che inneggiano allo stupro di gruppo.

Sono opinioni abominevoli, ma sono opinioni. Questo confine non va mai cancellato. Un conto è sostenere cha la Shoah non è mai esistita, e un conto è bruciare una sinagoga. Un conto è chiedere che i rom siano cacciati, e un conto è assaltare i loro campi. È evidente che c’è un nesso fra le parole e le azioni: altrimenti, perché mai dovremmo parlare o scrivere? Il concetto stesso di educazione si basa sulla convinzione che le parole producano risultati. Ma spetta singolarmente a ciascuno di noi compiere o meno un’azione, e assumersene la responsabilità. Alle parole si può rispondere soltanto con altre parole.

Se ci pensiamo, l’unica vera libertà che ci appartiene come diritto naturale, e che definisce il nostro orizzonte nel mondo, è la libertà di esprimerci: è cioè la libertà di pensiero, di stampa, di coscienza, di religione, di ricerca scientifica... Tutte le nostre attività, che sia scrivere una canzone o andare in chiesa, votare alle elezioni o comprare un giornale, trovare un rimedio all’Alzheimer o scegliere una compagnia telefonica, hanno a che fare in un modo o nell’altro con la libertà di espressione. Poter dire la nostra, senza costrizioni né vincoli, è dunque il bene più prezioso. Se introduciamo un qualsiasi criterio per giudicare quali opinioni si possono esprimere e quali no, in quello stesso momento deleghiamo ad altri, fosse pure una maggioranza democraticamente eletta, la nostra personale libertà di espressione, che è invece inalienabile perché è soltanto nostra, come la vita. Chi può decidere che cosa è lecito dire e che cosa non lo è? Mentre è evidente che ammazzare un uomo per strada è un reato, è molto meno evidente la linea che separa un fan club dei Soprano da un fan club di Riina: in realtà, se ci pensiamo bene, questa differenza non c’è. Sta alla responsabilità di ciascuno capire che una cosa è un telefilm, una cosa è scrivere corbellerie su un capomafia pluriomicida, e un’altra cosa ancora è sparare.

La libertà di espressione è indivisibile. Tutti dovrebbero poter esprimere liberamente le loro opinioni. Soprattutto le più ributtanti. Mentre infatti la censura nasconde il problema e in questo modo sceglie di non risolverlo, un dibattito libero e aperto non esclude la possibilità di convincere chi non la pensa come noi.


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