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Nonostante le lezioni di Benigni, non abbiamo ancora capito le ragioni dantesche di Ulisse all’inferno. E la cultura italiana continua a navigare in uno "stato" sonnambolico....

GLI ESEMPI TAROCCATI DI BARICCO E DI SCALFARI E L’ITALIA STRETTA NELL’ABBRACCIO MORTALE DEL "CAVALEONTICO" ULISSE DI ARCORE. Una nota di Federico La Sala

E io non credo affatto che gli italiani e le italiane abbiano già ’ucciso’ dentro di loro il loro padre-presidente, né che vogliano perdere la loro corona di cittadini-sovrani e cittadine-sovrane!
venerdì 27 febbraio 2009 di Federico La Sala
IL SONNO DELLA RAGIONE COSTITUZIONALE GENERA MOSTRI.

L’ESEMPIETTO DI ALESSANDRO BARICCO:
[nella crescita culturale dei cittadini le democrazie fondano la loro stabilità. Giusto. Ma ho un esempietto che può far riflettere, fatalmente riservato agli elettori di centrosinistra. Berlusconi. Circola la convinzione che quell’uomo, con tre televisioni, più altre tre a traino o episodicamente controllate, abbia dissestato la caratura morale e (...)

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> GLI ESEMPI TAROCCATI --- Generazione Telemaco (in attesa di crescita). La missione di Telemaco. Telemaco, l’Erede che forse non Fu mai Re. Telemaco senza fili.

giovedì 3 luglio 2014

La missione di Telemaco

di Massimo Recalcati (la Repubblica, 03.07.2014)

LA POLITICA della rottamazione ha avuto il senso di introdurre una discontinuità necessaria in un mondo politico che nel suo insieme si è rivelato inadeguato a governare la vita della Comunità. Ma la figura di Telemaco - citata ieri da Renzi - va oltre la rottamazione.

INTANTO perché Telemaco - o il suo complesso come ho titolato un mio libro di due anni fa -, diversamente da Edipo, non vive nell’antagonismo mortale e sterile nei confronti dei padri come è accaduto per le generazioni del ‘68 e del ‘77. Telemaco si configura piuttosto come l’immagine del figlio giusto, cioè del giusto erede. Essere figli giusti, essere giusti eredi, significa riconoscere il debito simbolico con chi è venuto prima di noi. È entrare in una relazione generativa con i nostri avi. Questo ha fatto Renzi nei confronti dei padri costituenti dell’Unione Europea.

Il riconoscimento del debito è la condizione necessaria per essere giusti eredi. Ma Telemaco e con lui le nuove generazioni, sa bene che l’eredità non è acquisizione passiva di rendite, di beni o di geni. Piuttosto - come ricordava nell’ultima frase scritta di suo pugno il padre della psicoanalisi citando Goethe - per possedere davvero quello che i padri hanno lasciato devi riconquistarlo. È questo il movimento più autentico dell’ereditare. Ecco perché Telemaco non è solo una figura della nostalgia.

Egli non si limita ad attendere dal mare il ritorno glorioso del padre per riportare la Legge ad Itaca offesa dai Proci. Non assomiglia per nulla ai personaggi beckettiani di Aspettando Godot che restano paralizzati nell’attesa di essere salvati. È necessario invece che il figlio si cimenti nel suo proprio viaggio e che corra il pericolo più grande, è necessario che sfidi il mare.

È con il viaggio di Telemaco e non con quello di Ulisse che si apre l’Odissea di Omero. I Proci attentano la vita del figlio che vuole ristabilire la Legge nella sua città. Eppure i nostri figli - Matteo Renzi compreso - , diversamente da Telemaco, non sono figli di re, non ereditano regni. Piuttosto viene lasciato loro un mondo incerto, senza futuro e senza speranza. Ma il figlio giusto, il giusto erede, è anche colui che sa assumere fino in fondo la propria responsabilità. L’etimologia del termine erede - come ha mostrato bene Massimo Cacciari - viene infatti dal greco cheros che significa spoglio, deserto, mancante e che rinvia a orphanos, orfano. Questo significa che è solo il viaggio del figlio che rende possibile la fondazione di una nuova alleanza tra le generazioni.

Il nostro tempo non è il tempo degli adulti che non esistono più e di cui la crisi della politica è stata una delle manifestazioni più acute. I padri si sono persi nella maschera paradossale di una giovinezza che non vorrebbe mai finire confondendosi coi loro figli.

La notte dei Proci che ha caratterizzato i nostri ultimi venti anni è anche la notte di una caduta della differenza simbolica tra le generazioni. Oggi è il tempo dei figli e del loro viaggio: Telemaco, diversamente da Edipo non vuole la pelle del padre, non rifiuta la filiazione, non entra in un conflitto mortale con i suoi avi. Sa che per riportare la Legge ad Itaca bisogna unire le forze, bisogna rifondare un patto tra le generazioni.


Telemaco, l’Erede che forse non Fu mai Re

di Eva Cantarella (Corriere della Sera, 03.07.2014)

Di Telemaco si parla poco, ha detto Renzi. È vero, se ne parla poco. E non a caso, con un padre come quello che aveva. Se il confronto con un genitore celebre è spesso molto difficile, come non pensare con simpatia al figlio di un eroe assolutamente speciale qual era Ulisse, l’ «uomo dalle molte astuzie» capace di compiere imprese che neppure il più forte degli Achei, Achille, sarebbe mai riuscito a compiere? E come se questo non bastasse quel padre era partito per la guerra lasciando Telemaco ancora bambino e la moglie Penelope alle prese con ben cento otto pretendenti, che volevano sposarla per conquistare il potere su Itaca. Povero Telemaco.

All’inizio dell’Odissea lo incontriamo quando ha raggiunto l’età adulta. Esortato dalla dea Atena convoca l’assemblea degli itacesi, ai quali chiede di dargli una nave per andare a cercare notizie del padre, come ben noto assente da vent’anni. Gli itacesi non ci pensano neppure. È solo per intervento di Atena che Telemaco riesce a partire per interrogare Nestore e Menelao: non per colpa sua, un viaggio del tutto vano.

Per ritrovarlo in azione dobbiamo aspettare che Ulisse, tornato finalmente a Itaca, lo incontri di nascosto e gli esponga il suo piano di battaglia. L’operazione scatta durante la celebre gara con l’arco, indetta da Penelope per decidere a quale dei proci concederà la sua mano. Affiancato da Telemaco, Ulisse stermina i pretendenti. Il potere regale è di nuovo nelle sue mani. E Telemaco? Quale sarà il suo ruolo? A Itaca non esistevamo regole dinastiche. Il potere regale passava ai figli solo se questi lo avevano meritato. Telemaco lo meritò? Non lo sappiamo.


Telemaco senza fili

di Massimo Gramellini (La Stampa, 03.07.2014)

Hai venti minuti per parlare davanti a una platea di europarlamentari gentilmente offerti da un’azienda di surgelati. Puoi berlusconeggiare, ribadendo lo stereotipo dell’italiano simpatico, furbo e un po’ cafone. Oppure mariomonteggiare, ipnotizzando con dei mantra numerici un pubblico che non chiede di meglio per continuare a dormire in pace. Potresti persino enricoletteggiare e produrti in una lista di promesse di buon senso che qualunque presidente di turno dell’Unione Europea ripete senza sosta da vent’anni.

Invece, essendo Renzi e non facendoti difetto l’autostima, decidi di renzeggiare. Evochi lo spirito dei tuoi idoli Blair e Obama - nessuno dei due, guarda caso, centroeuropeo - e ti produci in un monologo carico di valori, passioni, riferimenti storici e letterari. Avendo letto il libro omonimo dello psicanalista Recalcati, attingi a «Il complesso di Telemaco» ed elevi il figlio di Ulisse che cerca di meritarsi l’eredità a simbolo della tua idea di Europa.

Il problema è che lo stai dicendo proprio all’assemblea dei Proci, che oggi non sono i principi di Itaca e neppure i politici italiani che ogni giorno costringono Penelope Boschi a fare e disfare la tela delle riforme. Sono i burocrati di Strasburgo, i ragionieri di Berlino e gli eurofobi di Farage e Le Pen: tutta gente molto prosaica e prevenuta, che da te vorrebbe sapere soltanto una cosa: quando pagherai i debiti, affamando sempre di più quegli scansafatiche baciati dal sole dei tuoi connazionali.

Per fare fuori i Proci che il destino ti ha dato in sorte un bel discorso purtroppo non basta. Come Telemaco, avresti bisogno dell’esperienza di Ulisse. Invece hai solo D’Alema.


Telemaco, mille geniali metafore

di Silvia Ronchey (La Stampa, 03.07.2014)

Transfert geniale questo di Matteo Renzi con Telemaco, che l’ispirazione sia stata mediata dalla musa di uno psicanalista lacaniano, come qualcuno ha ipotizzato su twitter, o gli sia venuta direttamente da Omero, come si direbbe dalle altre citazioni classiche intessute nel discorso preparato per iscritto, ma tenuto a braccio, in cui ha esposto i suoi e nostri problemi all’assemblea dell’europarlamento un po’ come Telemaco nel palazzo di Nestore a Pilo nel terzo libro dell’Odissea.

Alto e squadrato, eloquente e conciso, come figlio di Ulisse e rappresentante dell’evocata «generazione Telemaco» Renzi funziona nell’immagine anche meglio dell’efebico Telemaco televisivo della nostra, se non sua, infanzia.

Soprattutto funziona diabolicamente l’immagine di un’Italia-Itaca in cui anche il locale parlamento, che Telemaco presiede all’inizio del secondo libro, è sopraffatto dai Proci, dialettici e scostumati divoratori dell’erario cittadino; di un’Italia-Penelope che tesse e stesse la sua tela, disperata e paziente, pur di non cedere a nessuno di loro la mano e la corona dello sposo Ulisse; il quale però è da vent’anni assente, latitante, morto o disperso in mare, e non sa o forse non vuole tornare.

Ma Atena, dea della ragione, affianca Telemaco e lo rassicura, gli dice di darsi da fare, di muoversi, di viaggiare. E’ quella che gli antichisti conoscono come la Telemachia. E fatto sta che al suo termine il dinamismo del figlio e i rischi che da ogni parte si attira convincono gli dèi dell’Olimpo a far sì che il padre lontano lasci Calipso e intraprenda davvero il ritorno in patria.

Siamo nel quinto libro e ce ne vorranno altri diciannove prima che Ulisse torni, uccida i Proci e riconquisti Itaca. Se Renzi si propone come Telemaco, il percorso che propone al Parlamento europeo non è certo breve né tanto meno facile - è un’odissea - e il messaggio che lancia all’inizio del semestre di presidenza italiana non è né superficiale né ottimistico, ma volutamente intriso di antica, dolente e anche umile lucidità mediterranea.


Generazione Telemaco (in attesa di crescita)

di Franco Venturini (Corriere della Sera, 03.07.2014)

Se Matteo Renzi voleva contrapporre la passione della «generazione Telemaco» al banale burocratese di una Europa stanca, il suo debutto al Parlamento di Strasburgo è stato un successo e l’intervento di José Manuel Barroso gli ha dato ragione a tempo di record. Ma se il premier si proponeva di coinvolgere l’Aula in una svolta programmatica, se intendeva spiegare in concreto quali cambiamenti favorevoli alla crescita l’Italia sosterrà nel semestre, allora il discorso tenuto ieri difficilmente troverà posto tra i momenti decisivi della storia europea.

Sarebbe ingenuo pensare che Renzi non abbia calcolato le sue scelte: a lui interessava scuotere un albero che tutti considerano malridotto, stimolare valori comuni spesso dimenticati, ricordare con orgoglio radici di civiltà lontane (guarda caso greche e romane), e poi passare al moderno indicando genericamente nella crescita l’unico futuro possibile per l’Europa. Non voleva, il presidente del Consiglio, mettersi a parlare di parametri cifrati o di «flessibilità» molto annunciate in Italia ma in concreto tutte da definire. E così ha fatto, almeno fino a quando la parola è passata ai deputati e il capogruppo del Ppe, il tedesco Manfred Weber, gli ha rovinato il tragitto previsto.

Come se non avesse ascoltato le vaghezze economiche contenute nel discorso di Renzi, Weber ha preso di petto «l’idea di tempi più lunghi per rispettare i parametri del deficit e del debito» . Allora, nella replica, si è visto un altro Renzi. Se Weber parlava a nome del Ppe, non è aggiornato. Se parlava a nome della Germania, provi a ricordare quando si dovette concedere flessibilità alla Germania che era fuori dai parametri. E poi niente pregiudizi e niente lezioni all’Italia, da nessuno. Insomma, l’esibizione prevista soft è diventata aspra all’improvviso, come se una misteriosa sirena avesse suonato l’allarme per passare dai voli pindarici alla assai più difficile realtà europea.

Il ghiaccio sotto i piedi di Renzi è dunque piuttosto sottile, ma va detto che prima dell’incidente con Manfred Weber il presidente del Consiglio ha seguito con abilità la traccia che si era proposto. Un giovanile selfie , ha detto parlando a braccio, ci mostrerebbe una Europa stanca, annoiata, forse rassegnata. Bisogna avere il coraggio di reagire, di ritrovare la sua anima e la sua identità che non si esauriscono nella lotta alla crisi finanziaria. Attenzione: sulla crisi finanziaria e le questioni economiche in generale «ci faremo sentire con forza». Ma non qui e non oggi, per ora basterà ribadire che l’Italia non chiede di cambiare le regole, è decisa ad osservare come priorità l’attuazione delle riforme a casa propria, e «non si rivolge all’Europa per avere, bensì per dare». In parole meno roboanti, la nostra presidenza si batterà per ricordare che il patto di stabilità si chiama anche «di crescita», e che risiede appunto nell’incoraggiamento della crescita l’unica speranza di riscatto dell’Italia e dell’Europa intera.

Renzi ha insistito molto sulla politica estera, forse per incoraggiare la candidatura di Federica Mogherini, che sedeva al suo fianco come vuole il protocollo, alla carica di Alto rappresentante. Il premier ha citato la Libia, collegata al dramma dell’immigrazione che l’Europa dovrà alleviare. Il Medio Oriente, dove «i ragazzi devono poter crescere», i palestinesi hanno diritto a una patria e Israele non ha soltanto il diritto ma anche il dovere di esistere «per ricordare a tutti noi i valori della memoria e del futuro». Le donne cristiane vittime di violenza, dal Pakistan al Sudan alla Nigeria. E poi l’Ucraina con il suo desiderio di libertà e di Europa, ma «non possiamo costruire l’Europa contro il nostro più grande vicino» (la Russia, ndr). E ancora mano tesa alla Gran Bretagna in tema di semplificazione delle istituzioni, l’Europa come «faro di civiltà», la «generazione Telemaco» che deve anche lei cercare, viaggiare, meritarsi l’eredità di Ulisse cioè dei fondatori.

Un Renzi doc, che nella foga ha anche commesso qualche errore: nulla sui marò nemmeno nella replica, il punto stampa saltato perché una serata tv lo attendeva a Roma. Poco male, se il Premier vincerà la partita che conta e che dopo ieri resta apertissima. Quella della crescita che deciderà tutto, per usare le sue parole.


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