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REALTA’ E RAPPRESENTAZIONE. STORIA ("RES GESTAE") E STORIOGRAFIA ("HISTORIA RERUM GESTARUM") ... E INTELLETTUALI.

I LIBRI DI "STORIA" E LE "DOMANDE DI UN LETTORE OPERAIO" - DI BERTOLT BRECHT

domenica 19 maggio 2019 di Federico La Sala
Domande di un lettore operaio
di Bertolt Brecht
Chi costruì Tebe dalle Sette Porte?
Dentro i libri ci sono i nomi dei re.
I re hanno trascinato quei blocchi di pietra?
Babilonia tante volte distrutta,
chi altrettante la riedificò? In quali case
di Lima lucente d’oro abitavano i costruttori?
Dove andarono i muratori, la sera che terminarono
la Grande Muraglia?
La grande Roma
è piena di archi di trionfo. Chi li costruì? Su chi
trionfarono i Cesari? La celebrata Bisanzio (...)

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> I LIBRI DI "STORIA" E LE "DOMANDE" --- IMPARIAMO A INSEGNARE LA STORIA (di David Bidussa).

sabato 2 marzo 2019

Cultura

Maturità 2019, impariamo a insegnare la Storia

di David Bidussa (Il Sole-24 ore, 28 febbraio 2019)

A proposito della ipotizzata soppressione della traccia di storia alla prossima maturità non si può non sottolineare il paradosso: da una parte le istituzioni possono decidere che la storia si può anche mandare in soffitta perché è un genere che non ha successo (la traccia di storia è stata scelta all’ultima maturità dal 3% dei candidati); dall’altra sta una domanda di storia che è in crescita e attrae (per esempio ne parla Marta Stella nell’ ultimo numero di “Marie Claire” in un articolo dal titolo Perché abbiamo sempre più bisogno di ritrovare le nostre origini?).

Dove sta la verità? Qui e là e, contemporaneamente, né qui e né là. Dunque la storia è una disciplina in riserva: destinata a un pubblico sempre più ristretto, secondo le opinioni di chi ci governa; disciplina lontana, e non coltivata, comunque scarsamente attraente (nel 2018 solo 20 classi a Roma hanno scelto come una delle mete di gita scolastica l’archivio di Stato).

Disciplina che non gode di investimenti, o in cui si investe sempre meno (secondo alcuni dati nel giro di 15 anni gran parte dei corsi di laurea in storia presso gli atenei italiani andranno a chiudere, o comunque saranno destinati ad essere assorbiti all’interno di strutture disciplinari più generali).

Contemporaneamente aumenta in misura considerevole la domanda di sapere il passato (più spesso di sapere il passato della propria famiglia è in crescita, basta guardare i numeri della consultazione on-line del portale Antenati, il portale dedicato alle storie di famiglia, segno evidente che pur in maniera molto complicata la storia ha ancora un volto, un fine per le persone.

Ma appunto si potrebbe osservare che quel fine ha una fisionomia «privata», personale, non implica una funzione pubblica, collettiva della storia. Allora proviamo a precisare la domanda: perché la storia è percepita come una risorsa privata, volta a soddisfare la propria ansia di sapere passato, di avere un radicamento nella storia, ma questa ansia non si traduce in dimensione pubblica, ovvero nella percezione e nella convinzione che la storia sia un bene pubblico? Che cos’è dunque che non va?

L’opinione comune più ricorrente è che prima di tutto ci sia un difetto di didattica della storia, ovvero che la causa principale sia da cercare in chi insegna la storia, e principalmente tra gli insegnanti delle scuole, soprattutto della fascia tra 14 e 19 anni, per non dire della capacità didattica della gran parte del corpo docente accademico. Dunque un tema è la formazione verso la didattica del corpo docente.

Un’altra opinione molto comune è la convinzione che l’insegnamento della storia in gran parte segua programmi che non sono capaci di sollevare l’interesse di un pubblico, perché difficilmente si immergono nel presente, o nel passato immediato, e dunque parlino di temi, di scene, di questioni lontane, incapace di coinvolgere. In breve una narrazione che non susciterebbe passione, emozione, coinvolgimento.

Per quanto sia convinto che in queste due spiegazioni ci sia del vero, tuttavia a me sembra che la crisi alluda ad altro, o almeno che per superarla occorra impegnarsi a trovare risposte su altre questioni che non sono solo la senescenza dei programmi (e dunque un dato burocratico, percui sarebbe sufficiente svecchiarli o renderli più agili) oppure produrre un corso di aggiornamento alla didattica per i docenti.

Il primo dato importante è che noi in Italia difettiamo di una capacità di saper narrare storia. Riguarda come pensiamo, progettiamo e costruiamo musei di storia, per esempio. Ma non solo. La misura su cui valutare questa incapacità è nella dimensione ridotta che dedichiamo ai percorsi e alle problematiche della Public History.

Public History non è né solo, né prevalentemente la divulgazione della storia, ma è quell’ambito disciplinare che si occupa di come rendere fruibile, interessante, motivante e soprattutto ricco di suggestioni l’insegnamento della storia. E contemporaneamente, è quella disciplina che si pone anche il problema di costruire format per la didattica della storia (pensando per esempio alla drammaturgia, alla rappresentazione scenografica, alla produzione di podcast, alla costruzione di kit didattici;...).

Si analizzi, tanto per fare un esempio, la produzione di materiali relativi al centenario della Prima guerra mondiale, che in questi anni, a partire dal 2014, ha coinvolto istituti, centri di ricerca, associazioni di giovani storici che si dedicano alla didattica alternativa, alla didattica “a distanza”, e si vedrà che il complesso delle attività, prime fra tutte le diverse modalità della comunicazione social con cui in realtà come Francia, Regno Unito, Germania, Spagna hanno sollevato e coinvolto docenti, studenti, segmenti non irrilevanti di società civile, “università della terza età”, realtà di formazione volte alla cura educativa di adolescenti di prima immigrazione, ovvero i nuovi e i futuri cittadini di domani, in Italia ha avuto scarso seguito.

La storia trasportata sul web è stata spesso lo stesso pacchetto di contenuti che veniva proposto nella didattica tradizionale. Comunque scarsamente lavorato. Il risultato è stato, prima ancora della noia, l’inutilità. Spesso una quantità di risorse investite nella costruzione di progetti la cui ricaduta è stata scarsa, comunque di scarso effetto.

E’ un ambito enorme che non riguarda solo la storia attuale, ma riguarda forse la storia che ha più successo (sia nei giochi on line che nella fiction) che è la storia medievale, da molti ritenuta anni fa un a storia “finita” di scarso interesse, ma che ha una sua stagione rinnovata ormai da tempo, ma su cui in Italia soffriamo, eccetto alcuni poli di eccellenza, di una scarsa diffusione di competenze, spesso perché la storia medievale è assorbita o assimilata a un’immagine, malintesa, di storia locale, di esaltazione del proprio territorio, di ricerca della propria tradizione folclorica, perché ossessionata dall’ansia di rimarcare e ribadire una identità, con scarsa propensione a pensarla come un modi diverso di raccontarla e di affrontarla come “storia mondo” con cui dobbiamo prendere la misura.

C’è un secondo aspetto della storia e della marginalizzazione della storia nella scuola che riguarda la riduzione delle ore dedicate alla storia nella ripartizione dei programmi e delle ore di insegnamento. Una questione che riguarda soprattutto gli istituti tecnici e professionali. L’effetto nel tempo medio-lungo (ma in questo caso parliamo di pochi anni) è quello di dare luogo a una conoscenza della storia rigidamente separata riproponendo la vecchia ripartizione tra scuole volte alla formazione per un mestiere e scuole destinate a definire un profilo culturale per le libere professioni. In un qualche modo la riproposizione del sistema scolastico proprio della prima metà del’900.

Come si risponde a questa scelta? Difficilmente si darà uno spazio ampliata o allargato alla storia negli istituti professionali, ma le ore di letteratura. Non si tratta di abbandonare la studio della letteratura, ma di proporre lo studio della letteratura come occasione di scavo nella storia.

Mi limito ad indicare alcuni testi del Novecento che di fatto hanno svolto questa funzione e che la possono svolgere anche in relazione ai vuoti di programma. Una questione privata di Beppe Fenoglio o L’orologio di Carlo Levi sono nei fatti due testi con cui poter discutere, raccontare, analizzare la Resistenza o l’inizio dell’Italia repubblicana. Ma lo stesso di potrebbe dire per Caro Michele di Natalia Ginzburg, se qualcuno avesse per davvero interesse a parlare di ’68 e di generazione ’68; di Buio a Mezzogiorno di Arthur Koestler se il tema fosse lo scavo negli anni bui dello stalinismo e di cosa sia stato il socialismo reale, di Niente di nuovo sul fronte occidentale di E. M. Remarque o di Un anno sull’altopiano di Emilio Lussu per parlare di Prima guerra mondiale. Senza dimenticare i film.

Di nuovo non per sostituire l’approfondimento di storia, ma per renderlo un momento di formazione in cui contano le risorse culturali, documentarie, che si propongono. Ma soprattutto per proporre un’idea di storia dove essenziali sono le domande e non tanto le risposte definitive che si danno. Perché lo studio della storia, che piaccia o no, non è trovare la risposta definitiva, avere l’ultima parola. Ma proporre domande, fare questioni, sapendo che dopo, arriveranno altri a proporre altri percorsi, altre questioni, spesso modificando strutturalmente l’ordine del racconto.

Il bravo storico è insomma uno che ha, al massimo la possibilità di proporre la penultima parola e di insegnare che appunto la avere la penultima parola non è un difetto, o una mancanza, ma è la consapevolezza che il dossier non è chiuso. Perché uno storico non è un giudice. E nemmeno un ideologo. Anche questo è, a suo modo, una funzione civile dell’insegnamento della storia. Forse non solo della storia.


Sul tema, nel sito, si cfr.:

DOMANDE AGLI STORICI... NON E’ IL CASO DI SVEGLIARSI DAL SONNO DOGMATICO E RISPONDERE "SENZA FARE LE SPALLUCCE"?!

REALTA’ E RAPPRESENTAZIONE. STORIA ("RES GESTAE") E STORIOGRAFIA ("HISTORIA RERUM GESTARUM") ... E INTELLETTUALI.
-  I LIBRI DI "STORIA" E LE "DOMANDE DI UN LETTORE OPERAIO" - DI BERTOLT BRECHT


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