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EVANGELO E COSTITUZIONE. DIO E’ AMORE (Charitas) - non "MAMMONA" (Benedetto XVI, "Deus caritas est", 2006)!!!

DELLA LINGUA E DELLA POLITICA D’ITALIA. DANTE: L’UNIVERSALE MONARCHIA DEL RETTO AMORE ("charitas"). Per una rilettura del "De Vulgari Eloquentia" e della "Monarchia" - di Federico La Sala

Dante e il suo "moderno" e "illuministico" progetto di ri-orientamento antropologico e teologico-politico.....
lunedì 9 marzo 2009
[...] Con la Monarchia***, “opera ardua e superiore” alle sue forze, pur non confidando nelle sue capacità “quanto nella luce di quel Dispensatore che dà a tutti abbondantemente e non lo rinfaccia mai” e tuttavia includendosi tra gli uomini “che la natura superiore ha reso inclini all’amore della verità”, Dante vuole consegnare al futuro - ai “posteri, perché la posterità possa servirsi del frutto” delle sue fatiche (I, i) - il suo ideale e (...)

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> DELLA LINGUA E DELLA POLITICA D’ITALIA. DANTE: L’UNIVERSALE MONARCHIA D’AMORE. ---- Giotto. Il linguaggio e i gesti del moderno (di Antonio Pinelli).

lunedì 9 marzo 2009

Esposti a Roma molti suoi capolavori (ma alcuni di dubbia attribuzione)
-  oltre a opere di Cimabue, Cavallini, Martini, dei Lorenzetti e di Arnolfo.
-  Dalla rassegna emerge il profilo rivoluzionario di una cultura figurativa

-  Giotto. Il linguaggio e i gesti del moderno

-  di Antonio Pinelli (la Repubblica, 09.03.2009)

-  Disegna spazi abitabili dentro i quali fa muovere figure dalla corposa fisicità
-  L’esperienza dell’antico gli fa superare le convenzioni bizantine
-  In una "Canzone" polemizza con l’ideale francescano della povertà

ROMA. Giotto, non-Giotto è il titolo di un saggio, pubblicato nel 1939 sul Burlington Magazine, con cui l’autorevole storico dell’arte Richard Offner si schierò tra coloro che negano la paternità giottesca del celeberrimo ciclo con le Storie di San Francesco, affrescato sulle pareti della basilica superiore di Assisi.

Per la folgorante efficacia con cui sintetizza una disputa che ha fatto versare fiumi d’inchiostro - e chissà quanto ancora ne sarà versato, giacché tutt’oggi la querelle divide in due schiere contrapposte noi addetti ai lavori -, questo titolo dilemmatico mi è ronzato a lungo in testa mentre visitavo la grande mostra che ha aperto i battenti in questi giorni al Vittoriano («Giotto e il Trecento. "Il più Sovrano Maestro stato in dipintura"», a cura di Alessandro Tomei, fino al 29 giugno).

Per una duplice ragione: in primis, perché nel catalogo rigorosamente bipartisan compaiono saggi equamente divisi tra fautori dell’uno e dell’altro schieramento, e in secondo luogo perché, a dispetto degli squilli di tromba dei comunicati stampa che magnificano la presenza in mostra di ben «20 capolavori eseguiti da Giotto», chi voglia sincerarsi se tale affermazione risponde a verità, potrà constatare che almeno la metà di quei 20 capolavori pende, ahimè, verso il corno «non- Giotto» del dilemma.

Detto questo per amore di verità e in pacata polemica, non con il curatore, che non ne ha colpa (schede e cartellini registrano fedelmente tutti i dubbi attributivi), ma con la macchina mediatica del mostrificio, che sembra incapace di affrancarsi da questo genere di chiassoso imbonimento, non credo di smentirmi se affermo che lo sforzo compiuto dagli organizzatori è stato imponente e che la rassegna merita senz’altro di essere visitata.

Ne vale la pena innanzitutto per la quantità (più di 150) e la qualità delle opere esposte: oltre a quattro o cinque capolavori di Giotto, tra cui spicca il Polittico di Badia restaurato per l’occasione, basterà menzionare, tra le tante, opere insigni di Cimabue, Jacopo Torriti, Pietro Cavallini, Simone Martini, Pietro e Ambrogio Lorenzetti, Nicola, Giovanni e Andrea Pisano, Arnolfo di Cambio.

Ma la mostra merita di essere apprezzata anche per il suo disegno innovativo, che mira a sottolineare l’importanza del ruolo svolto da Roma, con la sua cultura figurativa e i suoi antichi monumenti, nella formazione del linguaggio giottesco, e al contempo ambisce a illustrare con esempi prelevati ad hoc dai più svariati ambiti tecnici (miniatura ed arti suntuarie comprese) e dai più diversi contesti geografici (Firenze, Roma, Assisi, Rimini, Padova, Napoli, Milano..), quanto la rivoluzione operata da Giotto abbia segnato in profondità il panorama artistico del suo tempo e determinato, direttamente o attraverso i suoi seguaci, il corso dell’arte occidentale per secoli.

All’alba del ’400, Cennino Cennini coniò per tale sconvolgimento una definizione insuperabile: «Giotto rimutò l’arte di greco in latino, e la ridusse al moderno», spiegando l’essenza di un linguaggio che seppe riconquistare, sull’esempio dell’antico, la capacità di infondere all’immagine una tangibile concretezza, fisica e spaziale, abbandonando la piatta bidimensionalità e le astratte convenzioni grafiche della tradizione bizantina (la «maniera greca»): spazi «abitabili», entro cui si accampano figure con una propria corposa fisicità, modellate da un lume «vero» e indagate nella varietà di forme, gesti e fisionomie, che ne rappresentano la specificità individuale e la cangiante gamma espressiva dei sentimenti.

Che il geniale protagonista di questo nuovo corso sia nato e cresciuto a Firenze, dove da tempo si andava sviluppando una borghesia mercantile che badava al sodo ed aveva un concreto orizzonte terreno da coltivare ed ampliare a misura delle proprie ambizioni, non è certo un caso, così come non è un caso che Giotto abbia saputo rendere ottimo il proprio talento, organizzando con spirito imprenditoriale la propria bottega e facendola funzionare a pieno ritmo come una vera e propria manifattura (di qui l’ampiezza del problema attributivo «Giotto, non-Giotto»).

Ma non è tutto: copiose sono le testimonianze che ci parlano dei suoi accorti investimenti (telai affittati a lavoranti a domicilio, acquisto di terreni, poi dati in affitto agli antichi proprietari per spuntare pingui interessi aggirando le leggi contro l’usura); conosciamo perfino una sorprendente Canzone scritta di suo pugno, in cui si polemizza con l’ideale francescano della povertà, contestando il luogo comune della ricchezza come fonte di corruzione e definendo «cosa bestial» la miseria.

Ciò non mi induce a schierarmi tra coloro (per la verità, sempre meno) che giudicano non sue le Storie francescane di Assisi, ma mi persuade invece circa la perfetta aderenza di quelle Storie agli ideali revisionisti della corrente francescana dei «Conventuali», impegnata a polemizzare contro l’estremismo pauperista degli «Spirituali». Ma questo è solo uno dei tanti, affascinanti aspetti, su cui questa mostra - e il suo ottimo catalogo - offrono spunti di riflessione.


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