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EVANGELO E COSTITUZIONE. DIO E’ AMORE (Charitas) - non "MAMMONA" (Benedetto XVI, "Deus caritas est", 2006)!!!

DELLA LINGUA E DELLA POLITICA D’ITALIA. DANTE: L’UNIVERSALE MONARCHIA DEL RETTO AMORE ("charitas"). Per una rilettura del "De Vulgari Eloquentia" e della "Monarchia" - di Federico La Sala

Dante e il suo "moderno" e "illuministico" progetto di ri-orientamento antropologico e teologico-politico.....
lunedì 9 marzo 2009
[...] Con la Monarchia***, “opera ardua e superiore” alle sue forze, pur non confidando nelle sue capacità “quanto nella luce di quel Dispensatore che dà a tutti abbondantemente e non lo rinfaccia mai” e tuttavia includendosi tra gli uomini “che la natura superiore ha reso inclini all’amore della verità”, Dante vuole consegnare al futuro - ai “posteri, perché la posterità possa servirsi del frutto” delle sue fatiche (I, i) - il suo ideale e (...)

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> DELLA LINGUA E DELLA POLITICA D’ITALIA. DANTE ---- LA LINGUA NON E’ IL GIOCO DEL LEGO. IL LINGUISTA NUNZIO LA FAUCI RIPRENDE LA LEZIONE DI DANTE E DI SAUSSURE E SI PORTA OLTRE CHOMSKY (di Stefano Bartezzaghi - Se le parole non esistono. Quel linguista scettico che sfida Chomsky).

venerdì 6 maggio 2011


-  Se le parole non esistono
-  Quel linguista scettico che sfida Chomsky

-  Scrive saggi e tiene un blog dove critica le star della disciplina: si chiama Nunzio La Fauci e sostiene che non c’è un lessico prima e fuori dalla sintassi. Ecco le sue tesi
-  La lingua non è una combinazione di elementi già dati. È il tutto che dà senso alle singole parti
-  Da esperto ritiene presuntuoso l’intento tipico degli intellettuali italiani: rendere i parlanti migliori

-  di Stefano Bartezzaghi (la Repubblica, 06.05.2011)

«Le parole non esistono». Fosse avanzata da un mistico, un artista figurativo o un politico (di quelli che possono usare espressioni come: «Le chiacchiere stanno a zero»), l’ipotesi non susciterebbe clamore. Ma l’ha detto un linguista e allora si è costretti a guardare alla possibile inesistenza delle parole con altri occhi.

Il linguista si chiama Nunzio La Fauci, il suo nome e il suo cognome sembrano voler riassumere le due principali funzioni della cavità orale. La Fauci insegna all’Università di Zurigo. Ha appena scritto un Compendio di sintassi italiana (Il Mulino) e ha raccolto i suoi saggi sotto un titolo, di perfetta ortodossia saussuriana e strutturale: Relazioni e differenze (Sellerio). Per divertirsi, osserva usi della lingua (e dei linguisti) in un blog raffinato e paradossale intitolato ad Apollonio Discolo, bel nome di un grammatico greco del II secolo d.C., con la cui dottrina La Fauci in realtà dissente.

I linguisti non amano i catastrofismi, in merito alla lingua. Smentiscono la morte del congiuntivo, ridimensionano l’allarme per l’invasione dell’inglese, impetrano misericordia verso coloro a cui sfuggono sgraziati «attimini» o deformi «piuttosto che». La Fauci fa di più. Quando l’ex calciatore Beppe Dossena ha usato il verbo «reazionare» nel commento di una telecronaca di calcio, su Repubblica se n’è occupata la rubrica «Lapsus», ricordando l’esistenza del verbo «reagire». Apollonio Discolo è insorto, non contro il calciatore ma contro il suo incauto critico, ricordando a quest’ultimo l’esistenza del verbo «sanzionare» (che sta a «sancire» esattamente come «reazionare» sta a «reagire»).

Attenzione, dice oggi il professore, «agli "errori" degli altri (e dei presunti incolti). Può capitare non solo che errori non siano ma anche che svelino cose più interessanti e gustose delle proposte di presunte correzioni». Apollonio Discolo ha poi aggiunto: «Amare l’espressione umana (come amare una persona) non è pretendere che sia conforme ai nostri desideri, alle nostre fisime, ai nostri gusti (peraltro mutevoli) ed è invece piegarsi con attenzione a comprendere (che non vuol dire necessariamente giustificare) anche le sue corbellerie (o, almeno, quelle che a noi paiono tali), eventualmente sorridendone. Magari accadrà infatti che un giorno diventeranno norma e parametro di buon gusto». Chi, oggi, penserebbe male dell’articolo "il"? Eppure: «inorridirono sicuramente certi nostri lontani antenati quando videro crescere nella loro lingua l’onda travolgente dell’illu destinato a diventare l’articolo determinativo romanzo».

Data la giusta dimensione e prospettiva storica agli errori dei presunti incolti, La Fauci si dedica agli errori dei presunti colti, a cui riserva furie staffilanti e ironie a volte criptate. Obiettivo polemico principale, la linguistica contemporanea, quella accademica e soprattutto quella più influenzata da Noam Chomsky. Il celebrato lingui-star americano ha il torto di rivestire di tecnicismi (esempio: «componente computazionale») le più tradizionali partizioni grammaticali, già dichiarate inservibili dal vecchio Saussure. Per Chomsky ogni parola ha una funzione grammaticale (sostantivo, verbo...), e funge da componente della frase, a cui preesiste.

Per La Fauci, seguendo Saussure, non c’è un lessico, prima e fuori da una sintassi. Chomsky vuole farci credere che la teoria linguistica abbia pressoché raggiunto la perfezione. La Fauci è agli antipodi dello scientismo, tanto che congeda il lettore del suo Relazioni e differenze con un’acre asserzione: «Il cammino verso la conoscenza della lingua e verso la conoscenza dell’uomo deve ancora essere intrapreso».

Si era aperto, quel libro, con un’indicazione di metodo: «rationabilius», «in modo più razionale». La parola viene dal De vulgari eloquentia, il trattato di Dante sull’identità linguistica italiana. In un saggio su questo stesso tema, tanto dibattuto quest’anno, La Fauci mostra come tale identità, linguistica e non linguistica, sia plurale: il carattere unitario sta nel collettivo e reciproco riconoscimento che i diversi italiani si danno l’un l’altro.

Cercando l’«odorosa pantera» di un sistema nell’estrema varietà degli idiomi presenti in Italia, Dante capisce all’improvviso che non deve descriverla in un trattato ma mostrarne le movenze: e scrive la Commedia. La Fauci raccoglie la lezione e fa teoria dove molti linguisti si accontentano di osservare le pratiche, e spiegarle sulla base di presupposti indimostrati; ma dove gli stessi si appellano alla teoria, La Fauci privilegia invece la pratica. Il suo Relazioni e differenze è una sorta di varietà linguistico: ci sono capitoli per specialisti (come quello che memorabilmente si intitola "Paradossi della paratassi") e capitoli che andrebbero letti da chiunque si occupi di discipline umanistiche, come i novanta secchi paragrafi finali intitolati "Faccette di linguistica razionale". Non sono emoticon, quelle faccette: compongono il vastissimo poliedro che è la lingua, per La Fauci.

La lingua non è il gioco del Lego, non è cioè una combinatoria di elementi già dati, con i mattoncini dei fonemi che formano il mattone della parola e i mattoni delle parole che formano il muro della frase e la casa del discorso. Nella costruzione linguistica è il tutto (il contesto, la "sintassi" come disposizione degli elementi, la relazione) che dà senso alle singole parti.

In questo, il ritorno di La Fauci allo spirito originario dello strutturalismo è tanto radicale da risultare pressoché ereticale. Le parole non esistono perché quello che chiamiamo "parola" è l’esito finale (non l’inizio!) di un procedimento analitico, per capirlo basta pensare a quanta fatica facciamo a individuare le singole parole ascoltando parlare una lingua che non conosciamo. Nulla di ontologico, che abbia valore in sé, esiste nella lingua: tutto sorge dalla relazione, anzi da un processo di correlazione, perché la lingua è sempre nel suo farsi.

La linguistica razionale auspicata da La Fauci rifiuta il programma - classico per ogni intellettuale italiano - di rendere i parlanti migliori, perché lo ritiene presuntuoso; poi rifiuta anche il programma di rendere migliori almeno gli intellettuali, perché lo ritiene impossibile. Scettici sulla possibilità di capire, privi di ogni certezza, non possiamo però neppure essere sicuri che interrogarsi sia inutile. È per quello che continuiamo a farlo. «A me», annuncia Nunzio, «l’esperienza umana (e la scienza, che ne è parte importante) pare l’esperienza di un "sebbene", non quella di un "perché" o di un "affinché"». Alla fine quelle cose che non esistono e si chiamano parole, infatti, le sa scegliere molto bene.


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