Di Vittorio e il Piano del lavoro, storia di un sogno mai realizzato
di Antonio Carioti (Corriere della Sera, 12.06.2012)
Il Piano del lavoro lanciato nel 1949 da Giuseppe Di Vittorio, leader della Cgil, era una proposta originale e politicamente accorta, ma condannata in partenza a rimanere sulla carta. Troppo alta era la tensione tra la sinistra egemonizzata dal Pci e la coalizione moderata, nella fase più acuta della Guerra fredda, perché fosse possibile instaurare una collaborazione costruttiva per dare una prospettiva mirata allo sviluppo economico. Il governo, nonostante l’interesse manifestato da alcuni suoi esponenti, lasciò cadere l’iniziativa e anche la dirigenza comunista, Palmiro Togliatti in testa, la interpretò soprattutto in chiave propagandistica.
Il guaio è che anche gli altri tentativi di incentivare e guidare la crescita economica attraverso intese tra governo e parti sociali, esperiti in epoche a più bassa temperatura ideologica, dagli anni Sessanta ai Novanta, si sono risolti in altrettanti insuccessi. Tanto che, nella prefazione al volume Crisi, rinascita, ricostruzione (Donzelli, pp. 125, € 25), che raccoglie, a cura di Silvia Berti, gli atti di un convegno su Di Vittorio e il Piano del lavoro, l’attuale ministro per la Coesione territoriale Fabrizio Barca segnala, sulla base di queste esperienze poco incoraggianti, la persistente difficoltà delle classi dirigenti italiane «ad amministrare con un metodo e una prospettiva di medio-lungo termine».
Poco male, si potrebbe pensare. In fondo programmare lo sviluppo è un’ambizione piuttosto intellettualistica, perché la realtà molecolare degli operatori economici sul mercato non si lascia facilmente indirizzare. Specie in un Paese d’individualisti come l’Italia, meglio affidarsi alle dinamiche spontanee, da cui è derivata per molto tempo un’espansione sorprendente, che ha elevato in modo enorme il tenore di vita medio.
Purtroppo però ci si accorge spesso, in particolare nei momenti difficili, che la crescita italiana, peraltro ormai anemica da parecchi anni, poggia su fondamenta alquanto fragili: mancano le infrastrutture, l’energia si paga a caro prezzo, il sistema formativo è scollegato dal mondo del lavoro, i costi dell’imprevidenza (si pensi al rischio sismico) diventano esorbitanti. E il divario tra Nord e Sud tende ad accentuarsi, fino a mettere in discussione l’unità nazionale.
Appare evidente, leggendo i testi del grande sindacalista pugliese riportati in appendice al volume, che Di Vittorio parlava a una società ben distante da quella attuale: si pensi solo che all’epoca gli italiani emigravano in massa, mentre oggi il nostro Paese ospita milioni di lavoratori stranieri. Non si tratta allora di attribuire al leader della Cgil doti profetiche che non aveva, ma di capire se il problema di fondo posto dal Piano del lavoro, l’opportunità di un intervento pubblico volto a correggere gli squilibri socio-economici, sia tuttora rilevante. A occhio e croce, parrebbe di sì. Ma servono idee nuove e poche se ne vedono in giro.