Domande agli scienziati
di LUCA RICOLFI (La Stampa, 12/4/2009)
Oggi non è il tempo delle polemiche, delle recriminazioni, delle accuse reciproche. Dopo la tragedia del terremoto abruzzese, maggioranza e opposizione hanno scelto la compostezza, e noi non possiamo che essergliene grati. Come non possiamo che essere riconoscenti alla Protezione civile, ai volontari, a quanti hanno fatto di tutto per lenire le sofferenze delle popolazioni colpite. Verrà un momento, tuttavia, in cui dovremo trarre qualche conseguenza da quel che è successo. Dovremo decidere, ad esempio, se continuare a «chiudere un occhio» sulle migliaia di situazioni in cui si accettano dei rischi solo perché affrontarli costa troppo, in termini di soldi o di consenso politico: è il caso di migliaia di edifici scolastici pericolosi, è il caso delle tante abitazioni private - spesso abusive - lasciate proliferare in zone a rischio sismico conclamato, come le pendici dei nostri maggiori vulcani.
C’è però forse anche qualcos’altro su cui, prima o poi, dovremo cominciare a darci delle risposte. Questo qualcos’altro si riassume in una domanda drammatica: a chi dobbiamo credere?
Lo so, a prima vista la risposta è ovvia: dobbiamo fidarci della scienza, che è imparziale e autorevole. E in linea di massima è davvero così. Quando una decisione - ad esempio sgomberare una città - dipende da valutazioni tecniche complesse, è ragionevole che i politici ascoltino gli scienziati, e non corrano ciascuno dietro al proprio esperto di fiducia, o credano al primo portatore di verità pseudo-scientifiche alternative a quelle ufficiali. Insomma, nel caso del terremoto dell’Aquila non credo che i politici potessero agire diversamente, e trovo ingiusto accusarli di avere colpevolmente sottovalutato i rischi del sisma. Per il ruolo che ricoprono politici e amministratori non hanno scelta: pensate che cosa succederebbe se uno di essi ignorasse il parere della comunità scientifica, e la sua decisione - di agire, o non agire - si rivelasse catastrofica.
A chi dobbiamo credere?
Ma c’è anche un’altra domanda, che non riguarda i politici bensì il pubblico: a chi dobbiamo credere noi comuni cittadini, che non abbiamo responsabilità istituzionali, ma semmai abbiamo il problema di proteggere noi stessi e i nostri cari? La fiducia che i politici sono tenuti a riporre nei confronti della scienza ufficiale è pienamente giustificata?
Qui credo che una riflessione non guasterebbe. La mia impressione è che in molti campi gli esperti siano assai meno depositari di certezze di come noi ingenui cittadini li percepiamo. Ci sono ambiti nei quali le valutazioni degli scienziati sono pienamente affidabili, pensiamo ad esempio ai calcoli di un ingegnere che progetta un ponte o di un fisico che manda in orbita un satellite. Ma ci sono ambiti in cui, per le ragioni più disparate (dati insufficienti, teorie incomplete, complessità intrinseca dei fenomeni), le affermazioni degli scienziati sono altamente incerte e controvertibili, tanto è vero che ci sono scuole di pensiero, sottoscuole, minoranze dissenzienti, fazioni in lotta più o meno aperta fra loro. È il caso, ad esempio, del problema del riscaldamento globale, un fenomeno che la maggioranza degli studiosi ritiene dovuto essenzialmente all’azione dell’uomo e una minoranza considera invece dovuto a cause naturali, o semplicemente a un mix sconosciuto di cause naturali e umane. O il caso dell’economia e dei mercati finanziari, per i quali semplicemente non esistono modelli di previsione affidabili, né teorie abbastanza consolidate da suggerire terapie ben definite.
Il doppio paradosso
In questi casi si crea un doppio paradosso. L’autorità di stabilire il confine fra il vero e il falso continua ad essere monopolio della scienza ufficiale, anche se la scienza ufficiale stessa non ha (o non ha ancora) ciò che le conferisce tale autorità, e che noi istintivamente tendiamo ad attribuirle automaticamente: la capacità di fare predizioni corrette o suggerire terapie valide. Simmetricamente può succedere che dilettanti, impostori o semplici outsider riescano a fare meglio della scienza ufficiale, talora per puro caso o fortuna, talora perché in certe circostanze una teoria può essere meglio di nessuna teoria, talora perché un outsider può aver capito cose che l’establishment accademico può non aver capito. Nel caso della crisi economica, ad esempio, nessuna istituzione ufficiale ha neanche lontanamente previsto quel che sarebbe successo, e molte hanno continuato a sfornare predizioni errate, anche a crisi ampiamente in corso; mentre chi avesse creduto ad analisi di esperti non ufficiali (perché non economisti) come il matematico Benoît Mandelbrot (2004) o il politologo Robert Gilpin (2000) avrebbero avuto dubbi solo sul momento esatto del collasso, e sarebbero corsi ai ripari ben prima dell’estate del 2007.
E nel caso del terremoto abruzzese ?
A ben guardare a me sembra che ci troviamo di fronte, per una volta, a un doppio errore. La scienza ufficiale, una settimana prima del disastro, ha formulato una valutazione che, a posteriori, si è rivelata errata: «Lo sciame sismico che interessa L’Aquila da circa tre mesi è un fenomeno geologico tutto sommato normale, che non è il preludio ad eventi sismici parossistici, anzi il lento e continuo scarico di energia, statistiche alla mano, fa prevedere un lento diradarsi dello sciame con piccole scosse non pericolose». Quanto al paladino delle proprietà predittive del radon, il tecnico Giampaolo Giuliani, ha mostrato di sopravvalutare le capacità profetiche della sua creatura: il terremoto previsto a Sulmona per il 29 marzo non si è verificato, mentre il suo secondo allarme (quello lanciato nella notte del 5-6 aprile a L’Aquila ai propri vicini e familiari) si è purtroppo rivelato fondato.
Nessuno pienamente attendibile
In breve, a me pare che nessuno si sia mostrato pienamente attendibile. Il tecnico Giuliani perché per rendere credibile un qualsiasi metodo scientifico ci vogliono ben più prove di quelle di cui disponiamo fin qui a proposito del nesso fra radon e terremoti. La scienza ufficiale perché, quando dice che i terremoti non si possono prevedere puntualmente (luogo e ora), si trincera dietro un’ovvietà, che vale anche per la pioggia e i fulmini ma che non ci impedisce di essere inondati da «previsioni del tempo». Più che certezze, insomma, quel che la tragedia aquilana ci lascia in eredità sono tante domande, domande vere e non retoriche su come si possono gestire situazioni come quella abruzzese. Molto sommessamente vorrei proporne tre.
Prima domanda: siamo sicuri che le ricerche sulle proprietà predittive delle emissioni di radon siano così poco promettenti da giustificare la scarsa attenzione ad esse finora riservata dalla ricerca ufficiale in Italia?
Seconda domanda: siamo sicuri che almeno le variazioni (nel tempo e nello spazio) della probabilità di un terremoto non possano essere valutate con il radon o con altri «precursori»? Possibile che, dopo anni di studi sui precursori, non si sia ancora in grado di stabilire non dico dove e quando ci sarà la catastrofe ma se, in un dato momento e in un dato luogo, il rischio sia salito troppo?
Terza e decisiva domanda: siamo sicuri che, di fronte a un forte aumento del rischio di un evento catastrofico segnalato dagli strumenti, la sola alternativa sia fra non fare nulla e sgomberare un’intera città? Possibile che non esistano vie di mezzo?
Un grande dubbio
In poche parole io resto con un grande dubbio. Mi chiedo se, almeno in futuro, scienziati ed autorità non potrebbero decidersi a valutare con più attenzione, o meno sufficienza, i segnali premonitori deboli (ossia non sorretti da una teoria scientifica consolidata), nonché le misure intermedie fra immobilismo ed evacuazione totale. Fra queste ultime, ad esempio, ce n’è una che molti cittadini usano spontaneamente quando hanno paura di un terremoto, e che ad alcuni aquilani ha persino salvato la vita: scendere in strada o nei campi, senza abbandonare definitivamente le proprie abitazioni. Un po’ come si faceva durante la guerra, quando le sirene annunciavano l’eventualità di un bombardamento aereo e la gente si riparava nelle cantine e nei rifugi antiaerei. Anche allora le autorità avrebbero potuto dire: «allo stato attuale delle conoscenze non è possibile realizzare una previsione deterministica della localizzazione, dell’istante e della forza dell’evento». Ma non lo dicevano, e i cittadini decidevano se correre il rischio.