Lo psicoanalista dal volto umano
Un nuovo manuale, che il suo autore qui ci presenta, già definito all’uscita negli Usa “il più sofisticato sistema diagnostico attualmente disponibile”. Una dettagliatissima mappa della mente: per una terapia dove, finalmente, la parola d’ordine è “sensibilità”. Così la disciplina del dottor Freud ritrova, un secolo dopo, l’ispirazione originaria: aggiornata e corretta ai tempi nostri. Quale migliore occasione per scoprire cosa resta davvero del suo sogno?
di Vittorio Lingiardi (la Repubblica, Robinson, 25.03.2018)
Se quello della diagnosi psicodinamica è un lungo viaggio, mi piace immaginare che sia partito nel 1915 da questa frase di Freud: “ Noi non vogliamo semplicemente descrivere e classificare i fenomeni, ma concepirli come indizi di un gioco di forze che si svolge nella psiche”. Sono orgoglioso di pensare al Manuale Diagnostico Psicodinamico (PDM) come una tappa importante di questo viaggio.
Con Nancy McWilliams ne ho curato la nuova edizione, il PDM- 2, uscita l’anno scorso negli Stati Uniti e da pochi giorni disponibile in traduzione italiana. Otto Kernberg, decano internazionale della diagnosi psicoanalitica, lo ha definito “il più sofisticato sistema diagnostico attualmente disponibile”. Si tratta del primo tentativo sistematico di fondare la diagnosi su teorie e modelli clinici psicodinamici, cioè finalizzati a comprendere e, dove possibile, spiegare, proprio quel “gioco di forze che si svolge nella psiche”. Certamente consapevoli che oggi questo tentativo può avvenire solo in dialogo con altre discipline, in primis la psicopatologia evolutiva, la psicologia cognitiva, le neuroscienze e la teoria dell’attaccamento.
Non tutti gli psicoanalisti e gli psichiatri sono propensi a riconoscere i vantaggi delle diagnosi. C’è chi ha affermato, proprio in occasione dell’uscita di questo manuale, che ogni categorizzazione diagnostica è una forma di “ oggettivazione autoritaria”, un modo di “inaridire” l’esperienza umana. Dal nostro punto di vista, invece, ricondurre un’esperienza umana a una dimensione clinica a sua volta riconducibile anche a una diagnosi non significa inaridirla. Significa studiarla, comprenderla, confrontarla. Sappiamo che limiti e semplificazioni sono intrinseci a ogni sistema di classificazione. Proprio per questo sosteniamo che per il clinico la diagnosi deve rappresentare, direbbe Karl Jaspers, un tormento, una tensione votata a conciliare l’assoluta singolarità di quel paziente con la possibilità di ricondurlo a un quadro più generale.
Costruendo il Manuale Diagnostico Psicodinamico abbiamo insomma cercato di mantenere una visione binoculare, capace di tenere insieme l’etichetta diagnostica e la formulazione narrativa del caso, la categoria generale e l’elemento distintivo. Se il più diffuso Manuale diagnostico dei disturbi mentali ( DSM)) può essere definito una “tassonomia di malattie”, il PDM è piuttosto una “tassonomia di individui”: in altre parole si prefigge di fornire al clinico informazioni per capire che cosa una persona è e non solo che cosa una persona ha. Anche nei disturbi psichiatrici a forte componente biologica vi sono fattori psicologici e ambientali che influenzano l’esordio, il decorso, la suscettibilità alla terapia. Due persone con lo stesso disturbo ( che sia una patologia ansiosa, un disturbo dell’alimentazione o della personalità) avranno storie e potenzialità diverse, e risponderanno alla cura in modi diversi.
La valutazione psicodinamica serve proprio a immergere nella varietà umana il rigore dell’etichetta diagnostica. Quando dico che il signor A. ha una personalità ossessiva oppure narcisistica, tanto per nominare due diagnosi, sto evocando la sua unicità esistenziale, ma anche la sua appartenenza a dimensioni diagnostiche con caratteristiche che devo saper descrivere usando un linguaggio comprensibile e condiviso. Il signor A. con cui ho appena concluso un colloquio è unico, ma per indicargli la terapia più efficace devo conoscere anche i dati che anni di clinica e ricerca hanno accumulato su casi simili al suo. Per non parlare del fatto che al signor A. può interessare molto sapere che anche altri hanno il suo problema e che questo problema ha un nome. Lo racconta bene Simona Vinci in Parla, mia paura: “ Lo psichiatra mi dedicò un’ora del suo tempo. Parlammo dell’analisi che stavo facendo, degli attacchi d’ansia, della paura. [...] Aveva centrato il punto: [...] la mia era una depressione reattiva [...] avevo bisogno di definirmi, di appiccicarmi un’etichetta, di sapere chi ero diventata”.
Come è strutturato il nuovo manuale? In altre parole, che cosa offre al clinico? Per prima cosa la possibilità di formulare le diagnosi a partire dall’età del paziente, dal bambino all’anziano. Poi di descrivere la personalità, dalle risorse ai tratti più problematici o francamente patologici. Quindi di valutare, una per una, le principali capacità mentali (per esempio, la regolazione dell’autostima, i meccanismi di difesa, il controllo degli impulsi, la capacità di sviluppare relazioni intime, l’adattamento, la resilienza, le capacità di autosservazione, la mentalizzazione, gli standard morali). Infine di riconoscere ed elencare i sintomi, senza trascurare l’esperienza soggettiva che ne fa il paziente e le risposte emotive del clinico (controtransfert diagnostico).
Alle indicazioni per il colloquio, via regia per la formulazione diagnostica, il PDM-2 affianca istruzioni specifiche anche per la somministrazione di test e questionari. È, insomma, espressamente rivolto alla pianificazione dei trattamenti. La bontà di una diagnosi, infatti, sta nella sua traducibilità clinica: come sintesi dei problemi e delle risorse principali di un paziente, come indicatore efficace per individuare l’approccio terapeutico più idoneo. Se isoliamo l’etichetta diagnostica dagli obiettivi potenziali che essa contiene, rischiamo di fare come lo sciocco che, quando il saggio indica la luna, guarda il dito.
Come sappiamo dalla sua etimologia, la diagnosi è un processo conoscitivo e un incontro. La scommessa del PDM- 2 è integrare conoscenza operativa, complessità clinica e dimensione intersoggettiva. Agli psicoanalisti diffidenti del processo diagnostico ricordo che Freud criticava chi non si preoccupava di formulare diagnosi accurate. E paragonava questo atteggiamento alla “ prova della strega” di cui andava fiero un re scozzese: faceva immergere la sospetta strega in un calderone d’acqua bollente e poi assaggiava il brodo. Solo a quel punto era in grado di dire se si trattava di una strega. Ecco, chi trascura la diagnosi rischia di fare come il re scozzese: riconosce e nomina le cose fuori tempo massimo.
Oggi molti giovani colleghi si trovano a dover scegliere tra procedure diagnostiche ipersemplificate e linguaggi idiosincratici, estranei alla prova della ricerca empirica e poco condivisibili tra professionisti di diversa formazione. Questa condizione, sospesa tra compilazione burocratica e autoreferenzialità gergale, non solo mortifica l’identità professionale del clinico, ma appanna o distorce la sua capacità di individuare e descrivere le caratteristiche del suo paziente. In definitiva, compromette la relazione clinica. Manuale Psicodinamico si muove nella direzione opposta: dare un senso alla diagnosi valorizzando la sensibilità clinica.