PSICOANALISI E FILOSOFIA. Indicazioni per una seconda rivoluzione copernicana ..... *
Chi dice che è morta? Prima che terapeutica l’invenzione freudiana è una rivoluzione etica. E la scommessa più ardita si chiama “desiderio”. Da assecondare così
di Massimo Recalcati (la Repubblica, Robinson, 25.03.2018)
Che cosa resta della grande lezione di Freud? Cosa resiste della esperienza sovversiva dell’inconscio? Cosa della grande rivoluzione culturale rappresentata dalla psicoanalisi è destinato a non essere cancellato? Il progresso delle neuroscienze, l’affermazione delle psicoterapie cognitivo-comportamentali, la potenza chimica dello psicofarmaco, la promessa di terapie brevi ed efficaci centrate sul cosiddetto “ sintomo bersaglio”, sembra abbiamo messo definitivamente all’angolo la psicoanalisi riducendola a uno spettro condannato a circolare solo nel museo delle cere del Novecento. Lo si grida da più parti e ormai da molto tempo: la psicoanalisi è morta, le sue categorie teoriche irrimediabilmente compromesse da un irrazionalismo di fondo che rifiuta di confrontarsi con la valutazione scientifica, la sua efficacia terapeutica dubbia, la proverbiale lunghezza delle sue cure assolutamente sfasata rispetto al ritmo performativo richiesto dallo spirito del nostro tempo e indice di una fumisteria epistemologica e clinica priva di fondamenti.
Perché allora dovremmo insistere nel difendere tenacemente l’invenzione di Freud? Il nucleo di questa invenzione è etico prima che terapeutico. Se il Novecento è stato il secolo del sacrificio della singolarità schiacciata sotto il peso inumano dell’universale ideologico della Causa, la teoria e la pratica della psicoanalisi, sin dalla sua origine, si è posta al servizio del carattere insacrificabile della singolarità. Non certamente della natura borghese dell’Io o dell’individualismo liberista, ma di quella singolarità assai più ampia che sconfina in zone dell’essere che eccedono la coscienza e la sua illusione (cartesiana) di padronanza. La singolarità irregolare e anarchica dell’inconscio impone infatti di ripensare innanzitutto il concetto stesso di identità. Certamente questo riguarda la sessualità umana che
Freud rivela essere sempre parzialmente contaminata da quella infantile e pregenitale come se non esistesse una sessualità cosiddetta “matura”, “genitale”, perché essa vive e si nutre di fantasmi che provengono dalle esperienze infantili del corpo pulsionale.
Ma la prima vera e grande sovversione etica imposta da Freud è quella che ci costringe a modificare la nostra ordinaria concezione della malattia e della sofferenza psichica. Questo è un contributo ancora attualissimo e nevralgico della psicoanalisi: l’eccessivo compattamento identitario del soggetto non è una virtù da salvaguardare, ma è la vera malattia da curare. La divisione multipla interna al soggetto - tra coscienza, preconscio e inconscio, tra Es, Io e Super- io - ci costringe infatti a ridisegnare la nostra idea della vita umana. L’Io non è mai padrone in casa propria: l’alterità non è innanzitutto esperienza dello straniero che viene dal di fuori, ma del nostro stesso essere, della nostra più propria intimità.
L’inconscio freudiano è infatti “uno stato nello stato” - un “territorio straniero interno” - che obbedisce a una legislazione che eccede radicalmente quella che governa il funzionamento normativo dell’Io. Nei sogni, nelle nostre più quotidiane sbadataggini, nei lapsus, nei sintomi di una singolarità eccedente l’Io parla, manifesta la propria voce dissonante disturbando il funzionamento diurno della coscienza e del pensiero. Ne deriva, appunto, un’inedita concezione della malattia e della sofferenza psichica che scaturirebbe non tanto da una assenza o da una debolezza dell’Io, ma da una sua postura troppo rigida, da una mancanza di democrazia interna che vorrebbe escludere la voce dell’inconscio dal parlamento interno del soggetto. Se queste procedure egoico-narcisistiche di esclusione si rafforzano, se il soggetto persegue una rappresentazione solo ideale di sé stesso finalizzata a scongiurare l’esistenza di quelle parti di sé giudicate “incompatibili” con questo stesso Ideale, la vita si atrofizza e si ammala. È un principio clinico che riguarda tanto la vita individuale quanto quella collettiva: i confini che disegnano la nostra identità devono essere plastici, capaci più di integrare lo straniero interno che di scindere e segregare. La psicoanalisi incoraggia una politica anti-segregativa.
La prima grande lezione etica della psicoanalisi consiste nel favorire una concezione indebolita della soggettività che consenta il transito e l’apertura in alternativa a ogni sua illusione identitaria di padronanza che finisce per irrigidire i propri confini contribuendo alla loro chiusura.
Quale è il volto dello straniero che si tratta di accogliere? Innanzitutto quello del desiderio che esprime la dimensione radicalmente insacrificabile della singolarità. Si tratta di un’altra grande e ardita scommessa della psicoanalisi: non contrapporre la ragione al desiderio - come la luce all’ombra - ma fare della “ voce del desiderio” la voce stessa della ragione. È questo un punto nevralgico presente nel pensiero di Freud, ripreso con forza da Lacan: non solo la vita si ammala per un eccesso di solidificazione dell’identità, ma anche quando essa volta le spalle alla chiamata del desiderio, quando tradisce la sua attitudine, la sua vocazione, il suo talento fondamentale. Questo desiderio - assimilato kantianamente da Freud alla “voce della ragione” - non può essere normalizzato, irreggimentato, assoggettato da nessun principio, compreso quello di realtà. La difesa della singolarità comporta l’opzione per un pensiero laico, anti-dogmatico, anti-fondamentalista, critico nei confronti di ogni tentativo di assimilazione del singolare nelle procedure anonime dell’universale.
È il tratto, se si vuole, irriducibilmente “ femminista” della psicoanalisi: la cura è cura per il particolare, per la sua differenza assoluta, per l’incomparabile, per la vita non nel suo statuto generico e biologico ma nel suo nome proprio, nel suo volto unico e irriproducibile. Questo comporta un attrito fatale nei confronti di tutte le pratiche di normalizzazione autoritaria e di medicalizzazione disciplinare della vita. La vita del desiderio - la vita della singolarità - è sempre vita storta, difforme, deviante, bizzarra, anomala.
La psicoanalisi opta per l’accoglienza di questo “straniero interno” come condizione di possibilità per l’accoglienza della vita in tutte le sue forme più divergenti. Essa contrasta politicamente ogni conformismo del pensiero, ogni attitudine all’adattamento passivo, ogni ideale moralistico di normalità. Non esiste infatti mai un “rapporto giusto col reale”, affermava Lacan. Ciascuno ha il compito di trovare la propria misura della felicità.
La psicoanalisi è una teoria critica della società: il potere che impone una misura unica della felicità diviene necessariamente totalitario. La sua vocazione è antifascista nel senso più radicale e militante del termine: veglia affinché la tentazione autoritaria che spinge l’uomo verso il padrone o verso il suo carnefice che promette la tutela autoritaria da ogni rischio che la libertà della vita fatalmente impone, sia avvistata per tempo.
La psicoanalisi svela che esiste nell’uomo una tendenza pulsionale ad amare più le catene della propria libertà, a disfarsi del proprio desiderio, a consegnarsi nelle mani di una autorità che, in cambio della cessione della propria libertà, assicurerebbe la protezione della vita. È la dimensione “fascista” della psicologia delle masse che costituisce un grande capitolo della ricerca sociale e politica della psicoanalisi oggi più che mai attuale.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
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Federico La Sala