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PASQUA DI RESURREZIONE, 2009: "AMORE E’ PIU’ FORTE DI MORTE" (Cantico dei cantici). DIO E’ AMORE (Charitas) - non "MAMMONA" (Benedetto XVI, "Deus caritas est")!!!

L’ULTIMO PAPA CEDE IL PASSO A ZARATHUSTRA: "CHI AMA, AMA AL DI LÀ DEL PREMIO E DELLA RIVALSA". Una pagina di Nietzsche - a cura di Federico La Sala

lunedì 13 aprile 2009 di Federico La Sala
[...] Detto a tre occhi - disse argutamente il vecchio papa (perché era cieco da un occhio) - nelle cose di Dio ne so più io dello stesso Zarathustra; e può ben essere così. Il mio amore ha servito a lui per tanti anni, la mia volontà ha fatto sempre quanto lui voleva. Un buon servitore sa tutto, e sa anche le cose che il suo padrone spesso nasconde a se stesso.
Era un Dio nascosto, pieno di segreti. Per dir la verità, ad avere un figlio ci arrivò per vie traverse. Alla soglia del suo (...)

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> L’ULTIMO PAPA CEDE IL PASSO A ZARATHUSTRA ---- Se volete la felicità dovete evitare di essere invidiosi. Un inedito del 1863 (di Friedrich Nietzsche)

venerdì 13 settembre 2013

In un inedito del 1863, il filosofo tedesco ragiona sul sentimento negativo che definisce “errore di conoscenza” e “logorio dell’anima”

Se volete la felicità dovete evitare di essere invidiosi

di Friedrich Nietzsche (la Repubblica, 12.09.2013)

      • IL LIBRO Può un invidioso essere felice? a cura di Alessandra Campo (Elliot, pagg. 64 euro 8), in uscita il 17 settembre raccoglie quattro inediti in Italia di Nietzsche
        -  © 2013 Lit Edizioni Srl. Tutti i diritti riservati. Per gentile concessione di Elliot Edizioni (Traduzione di Alessandra Campo)

Com’è possibile farsi un’idea della vita e del carattere di una persona che abbiamo conosciuto? In generale in modo simile a come ci si fa un’idea di un paesaggio che abbiamo visitato, del quale è necessario riportare alla mente le peculiarità fisionomiche: i monti, la flora e la fauna, l’azzurro del cielo... È tutto questo, nel suo insieme, a determinare l’impressione che se ne trae. Ma, in sé, non è ciò che vediamo all’inizio - le masse delle montagne, la forma delle rocce e i tipi di pietre - a conferire al paesaggio il suo carattere fisionomico. Anche in regioni diverse tra loro vengono fuori, secondo leggi simili, le medesime formazioni della natura inorganica, come, per esempio, gli stessi tipi di montagne, separate o raccolte in gruppi. Diversamente accade per le formazioni organiche. In particolare, nelle piante sono presenti i caratteri più diversi che si offrono a un’osservazione comparativa della natura.

Qualcosa di simile emerge quando vogliamo osservare e valutare adeguatamente la vita di un uomo. In questo caso non ci dobbiamo far guidare dagli eventi casuali, dai doni della sorte, dai mutevoli destini esteriori che sorgono dalle circostanze esterne che si incrociano tra loro, quand’anche ci saltino subito all’occhio come cime di montagne. Il carattere individuale è invece rivelato nel modo più chiaro proprio da quei piccoli eventi e da quei processi interiori che crediamo di dover ignorare: essi si sviluppano come organismi dalla natura dell’uomo, anche se sembrano esserle legati al modo degli elementi inorganici.

È dunque un errore della conoscenza che si ha della propria interiorità desiderare di trovarsi nelle condizioni esteriori altrui, nella convinzione che su questo nuovo terreno saremmo più felici: a questo desiderio è connessa l’invidia per la felicità degli altri. L’invidia vorrebbe allontanare coloro che sono felici dalla propria condizione, e a tal fine cerca ragioni con perfida sofisticheria. Essa, quindi, è un errore della natura cognitiva e di quella morale.

È un errore della natura cognitiva. È segno di una natura forte riconoscere nelle cose una ininterrotta catena di cause ed effetti non pensando semplicemente che seminare basti a produrre frumento, ma estendendo le medesime leggi anche alla vita umana e alla storia dei popoli. Ma l’invidioso, come, in generale, ogni uomo egoista e miope, vedendo emergere le cime dei monti dalle nuvole crede che esse fluttuino, isolate, nell’aria, mentre un osservatore più acuto intuisce che esse sono legate a qualcosa, seppure in modo nascosto, e comprende che sono i punti più elevati di una catena montuosa.

Agli invidiosi la felicità e l’onore appaiono sotto l’involucro esteriore della ricchezza e dello splendore, dell’acclamazione pubblica e delle lodi dei giornali. Attraverso queste circostanze casuali, che accompagnano una felicità e una fama spesso solo apparenti e raramente reali, essi non riescono a vedere il cuore delle cose.

E qual è questo cuore? Cos’è la felicità? Cos’è l’onore? Come ogni bellezza deve essere organica, come ogni aggiunta ornamentale è soltanto una mostruosità, così anche la felicità e l’onore devono sorgere dallo stesso tronco che poi adorneranno; ci vuole la forza dell’albero fresco e giovane perché i fiori sboccino, ed essi cadono subito quando la linfa che li ha prodotti si esaurisce.

Ammettiamo che il destino regali a un invidioso quello che egli guardava con occhi avidi: esso gli si avvinghierebbe come una escrescenza inorganica, gli succhierebbe le forze, ne logorerebbe la volontà, lo ingannerebbe con nuove, splendide illusioni, verso le quali si volge, bramosa, la sua anima. [...]

L’invidia è anche un errore della natura morale. È una malattia che corrode costantemente l’anima; non come alcune fragilità che lasciano intatto il cuore buono e sembrano solo danni esteriori, conseguenze di malanni fisici o di irritazioni intellettuali.

L’invidia non è associabile all’amore, e senza amore non vi è un buon carattere. Anzi, l’invidia è sotto molti aspetti opposta all’amore, ancor più dell’odio. L’invidia lavora con la rabbia e con il risentimento, l’amore con una lieta calma; i frutti degli sforzi dell’invidia hanno sempre qualcosa di bieco e spiacevole.

Lo sguardo dell’invidioso, che deforma tutto e tutto comprende in modo distorto, ritrova anche nei propri successi i segni di questa insoddisfazione. Esiste una patologia per cui dei bambini tendono ad appagare il loro appetito ricorrendo ad alimenti non commestibili; allo stesso modo l’invidioso pretende continuamente cose che sembrano dargli soddisfazione, ma che, in fondo, accendono sempre più la sua arsura interiore. Questo logorio dell’anima si ripercuote anche sul corpo: gli antichi hanno rappresentato l’invidia come un essere metà uomo metà donna, che procede in avanti con uno sguardo vuoto e torvo, con un velenoso sorriso negli occhi, in modo indolente e con lentezza, molto magra e pallida; insonne e senza pace, sospirando in continuazione dal profondo, nemica della compagnia, è accompagnata da cani serpentiformi (sic!)che la femmina consuma come alimenta suorum vitiorum, come dice Ovidio. [...]

Ma può forse un uomo portare in sé una felicità che illumini ogni piega del suo cuore con un sole interiore e ne riscaldi la freddezza, che rassereni ogni tristezza ma che al contempo si accompagni con un odio radicato verso le altre persone, un’ostilità invidiosa contro tutto ciò che è alto e sublime, un’amarezza avversa a tutte le altre felicità e gli altri onori? Possono nascere dalla medesima radice la rosa che si apre al sole e la malinconica amica della notte, la viola notturna? La felicità, quella aperta e ridente, alla cui luce gli occhi degli sconosciuti si accendono e i volti ostili divengono cortesi, non è compatibile con l’invidia, dal cui sguardo spettrale e dalla cui timida andatura rifugge tutto ciò che è umano.

Secondo un’antica credenza popolare un’anziana donna invidiosa si sarebbe recata su di un’altura di fronte al proprio villaggio e avrebbe scatenato su di esso una tempesta con la violenza del suo sguardo crudele. Nella sua stessa casa e nel suo stesso cortile, uomini e animali sarebbero divenuti preda delle fiamme, mentre la criminale sarebbe stata portata all’inferno dalla nuvola di fumo alzatasi sul villaggio. In questa leggenda, il popolo esprime a modo suo il giudizio sul nefasto peccato dell’invidioso, tratteggiando, d’altra parte, il terribile potere che abita all’interno della sua cattiva volontà. Proprio in questa storia si mostra il ben radicato odio del popolo nei confronti dell’invidia; nelle sue leggende e fiabe, essa non viene trattata scherzosamente e con derisione, come accade con altri vizi, ma con profondo disprezzo e sdegno morale.


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