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A FRANCESCO E CHIARA DI ASSISI. A DANTE E ALL’ ITALIA. "Deus charitas est: et qui manet in charitate, in Deo manet, et Deus in eo" (1 Gv., 4.1,21).

SE UN PAPA TEOLOGO SCRIVE LA SUA PRIMA ENCICLICA, TITOLANDOLA "DEUS CARITAS EST" ("CHARITAS", SENZA "H"), E’ ORA CHE TORNI A CASA, DA "MARIA E GIUSEPPE", PER IMPARARE UN PO’ DI CRISTIANESIMO. Una nota di Federico La Sala

DAL DISAGIO ALLA CRISI DELLA CIVILTA’: FINE DEL "ROMANZO FAMILIARE" EDIPICO DELLA CULTURA CATTOLICO-ROMANA
giovedì 28 febbraio 2013 di Federico La Sala
[...] Il grande discendente dei mercanti del Tempio si sarà ripetuto in cor suo e riscritto davanti ai suoi occhi il vecchio slogan: con questo ‘logo’ vincerai! Ha preso ‘carta e penna’ e, sul campo recintato della Parola, ha cancellato la vecchia ‘dicitura’ e ri-scritto la ‘nuova’: “Deus caritas est”
[Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2006]!
Nell’anniversario del “Giorno della memoria”, il 27 gennaio, non poteva essere ‘lanciato’ nel ‘mondo’ un (...)

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> SE UN PAPA TEOLOGO SCRIVE LA SUA PRIMA ENCICLICA --- BILANCIO DI UN PONTIFICATO. Benedetto XVI: constatazione di fallimento? (di Jacques Noyer, vescovo emerito di Amiens)

venerdì 22 febbraio 2013

Benedetto XVI: constatazione di fallimento?

di Jacques Noyer

in “www.temoignagechretien.fr” del 19 febbraio 2013 (traduzione: www.finesettimana.org)

      • Pur ammirando il gesto di rinuncia di Benedetto XVI, Jacques Noyer, vescovo emerito di Amiens, presenta un primo bilancio in chiaroscuro del pontificato che giunge al termine.

Certo, c’è il corpo che non risponde più, la fatica che paralizza, la vecchiaia che incombe... Mi sembra tuttavia che non sia irrispettoso nei confronti di Benedetto XVI ritenere che nella sua decisione abbia pesato anche la sensazione di fallimento personale da lui probabilmente provata.

Anche chi non gli è intimamente vicino, può immaginare che il suo gesto di rinuncia si spieghi, in parte almeno, con la consapevolezza dell’inefficacia della sua politica personale.

Ad esempio, sappiamo che fin dall’inizio del suo pontificato ha cercato di riconciliare la nebulosa tradizionalista il cui allontanamento gli era particolarmente doloroso. Ha moltiplicato le iniziative. Ha fatto concessioni. Ha offerto privilegi a chi tornava all’ovile. Ancora ultimamente ha rilanciato il dialogo che sembrava finito in un vicolo cieco. Ma senza risultati!

Questa impressione di essere entrato in un mercanteggiamento impossibile dev’essere stata difficile da vivere. Ha ceduto su alcune posizioni, e l’avversario se ne è sentito incoraggiato. Ha già dato molto, e deve dare ancora di più. Alla fine, dovrebbe concedere tutto e rinunciare al concilio. Come uscire da questa impasse?

Si è sentito in dovere di far luce sugli oscuri traffici delle finanze vaticane. Ha dato incarichi a uomini di fiducia per modificare le abitudini e ottenere la trasparenza necessaria. La resistenza degli uomini del segreto è stata così grande che non gli ha permesso di ottenere nulla. Gli intrighi di palazzo sono arrivati fin nei suoi appartamenti privati. Solo e impotente, non poteva evitare che le banche internazionali rifiutassero di lavorare col Vaticano su una base di fiducia e lo trattassero invece come un oscuro rifugio di truffatori. Giovanni Paolo II aveva rinunciato a riformare la curia.

Benedetto XVI, in questo tentativo, si è scontrato contro ostacoli insormontabili. Ha coraggiosamente voluto affrontare la piaga troppo a lungo nascosta della pedofilia. Ha creduto, facendo risalire tutto a Roma, di risolvere il problema all’interno della Chiesa come spetta ad una “società perfetta”. Ahimè, ha constatato ben presto che era proprio quel principio che faceva scandalo. È stato costretto a rinunciarvi e ha dovuto chiedere ai vescovi di consegnare i colpevoli alle autorità locali.

I suoi predecessori avevano perso la Stato Pontificio, avevano dovuto accettare la separazione della Chiesa dagli Stati laici, a lui è toccato rinunciare al mito della Società perfetta, cioè di una Chiesa che sfugge al potere delle nazioni dove è dislocata.

Si può anche immaginare l’umiliazione che avrà provato quando certe incaute battute da intellettuale hanno provocato sommovimenti tragici come le reazioni dei popoli musulmani alle dichiarazioni di Ratisbona: il professore universitario aveva dimenticato di essere papa! Ed eccolo costretto ad andare a pregare alla Moschea blu di Istanbul, sicuramente più lontano di quanto immaginasse.

Deve anche entrare nella dinamica del movimento ecumenico, nello sforzo di buone relazioni con l’ebraismo, nello spirito della preghiera di Assisi. Si sente che è prudente, esitante. Subisce gli avvenimenti, non è lui a dirigerli. Un passo che potrebbe apparire come una vittoria, lo vive come una sconfitta.

È più difficile immaginare ciò che ha provato nella difesa di una dottrina eterna gettata nel vortice della modernità. In una simile lotta, ogni successo è provvisorio e molti i fallimenti. Deve difendere il dogma contro le critiche dello spirito moderno. Deve difendere la morale naturale all’interno di un’evoluzione dei costumi senza precedenti. Deve difendere tradizioni antiche diventate obsolete agli occhi degli uomini d’oggi.

Un combattente come Giovanni Paolo II aveva il gusto della “battaglia” e non si dichiarava mai sconfitto. In simili circostanze, la finezza dell’intelligenza di Benedetto XVI diventa debolezza. Le obiezioni degli avversari colpiscono lui certamente più di altri militanti corazzati di certezze. La fede che lo abita non sopprime il peso della Ragione.

Dei confratelli vescovi mi dicevano quale sofferenza avevano letto sul suo volto quando gli avevano parlato delle difficoltà pastorali in cui certe regole del diritto canonico li costringevano. Con la testa tra le mani, soffriva di non poter dare risposte. Sta a voi, sul campo, diceva loro, trovare un cammino per cui l’osservanza della legge non impedisca l’annuncio del vangelo. I vescovi sono stati colpiti da un papa, debole quanto loro di fronte alle contraddizioni della loro pastorale. Chissà in quali insonnie si sarà prolungato questo bisogno di coerenza!

Questi fallimenti avrebbero potuto causare in anime meno sante lo scoraggiamento totale, una passività rassegnata. Benedetto XVI vi ha invece visto l’occasione di un sussulto di speranza: riconosce il suo fallimento. Sa di essere troppo malandato per ricominciare in un altro modo. Lascia il posto a qualcun altro. Se fosse stato certo delle battaglie condotte, avrebbe preparato un successore. Sente, al contrario, a mio avviso, nel segreto del suo cuore, che un papa nuovo dovrà procedere in modo diverso. Quando fu eletto papa, non gli è stata lasciata scelta: doveva continuare l’opera del suo predecessore e ha faticato a trovare un suo stile. Al contrario, lui, oggi, chiede che si tentino strade differenti.

Possiamo sperare che una figura nuova definisca una nuova strategia. Possiamo aspettarci un papa che abbia qualità e caratteristiche diverse da chi lo ha preceduto. Soprattutto possiamo augurarci un papa che faccia circolare la parola in quel grande corpo che è la Chiesa e che, a questo fine, faccia sì che le decisioni non siano più prese solo a livello centrale. Che dia fiducia al Popolo di Dio, invece di esserne il Guardiano. Che tenti il nuovo là dove l’antico è morto. Questa umiltà è certamente un atto di speranza: un altro farà meglio di me, proclama. Prego che non crolli sotto ciò che lui chiama i suoi difetti. La speranza non lo abbandonerà.

Nessuno pensa oggi di rimproverargli di aver fatto ciò che ha ritenuto giusto fare. Si può solo ammirare che abbia osato aprire la porta alle iniziative di uno sconosciuto che lo Spirito Santo e i cardinali di tutto il mondo stanno già preparandoci.

*Jacques Noyer è vescovo emerito di Amiens, ed ex parroco di Touquet-Paris-Plage. È anche stato professore di filosofia.


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