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PLATONE: ILLUMINISTA O TOTALITARIO?! Al di là dell’illuminismo e del platonismo per il popolo

PLATONE E NOI, OGGI. Una nota di Federico La Sala, seguita da un’intervista a Mario Vegetti di Antonio Gnoli e la risposta di Dario Antiseri.

mercoledì 6 maggio 2009
[...] il discendente di Codro e di Solone afferra
l’anima dell’Agorà, le regole (le categorie) dello scambio
e del dialogo, della discussione delle opinioni e
dell’esame delle merci, le forme-valori dei pensieri (idee)
e delle merci (valori di scambio) e la loro Misura,
la Forma-Valore del Bene-Denaro (l’equivalente generale),
e li riporta in cielo, sull’Acropoli, nelle mani del
Dio degli dei e delle dee: la bilancia è nelle mani del retto
filosofo, re e papa, che sa indicare con senno (...)

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> PLATONE E NOI, OGGI. --- "Atene post-occidentale". Democrazia greca e crisi dei modelli (di Carlo Franco)

martedì 14 ottobre 2014

Democrazia greca e crisi dei modelli

      • Davide Susanetti, "Atene post-occidentale" da Carocci. Il grecista di Padova ci provoca a una lettura militante delle storie antiche (Platone, Euripide, Aristofane), smontando certi stereotipi classicistici duri a morire: gli «spettri» di Atene si aggirano tra di noi

di Carlo Franco (il manifesto/Alias, Domenica, 12.10.2014)

No, non è ras­si­cu­rante la Gre­cia ripen­sata nel libro di Davide Susa­netti Atene post-occidentale Spet­tri anti­chi per la demo­cra­zia con­tem­po­ra­nea (Carocci, pp. 299, euro 20,00). Niente sere­nità olim­pica, né ordi­nate sim­me­trie, e nem­meno pri­mi­tive gran­dezze. Le sto­rie anti­che non sono lette qui come un pacato repo­si­to­rio di modelli utili ad abbel­lire il discorso sull’oggi, ma piut­to­sto come l’espressione di con­flitti radi­cali e distrut­tivi, esito di una pato­lo­gia com­plessa, inda­gata con luci­dità fer­mis­sima.

Una pato­lo­gia che inve­ste la comu­nità della polis a ogni suo livello, dal governo al rap­porto con il divino, dalla fami­glia all’educazione. Ognuno di que­sti ambiti è inda­gato a par­tire dalle nar­ra­zioni anti­che: talora è data la parola ai testi, più spesso la voce dell’autore inter­viene per ana­liz­zare, con una prosa incal­zante e inquieta che dipana le com­plesse sfac­cet­ta­ture dei pro­blemi. La media­zione dell’interprete moderno nell’incontro con gli anti­chi è neces­sa­ria: le sto­rie di Omero, dei tra­gici, dei comici, di Pla­tone, sono rag­giun­gi­bili ormai solo attra­verso una evo­ca­zione. Giac­ché i loro pro­ta­go­ni­sti sono degli spet­tri, spet­tri inquie­tanti e por­ta­tori di mes­saggi. Fin dalle prime pagine è dichia­rata la dif­fi­coltà di que­sto, e di qual­siasi discorso sull’antico. Fermo è il rifiuto di ogni attua­liz­za­zione accat­ti­vante: a essa, ma anche ai modelli di stu­dio pro­pri della tra­di­zione, viene con­trap­po­sto uno sguardo più sof­ferto e cri­tico, vòlto a for­mare una «offi­cina di canoni prov­vi­sori che diven­gono oggetti di una con­ti­nua nego­zia­zione di fron­tiera». Una let­tura che pre­sup­pone la con­sa­pe­vo­lezza della sog­get­ti­vità, giac­ché inter­roga i testi «a par­tire da domande che sono evi­den­te­mente nostre», domande dav­vero «post-occidentali», giac­ché sca­tu­rite dalla crisi gene­rale di senso della nostra civiltà, che dai greci discende. Ma ai clas­sici non spetta di for­nire le rispo­ste, sì di dare espres­sione radi­cale alle nostre inquie­tu­dini.

Il libro si apre con l’incontro tra Odis­seo e le anime dei morti: una scena che appare «il modello di un rap­porto con il pas­sato», quasi l’immagine del lavoro del filo­logo: così Nie­tzsche in una pagina degli Appunti per Noi filo­logi (3.51), da Susa­netti valo­riz­zata anche in pole­mica con la casta pre­sente degli anti­chi­sti. Di qui si apre la via di una «poli­tica della memo­ria e dell’eredità cul­tu­rale» che cer­chi ancora di dia­lo­gare con i fan­ta­smi, attra­verso una «dispen­diosa» ma neces­sa­ria «pra­tica sacri­fi­cale»: solo così l’antichità si rivela «sin­go­lar­mente con­tem­po­ra­nea e ana­cro­ni­sti­ca­mente fami­gliare».

Il libro affronta una serie di nodi tema­tici, estratti da pagine spesso famose della let­te­ra­tura greca, rive­late nella loro forza dirom­pente. Basterà qual­che esem­pio. Nella parola sedu­cente e abi­lis­sima di Peri­cle, riscritta da Tuci­dide, si coglie il segno di una poli­tica tra­sfor­mata in «espe­rienza ero­tica col­let­tiva», nella quale il con­trollo eser­ci­tato dal lea­der può facil­mente sci­vo­lare nell’inganno della lusinga dema­go­gica, anti­ca­mera della sot­to­mis­sione tiran­nica: ciò mostra che la demo­cra­zia può finire nelle mani di mal­fat­tori senza scru­poli, o di indi­vi­dui para­dos­sali come Alci­biade. Il discorso bello dell’eguaglianza, dell’equilibrio, della redi­stri­bu­zione, il discorso insomma della «demo­cra­zia» ate­niese, rivela la pro­pria fra­gi­lità strut­tu­rale, cela una natura con­flit­tuale: sotto la super­fi­cie di paci­fi­ca­zione, sotto l’unanimità del «noi», si celano la minac­cia della vio­lenza, e la debo­lezza degli stru­menti di difesa.

Il disve­la­mento di que­ste faglie è affi­dato soprat­tutto alla parola sce­nica: le vicende delle tra­ge­die, insce­nate dalla città e per la città, mostrano una comu­nità soc­com­bere ai pro­pri ingua­ri­bili mali a cicli ricor­renti. Là si trova espressa in forma con­sa­pe­vole e ras­se­gnata l’idea, già tema­tiz­zata dalla cul­tura arcaica, che il dolore è pre­senza ricor­rente, se non costante, dell’esistenza umana: ma la cul­tura dei greci ha anche sem­pre man­te­nuto vivo «il desi­de­rio della vita buona e la ten­sione all’eccellenza».

Incoe­rente, certo, è stata la con­vi­venza di que­ste visioni: ulte­rior­mente com­pli­cata dal senso della pre­ca­rietà umana, e quindi dall’ansia di cono­scere il destino, nel ten­ta­tivo, sem­pre fru­strato, di pre­ve­nirlo. Tut­ta­via le sto­rie dei «grandi», nar­rate dai poeti e dagli sto­rici, sem­brano ine­lut­ta­bil­mente con­fer­mare che «nes­sun sapere, nes­suna sag­gezza, nes­suna espe­rienza pos­sono pro­teg­gere l’uomo dalla sven­tura, ed ogni ten­ta­tivo di usare la sto­ria - pro­pria o altrui - come istrut­tivo para­digma è solo un ulte­riore passo verso l’inevitabile cata­strofe».

Non si salva nem­meno l’ambito della fami­glia: nell’universo della tra­ge­dia, «che fa da spec­chio pro­ble­ma­tico alla città sto­rica della sedi­cente demo­cra­zia e dell’uguaglianza», anche il rap­porto tra padri e figli dege­nera in un «grumo pro­ble­ma­tico», nel quale né essere simili ai padri (non sem­pre saggi come ci si aspet­te­rebbe), né per­cor­rere rispetto a loro strade alter­na­tive (che tal­volta appa­iono vere paz­zie) è garan­zia di una scelta sag­gia e sicura.

Lo scon­tro tra gene­ra­zioni diviene una sfida che inter­pella la comu­nità dei cit­ta­dini, nella sua dia­let­tica fra tra­smis­sione dei valori tra­di­zio­nali ed espe­ri­menti di novità. Giac­ché se il pas­sato può risul­tare ina­de­guato ad affron­tare il pre­sente, tra le «novità» c’è anche la rivo­lu­zione, la guerra civile, il con­flitto che lacera il corpo della città, che pure il discorso pub­blico demo­cra­tico cele­bra come unito negli intenti e paci­fi­cato dalle ten­sioni. E baste­reb­bero le sto­rie di Edipo o di Anti­gone a mostrare come la stirpe possa essere distrut­tiva anche per la città che l’ospita.

Per­fino la com­me­dia, con le sue burle stram­pa­late, riflette lar­ga­mente su que­sti temi, dipin­gendo con tono scher­zoso un mondo nel quale «vec­chi e gio­vani non hanno più nes­sun bene da tra­smet­tersi». Lon­tano da ogni con­so­la­to­rio «uma­ne­simo», il tea­tro sem­bra dun­que tra­smet­tere l’immagine di un mondo mori­bondo e mefi­tico.

Di qui la domanda, che già alcuni anti­chi più con­sa­pe­voli si posero: come uscirne? La rispo­sta di alcuni ambienti filo­so­fici, e di Pla­tone, sem­bra indi­care come rime­dio, non per­fetto, la sog­ge­zione alla legge. Con­cetto non poco pro­ble­ma­tico anch’esso, viste le con­trad­di­zioni del rap­porto tra legge e giu­sti­zia dimo­strate dalla stessa vicenda di Socrate. Se non qui, la solu­zione allora sta altrove: nell’utopia si potrà dise­gnare uno Stato nel quale i gover­nanti saranno «schiavi delle leggi», a sal­vezza dalla rovina altri­menti certa dell’intera comu­nità. Tanto più che la crisi non è solo nei valori, ma chia­ra­mente anche nelle con­di­zioni mate­riali dei cit­ta­dini: nella Repub­blica pla­to­nica la dispari distri­bu­zione della ric­chezza e l’insaziabile accu­mulo sono già chia­ra­mente indi­vi­duati come «una minac­cia costante alla sta­bi­lità e alla giu­sta con­cor­dia».

E ancora una volta, la demo­cra­zia appare inetta a tro­vare solu­zioni ade­guate. Lo mostrano, con il con­sueto grot­te­sco rove­scia­mento, le uto­pie della com­me­dia di Ari­sto­fane: né i folli pro­getti comu­ni­stici, né i sogni di ric­chezza gene­rale, una volta messa sotto con­trollo la potenza del denaro, hanno suc­cesso. In que­sti ten­ta­tivi «ogni volta par­ziali e insod­di­sfa­centi» sta peral­tro un con­tri­buto di ana­lisi: è «la dina­mica eco­no­mica il punto di par­tenza di un rin­no­va­mento», oppure è «eli­mi­nando la ten­sione alla ric­chezza che si pon­gono le pre­messe di una nuova con­vi­venza»?

Nem­meno dagli intel­let­tuali, e dal mondo che oggi si chia­me­rebbe della «for­ma­zione», sem­bra poter venire una rispo­sta suf­fi­ciente. Basta ripen­sare alle Nuvole di Ari­sto­fane: la com­me­dia mette in scena dei (pre­sunti) «cat­tivi mae­stri», e cele­bra la voglia di libe­rar­sene per le vie spicce. Si crede così di rime­diare alla malat­tia: ma il vero pro­blema sono soprat­tutto gli adulti, inca­paci di deci­dere dell’educazione dei figli e di assol­vere il pro­prio ruolo.

Si com­prende sem­pre meglio la spinta a cer­care vie com­ple­ta­mente diverse, anche dure, per ten­tare di risol­vere il pro­blema. In attesa della «città bella» di Pla­tone, la città reale con­ti­nua intanto a con­fron­tarsi con i suoi pro­blemi: «dalla tra­ge­dia alla com­me­dia, si rin­nova il pano­rama di un pre­sente disfo­rico». Che risalta ancor meglio nell’incontro pro­vo­ca­to­rio con l’alterità.

La bar­bara Medea o l’inquietante Dio­niso, figure sedut­tive, indu­cono la comu­nità a sfide auto­di­strut­tive, e si rive­lano alla fine «liqui­da­tori di un’élite oscena», a Tebe e a Corinto. È que­sta apo­ca­lisse, estrema e scioc­cante, l’unica catarsi? E intorno a quale «nuovo patto» la città potrà ricom­porsi? La pro­po­sta pla­to­nica per sot­trarre la città al regno ammor­bante della morte è che qual­cuno sia for­zato a uscire dalla caverna dell’inconsapevolezza, com­piendo il cam­mino verso la verità e la bel­lezza, e poi ritorni a impe­gnarsi nella fatica della poli­tica. Anche con­tro il desi­de­rio dei suoi pre­ce­denti com­pa­gni di pri­gio­nia, ancora servi del pro­prio asser­vi­mento, egli dovrà ten­tare di svol­gere la pro­pria mis­sione.

Que­sta sfida, posi­tiva sep­pure lar­ga­mente desti­nata alla scon­fitta, è ciò che, secondo il ripen­sa­mento di Davide Susa­netti, Atene può pro­porre oggi alla nostra demo­cra­zia, certo non meno malata di quella antica. Inter­pel­lato dalle sto­rie degli anti­chi, rilette in que­sto denso e pen­soso libro, il let­tore viene indotto a riflet­tere: a chie­dersi a quali scelte egli sia per­so­nal­mente chiamato.


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