Jacques Derrida e la tentazione di Siracusa
di Francesca Rigotti (Doppiozero, 21 febbraio 2019)
Inizio con un ricordo personale. Era il 1970, avevo 19 anni e preparavo insieme ad alcune compagne gli esami di maturità classica. Allo scopo di «svecchiare» la nostra cultura scolastica, ci facevamo talvolta assistere e consigliare da uno studente universitario di filosofia dai riccioli neri che ci faceva da mentore. Un giorno Ugo - che divenne un illustre semiologo, Ugo Volli - arrivò sventolando un libro ed esclamando entusiasta: buttate vie tutti i vostri superati libri di filosofia e leggete questo. Era La voce e il fenomeno, una delle prime traduzioni italiane di un’opera di Jacques Derrida.
Un filosofo-star
Il libro era stato pubblicato in francese nel 1967, annus mirabilis per la filosofia, perché uscirono allora, dello stesso autore, anche La scrittura e la differenza e La grammatologia. Derrida aveva allora 37 anni e si avviava a diventare un nome grande, anche se molto discusso, della filosofia, in patria ma ancor di più all’estero, soprattutto negli Stati Uniti. Una carriera strepitosa per il giovane filosofo nato in Algeria da famiglia ebrea sefardita e recatosi a frequentare l’università a Parigi, per poi insegnare in quella città e in numerose università americane, tra le quali infine, stabilmente, a Irvine in California. Che cosa portava di nuovo Derrida e perché era tanto acclamato in alcuni ambiti, al punto di diventare una star mediatica, con sale strapiene di ascoltatori alle sue conferenze, film e programmi televisivi su di lui?
Decostruzione e differenza («différance»)
Derrida portava una nuova visione interpretativa che introduceva nel circolo ermeneutico il decostruzionismo e la differenza. L’ermeneutica è la scienza di Hermes/Mercurio, il messaggero degli dei. Hermes porta il messaggio degli dei e l’ermeneutica è l’arte di leggere quel messaggio, l’arte di interpretare e comprendere in vari modi la storia dell’umanità. L’ermeneutica si opponeva all’aborrito positivismo e al realismo ingenuo di chi voleva adattare i metodi delle scienze naturali ai fenomeni del mondo umano. Sono comunque i concetti tutt’altro che semplici di decostruzione e différance a caratterizzare maggiormente il pensiero di Derrida.
Oggi sono termini banditi dal linguaggio filosofico (insieme a quelli di uno dei grandi referenti filosofici di Derrida, Heidegger), perché riflettono, sostengono i suoi avversari, un modo di pensare illogico e impreciso, mentre gli estimatori lodano proprio gli aspetti evocativi, parodossali e illuminanti di quello stile di pensiero. La decostruzione è un modo di criticare testi letterari e filosofici non meno che istituzioni politiche; non è sinonimo di distruzione quanto piuttosto di analisi e scomposizione, dedita alla ricerca del significato che spesso non sta nelle enunciazioni di fondo ma magari a margine del testo, in una nota. Decostruire è dichiarare che non esiste un modo univoco e non equivoco di significare, ma esistono le interpretazioni. Decostruzione è non assumere come naturale ciò che naturale non è, in quanto condizionato dalla storia, dalla società o dalle istituzioni.
L’altro termine chiave, différance, scrive con la a una parola, différence, scritta con la e, per indicare il cambio di statuto che insiste piuttosto su differire, spostare. In altri termini i diversi (différents) significati di un testo possono essere individuati tramite la différance decostruendo la struttura del linguaggio e differendo la loro interpretazione.
Argomentare e evocare
Col suo peculiare stile evocativo e letterario Derrida si attirò gli strali dei filosofi analitici capitanati da John Searle, che considerano se stessi gli unici «veri» filosofi e il loro modo di intendere la filosofia l’unico «vero», all’interno di una concezione monista e realista della realtà, della verità, della conoscenza e del linguaggio nella quale non c’è spazio per l’abito poetico-letterario-narrativo. Esempio ne fu la lettera scritta nel maggio del 1992 da un gruppo di filosofi analitici di dieci paesi e pubblicata in «The Times», il 9 dello stesso mese, per protestare contro la laurea h.c. da parte della Cambridge University a Derrida perché la sua opera «non incontra standards accettati di chiarezza e rigore», usa uno stile scritto che «sfida la comprensione» e offre soltanto asserzioni «false o triviali» ecc.
La lectio di Siracusa
Detto ciò arriviamo al 2001, non ancora annus terribilis quale sarebbe diventato dopo l’11 settembre. Il 18 gennaio Jacques Derrida riceve, a Siracusa, per iniziativa del Collegio Siciliano di Filosofia, la cittadinanza onoraria della città da parte dell’allora sindaco Giambattista Bufardeci. Siracusa, la città dei viaggi di Platone descritti e narrati nella Settima lettera. Per l’occasione Derrida tenne un discorso che non fu un discorso d’occasione ma una lectio vera e propria, riproposta in traduzione italiana in questo libretto, calorosamente quanto dottamente circondata da una prefazione di Caterina Resta e da due postfazioni, di Elio Cappuccio e di Roberto Fai (Jacques Derrida, Tentazione di Siracusa, Milano-Udine, Mimesis, 2018).
Derrida arriva a Siracusa per la prima volta, come scrive anche di sé Platone (Lettera VII, 324 a) e vi giunge, spiega, non da Nord, non da Parigi, ma da Sud, da un posto ancora più a Sud della Sicilia, da Algeri. Lì infatti è nato e lì ha goduto del sole e del mare a buon mercato, anzi gratis, come Camus. Come il piccolo Albert che nonostante le origini poverissime aveva potuto godere del mare e del sole che erano lì per tutti. E la cui patria spirituale era diventata, attraverso il privilegio degli studi classici, la Grecia, perché io, diceva di sé Camus, «ho un cuore greco» (Oeuvres complètes, 1948, II, 476). Un cuore greco, e anche un coraggio di ispirazione secolare che credo si possano attribuire senza sbagliare anche a Derrida. Già in Algeria, spiega Derrida, si respirava «la molteplicità dei retaggi mediterranei, la profusione cosmopolita della memoria» (Tentazione di Siracusa, p. 22). Le stesse molteplicità e profusione che il filosofo riconosceva a Siracusa, allora, nel 2001, e che ora, non sono passati neanche quattro lustri, già ci vogliono togliere per sostituirle con l’angustia di celle di purezza e omogeneità identitaria.
Mi presento a Siracusa non nudo ma innocente
Mi presento a Siracusa, continua Derrida nella sua lectio, non nudo ma innocente. Non nudo, perché non mi si sospetti di voler imitare il grande Archimede che esce nudo e bagnato dalla vasca per annunciare al mondo la sua strabiliante scoperta. Non nudo perché non viviamo nella dolce libertà delle primitive leggi della natura (questo veramente non è argomento di Derrida ma di Montaigne-Rousseau). Non nudo perché non voglio essere un re nudo ma soprattutto non voglio essere un re né ambisco a spartire tentazioni di potere. Ecco la tentazione di Siracusa, quella che coglie Platone negli attimi in cui pensa che potrebbe governare, o almeno che i filosofi potrebbero dar leggi ai governanti. È la tentazione che coglie il filosofo nell’immaginare di prendere il potere e di gestirlo sì, ma in maniera perversa. Indirettamente cioè, mandando avanti re e imperatori con i suoi consigli e con suggerimenti di leggi, ordinamenti, propositi. Applicando il farmaco ambiguo della propria saggezza, rimedio e veleno tirato fuori dall’armadietto della farmacia di Platone.
Finiti sono ora e per fortuna i tempi tirannici in cui il filosofo poteva sognare di diventare consigliere del re eppure ciò non significa, conclude Derrida, che la filosofia politica sia morta e inutile e ancor meno che lo sia la filosofia del politico. Anche perché il politico è cambiato, è diventato globale («mondiale») e non è più legato agli stati-nazione, all’autoctonia, alla lingua e alla religione, al Blut und Boden, sangue e suolo. Si annuncia la nuova era della cittadinanza cosmopolita, della nuova ospitalità allo straniero, proprio come quella che la città di Siracusa offre quel giorno allo straniero Derrida.
Un altro salto nel tempo, e siamo ancora a Siracusa, nella Siracusa di oggi, simbolo di ogni porto cui tentano di approdare persone, esseri umani, che come Jackie provengono dal Sud del mondo. Saranno forse non xenoi/hospes, stranieri nemici, ma stranieri residenti, come si augura Donatella Di Cesare, e come forse si sarebbe augurato lo stesso Derrida?