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"VINCERE". Il film di Marco Bellocchio sarà presentato a Cannes. Racconta un duce inedito. Di una donna perseguitata e del figlio Benito Albino

MUSSOLINI, IDA DALSER, E BENITO ALBINO MUSSOLINI: UNA TRAGEDIA ITALIANA. Sul film di Marco Bellocchio, una nota di Michele Anselmi, un’intervista al regista di Aldo Cazzullo, e una nota di Malcom Pagani - a cura di pfls

Ida fu sua moglie, sempre. «Accusò il fratello Arnaldo». Lo stesso che sulla Gazzetta Ufficiale mutò l’identità di Albino «Gli fece assumere un altro cognome. Cambiò la vita di una persona e quella di una nazione».
giovedì 7 maggio 2009 di Federico La Sala
[...] Racconta Bellocchio che il finale è cambiato rispetto al progetto. «Pensa­vo di chiudere il film con una scena am­bientata dopo la Liberazione: il cogna­to di Ida Riccardo Paicher, l’uomo che non aveva saputo difenderla, esce da un cinema richiamato dalle sirene del­la polizia, assiste agli scontri di un cor­teo politico con le bandiere rosse e tut­to, e soccorre una ragazza ferita. Poi mi sono detto che il film non meritava un finale consolatorio. È una tragedia, e così deve finire» (...)

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> “MADDALENA SANTORO E ARNALDO MUSSOLINI” -- "Margherita Sarfatti. Dal mito del Dux al mito americano" (S. Urso).

venerdì 10 febbraio 2017

Una protagonista: Margherita Sarfatti

di Roberto Dulio (Domus, 20 Aprile 2005) *

      • Margherita Sarfatti Dal mito del Dux al mito americano, Simona Urso Marsilio, Venezia 2004 (pp. 238, € 21,00).

Senza dubbio Margherita Sarfatti non fu solo la critica d’arte che legittimò il gruppo dei pittori del Novecento, piuttosto che una delle innumerevoli amanti di Benito Mussolini. Rappresentò invece una figura intellettuale di rilievo, che condizionò fortemente - almeno sino all’inizio degli anni Trenta - le scelte culturali del regime, e non solo. Il suo influsso non era riducibile alla preferenza di una data connotazione stilistica, ma comportava una più complessa definizione dell’identità culturale della società fascista, del ruolo degli intellettuali al suo interno, della ricerca di una legittimazione storica dello stesso fascismo.

Trasformò Mussolini nel mito del Dux (Milano 1926, il volume era già apparso in inglese col titolo The life of Benito Mussolini, London 1925), una biografia fortunatissima che ebbe innumerevoli riedizioni e traduzioni, e contribuì in larga misura a forgiare quell’immaginario della “romanità” del fascismo che inebriò lo stesso Mussolini.

A questo proposito Renzo De Felice nella sua Intervista sul fascismo (Bari 1975) ricorda una conversazione con la Sarfatti avvenuta nel 1961, dopo la quale lo storico si domandò “quanto del mito della romanità fosse farina del sacco di Mussolini, e non invece piuttosto frutto dell’influenza della Sarfatti. Perché non ho mai conosciuto in vita mia una persona malata come lei di romanità”.

Il saggio di Simona Urso ripercorre queste vicende, scartando l’opzione biografica e concentrandosi sull’avvicinamento della Sarfatti al fascismo, dalla sua militanza socialista, seppure precocemente revisionista, nella Milano del 1902 - dove la giovane ebrea veneziana, nata Grassini, si era trasferita dopo il matrimonio con l’avvocato Cesare Sarfatti - ai suoi rapporti con l’ambiente futurista, poi con la rivista La Voce, alla propaganda interventista alla vigilia della Seconda guerra mondiale, fino a coniugare la funzione rigeneratrice dell’arte al contesto del rinnovamento politico. Proprio quest’ultima connotazione porterà la Sarfatti, a ridosso della marcia su Roma e della creazione di Novecento, a concepire quell’idea di “politicizzazione dell’estetica” che costituirà una delle chiavi per leggere il suo ruolo all’interno del fascismo. Un impegno all’interno del regime che, come afferma l’autrice, “può essere spiegato, come quello di molti suoi coetanei, con la volontà - non sempre realizzata - del ceto medio intellettuale di trasformarsi in ceto politico, un’inedita classe dirigente convinta di incarnare una nuova idea di nazione”.

Il lavoro di Urso può essere confrontato con quello di Philip V. Cannistraro e Brian R. Sullivan, che con The Duce’s other woman (New York 1993, subito tradotto in italiano col titolo Margherita Sarfatti. L’altra donna del duce, Milano 1993) si erano misurati con le vicende sarfattiane dopo la reticente autobiografia Acqua passata (Rocca San Casciano 1955) che la Sarfatti aveva pubblicato qualche anno prima della morte, avvenuta nel 1961. Gli studi di Cannistraro e Sullivan erano condotti nell’ambito di una scuola storiografica americana che aveva assunto le contraddittorie vicende dell’Italia fascista come campo di indagine privilegiato, contribuendo a dare uno sguardo nuovo, scevro da coinvolgimenti di sorta, a quegli avvenimenti dal drammatico epilogo.

I due storici americani avevano ripercorso l’intera vita della Sarfatti, dalla formazione, alla militanza socialista, al coinvolgimento fascista, alla sua posizione di rilievo all’interno del regime, fino al sempre più limitato ruolo, e poi, dopo le leggi razziali che la costringono all’esilio, alla permanenza in Sudamerica e al ritorno a Roma nel 1947. Nel volume appariva evidente il peso che aveva avuto la Sarfatti, non solo nel determinare un orientamento culturale nuovo - attento alle tradizioni ma lontano dagli atteggiamenti xenofobi delle direttive più retrive del regime - ma anche nel mettere a punto una strategia in cui le componenti culturali e politiche erano strettamente connesse. Cannistraro era del resto l’autore del noto saggio La fabbrica del consenso. Fascismo e mass media (Bari 1975) che certo doveva averlo reso ben consapevole dei meccanismi della macchina culturale e politica del regime.

Se la narrazione biografica di The Duce’s other woman disperdeva, a volte, la concatenazione delle varie tappe del progetto culturale della protagonista nell’intimismo e nel colore di molte vicende personali della sua vita, il documentatissimo volume di Urso soffre del difetto opposto. Tutta la vicenda della Sarfatti appare infatti svolgersi in modo preordinato, senza contraddizioni, perfettamente aderente, disillusioni comprese, all’interpretazione dell’autrice. Inoltre l’utilizzo, pur corretto, di innumerevoli “etichette storiografiche” - solo a pagina 32 si susseguono “la crisi del pensiero razionale”, i “sindacalisti rivoluzionari”, la “revisione del marxismo”, la “crisi del positivismo”, la “avanguardia cattolica e, poco più tardi, futurista, che portarono a Milano la cultura francese, il simbolismo, e il mito della modernità”, la “militanza riformista” e i “cenacoli informali della Milano laica” - genera una sorta di ermetismo disciplinare che non sempre giova ad una lettura del volume da parte di un pubblico più ampio di quello degli “addetti ai lavori”.

Difetti comunque minimi per un volume che ha il merito di riprendere in maniera fruttuosa il contributo più qualificato che la storiografia americana ha dedicato all’argomento e, come già sottolineato, di ripercorrere in maniera analitica il ruolo di Margherita Sarfatti nella costruzione del mito fascista e, dopo la disillusione e le leggi razziali, nella ricerca di “una nuova Roma” in America. A questo mito americano allude infatti il sottotitolo del volume, un mito alla cui costruzione la Sarfatti stava già dedicandosi prima di lasciare l’Italia, pubblicando L’America, ricerca della felicità (Milano 1937), un mito verso il quale Urso ci conduce solo fino alla soglia, non occupandosi poi del periodo americano dell’autrice di Dux.

* Roberto Dulio Architetto


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