Mussolini e la sua amante Ida Dalser Quando l’ignavia diventa il marchio di una nazione Il volto cinico di una dittatura
di Alberto Melloni (Corriere della Sera, 22.06.2009)
C’è un’opera che gira le sale cinematografiche e inquieta l’Italia. È Vincere, il film di Marco Bellocchio. Racconta la storia di Ida Dalser (una ragazza trentina con la quale Mussolini ha una storia sentimentale dalla quale nasce Benito Albino); le conseguenze del matrimonio (che lei dichiara esistere, ma di cui spariscono le tracce) e l’inferno manicomiale che la inghiotte. Una storia che nel 2005 la provincia di Trento e la Grandestoria portarono su RaiTre in una eccellente puntata.
A differenza del documentario, però, il film di Bellocchio disloca le domande più inquietanti e tragiche dentro lo spettatore. Lo ustiona facendolo sentire impotente davanti al destino di Ida. Lo ossessiona con l’ossessione che lei ha nel dire «suo» un uomo che non lo è mai stato, mentre la maschera del Duce la insegue nei cinegiornali dell’Istituto Luce. Lo commuove col racconto di una maternità spezzata dalla reclusione in manicomio e delle ipocrisie che cercano di raddolcire questa violenza ultima di cui sarà vittima sacrificale immolata da una rete di complicità - nella quale ognuno sente che ora e qui potrebbe dare alla sciagurata Dalser consigli di ipocrisia, forse perfino quello più esilarante e sedativo che ci sia: «Legga Pascoli...»
Non siamo, però, in presenza di un film «politico». La politica che c’è in Vincere non è sullo schermo, ma dentro lo spettatore. Denuda i luoghi comuni, i convincimenti banalizzanti, le edulcorazioni autoassolutorie di cui sono piene la cultura italiana, la storia italiana, la scena pubblica italiana. Quel che Bellocchio fa vedere è un capitolo separato e decisivo di Mussolini, come quelli della grande impresa di Renzo De Felice (al quale, mi sbaglierò, Vincere sarebbe piaciuto). «Mussolini il lurido», verrebbe da intitolare questo tomo supplementare: dopo due ore nelle quali la volgarità prepotente, il sopruso come strumento di seduzione, l’estetica della violenza corrono da un capo all’altro della memoria e dello schermo, fino a che la storia di Ida e Albino Benito entra in chi guarda, incomincia a girare, tagliente.
Diventa una parabola: quella della Dalser, che, come scrisse Sergio Luzzato parlando del citato documentario Rai, è una storia che è «più facile da raccontare che da digerire». Ma la forza di Vincere è che a raccontarla ci pensa Bellocchio. Lasciando a un «noi» di diverse generazioni - a quella dei padri, a quella che i padri non può più interrogarli e a quella che ha dei figli - il compito di digerire i perché, i come mai, che come occhi di luce scandagliano la coscienza comune di una nazione stordita (a cui Giovanna Mezzogiorno dà volto e corpo) da un uomo goffo e superficiale, da un cavaliere dalle molte macchie e dalle tante paure (di cui Filippo Timi esalta le caricaturalità emotive), quasi che, oltre che come autobiografia, il fascismo d’improvviso apparisse come un autoscatto della nazione.
C’è infatti un mondo di medici e parenti, suore e baciapile, idioti e carogne che si muove sullo sfondo del mondo manicomiale che manduca i sogni della quarantenne dichiarata demente. E che, anziché capire la vicenda di questa Cassandra d’Italia (che crede di essere la sola rimasta fregata in un mondo di salvati e invece è solo la prima di un tutto), si adatta volentieri alla logica di un mediocre che sa solleticare il peggio di cui gli ignavi sono capaci - perfino gli ignavi colti, che pensano alla sedazione pascoliana, o gli ignavi in abito religioso, che il giorno della Conciliazione sentono alla radio il trionfalismo di regime, anziché il grido dell’ingiustizia che gli si para innanzi.
Non tocca ai film spiegare il passato, pareggiare i conti, svelare chissà che. Nemmeno a un film come questo, che depura d’un colpo l’antifascismo dal peso della retorica che lo ha reso esangue. E non è a un opera d’arte, neppure a questa dove diventa arte la cucitura fra il girato e il repertorio Luce, che si deve chiedere di spiegare perché il fascismo è stato italiano. Ma la forza con cui Vincere chiede a ciascuno di dire il suo perché, è propria della settima arte, quando viaggia a questo livello.