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"VINCERE". Il film di Marco Bellocchio sarà presentato a Cannes. Racconta un duce inedito. Di una donna perseguitata e del figlio Benito Albino

MUSSOLINI, IDA DALSER, E BENITO ALBINO MUSSOLINI: UNA TRAGEDIA ITALIANA. Sul film di Marco Bellocchio, una nota di Michele Anselmi, un’intervista al regista di Aldo Cazzullo, e una nota di Malcom Pagani - a cura di pfls

Ida fu sua moglie, sempre. «Accusò il fratello Arnaldo». Lo stesso che sulla Gazzetta Ufficiale mutò l’identità di Albino «Gli fece assumere un altro cognome. Cambiò la vita di una persona e quella di una nazione».
giovedì 7 maggio 2009 di Federico La Sala
[...] Racconta Bellocchio che il finale è cambiato rispetto al progetto. «Pensa­vo di chiudere il film con una scena am­bientata dopo la Liberazione: il cogna­to di Ida Riccardo Paicher, l’uomo che non aveva saputo difenderla, esce da un cinema richiamato dalle sirene del­la polizia, assiste agli scontri di un cor­teo politico con le bandiere rosse e tut­to, e soccorre una ragazza ferita. Poi mi sono detto che il film non meritava un finale consolatorio. È una tragedia, e così deve finire» (...)

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> MUSSOLINI, IDA DALSER, E BENITO ALBINO MUSSOLINI: UNA TRAGEDIA ITALIANA. --- Quando l’ignavia diventa il marchio di una nazione (di Alberto Melloni).

lunedì 22 giugno 2009

Mussolini e la sua amante Ida Dalser Quando l’ignavia diventa il marchio di una nazione Il volto cinico di una dittatura

di Alberto Melloni (Corriere della Sera, 22.06.2009)

C’è un’opera che gi­ra le sale cinema­tografiche e in­quieta l’Italia. È Vincere, il film di Marco Belloc­chio. Racconta la storia di Ida Dalser (una ragazza trentina con la quale Mussolini ha una storia sentimentale dalla quale nasce Benito Albino); le conse­guenze del matrimonio (che lei dichiara esistere, ma di cui spariscono le tracce) e l’infer­no manicomiale che la inghiot­te. Una storia che nel 2005 la provincia di Trento e la Gran­destoria portarono su RaiTre in una eccellente puntata.

A differenza del documenta­rio, però, il film di Bellocchio disloca le domande più inquie­tanti e tragiche dentro lo spet­tatore. Lo ustiona facendolo sentire impotente davanti al de­stino di Ida. Lo ossessiona con l’ossessione che lei ha nel dire «suo» un uomo che non lo è mai stato, mentre la maschera del Duce la insegue nei cine­giornali dell’Istituto Luce. Lo commuove col racconto di una maternità spezzata dalla reclu­sione in manicomio e delle ipo­crisie che cercano di raddolci­re questa violenza ultima di cui sarà vittima sacrificale immola­ta da una rete di complicità - nella quale ognuno sente che ora e qui potrebbe dare alla sciagurata Dalser consigli di ipocrisia, forse perfino quello più esilarante e sedativo che ci sia: «Legga Pascoli...»

Non siamo, però, in presen­za di un film «politico». La po­litica che c’è in Vincere non è sullo schermo, ma dentro lo spettatore. Denuda i luoghi co­muni, i convincimenti banaliz­zanti, le edulcorazioni autoas­solutorie di cui sono piene la cultura italiana, la storia italia­na, la scena pubblica italiana. Quel che Bellocchio fa vedere è un capitolo separato e decisi­vo di Mussolini, come quelli della grande impresa di Renzo De Felice (al quale, mi sbaglie­rò, Vincere sarebbe piaciuto). «Mussolini il lurido», verreb­be da intitolare questo tomo supplementare: dopo due ore nelle quali la volgarità prepo­tente, il sopruso come stru­mento di seduzione, l’estetica della violenza corrono da un capo all’altro della memoria e dello schermo, fino a che la storia di Ida e Albino Benito en­tra in chi guarda, incomincia a girare, tagliente.

Diventa una parabola: quel­la della Dalser, che, come scris­se Sergio Luzzato parlando del citato documentario Rai, è una storia che è «più facile da rac­contare che da digerire». Ma la forza di Vincere è che a rac­contarla ci pensa Bellocchio. Lasciando a un «noi» di diver­se generazioni - a quella dei padri, a quella che i padri non può più interrogarli e a quella che ha dei figli - il compito di digerire i perché, i come mai, che come occhi di luce scandagliano la coscienza co­mune di una nazione stordita (a cui Giovanna Mezzogiorno dà volto e corpo) da un uomo goffo e superficiale, da un cava­liere dalle molte macchie e dal­le tante paure (di cui Filippo Ti­mi esalta le caricaturalità emo­tive), quasi che, oltre che co­me autobiografia, il fascismo d’improvviso apparisse come un autoscatto della nazione.

C’è infatti un mondo di me­dici e parenti, suore e baciapi­le, idioti e carogne che si muo­ve sullo sfondo del mondo ma­nicomiale che manduca i so­gni della quarantenne dichiara­ta demente. E che, anziché ca­pire la vicenda di questa Cas­sandra d’Italia (che crede di es­sere la sola rimasta fregata in un mondo di salvati e invece è solo la prima di un tutto), si adatta volentieri alla logica di un mediocre che sa solleticare il peggio di cui gli ignavi sono capaci - perfino gli ignavi col­ti, che pensano alla sedazione pascoliana, o gli ignavi in abi­to religioso, che il giorno della Conciliazione sentono alla ra­dio il trionfalismo di regime, anziché il grido dell’ingiustizia che gli si para innanzi.

Non tocca ai film spiegare il passato, pareggiare i conti, sve­lare chissà che. Nemmeno a un film come questo, che de­pura d’un colpo l’antifascismo dal peso della retorica che lo ha reso esangue. E non è a un opera d’arte, neppure a questa dove diventa arte la cucitura fra il girato e il repertorio Lu­ce, che si deve chiedere di spie­gare perché il fascismo è stato italiano. Ma la forza con cui Vincere chiede a ciascuno di di­re il suo perché, è propria del­la settima arte, quando viaggia a questo livello.


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