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PAIDEIA. EDUCAZIONE ALLA SOVRANITA’ DEMOCRATICA ..... "AVERE IL CORAGGIO DI DIRE AI GIOVANI CHE SONO TUTTI SOVRANI" (don Lorenzo Milani).

ESAMI DI MATURITA’. SECONDA PROVA SCRITTA: PEDAGOGIA. Due tracce ... im-possibili - a cura di Federico La Sala

giovedì 4 giugno 2009 di Federico La Sala
STORIA, MEMORIA ED EDUCAZIONE: "MEDITATE CHE QUESTO E’ STATO". CON GRAMSCI, PRIMO LEVI E KURT H. WOLFF: SULLA ZATTERA DELLA MEDUSA, SU UN OCEANO DIPINTO, CON L’AMORE COGNITIVO.
EDUCAZIONE, INSEGNAMENTO, E SOCIETA’: LA PATRIA, LA NOSTRA PATRIA E’ LA LINGUA, NON LA TERRA NON IL SANGUE. Dante e Saussure insegnano. Materiali sul tema
IL MONDO COME SCUOLA, LA FACOLTA’ DI GIUDIZIO, LA CREATIVITA’, I NATIVI DIGITALI, E L’ATTIVISMO CIECO NELLA CAVERNA DI IERI E DI OGGI. Materiali (...)

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> ESAMI DI MATURITA’ 2009. SECONDA PROVA SCRITTA: PEDAGOGIA. --- E’ il linguaggio del leader a svelare che il regime che giorno dopo giorno avanza nel nostro paese tende a riproporre qualcosa che l’Italia ha già conosciuto. Il disfattismo ... il fantasma necessario (di Adriano Prosperi).

lunedì 15 giugno 2009

Il fantasma necessario del “disfattismo”

di Adriano Prosperi (la Repubblica, 15.06.2009)

Disfattismo: la parola appare improvvisa in una lingua che l’aveva dimenticata. Nel «Lessico di frequenza della lingua italiana contemporanea» che nel 1971 il Cnuce di Pisa pubblicò sulla base di un campione di 500.000 parole d’uso tra il 1947 e il 1968 troviamo la parola «disfatta» ma non troviamo «disfattismo».

C’era voluta la disfatta della guerra per far tacere la voce di un regime che per vent’anni aveva sistematicamente fatto uso dell’accusa di disfattismo. E infatti basta varcare il confine del 1945 per trovare un uso sistematico di quell’accusa. Non sono più molti oggi gli italiani che l’hanno ascoltata nei raduni oceanici del regime fascista o gridata da una voce stentorea attraverso la radio. E solo l’ignoranza diffusa della nostra storia e la mancanza di una cultura politica degna di questo nome spiega perché manchi oggi una capacità collettiva del nostro paese di riconoscere l’apparizione di un termine chiave della nostra storia novecentesca . Il mondo è cambiato, la società italiana è oggi sideralmente lontana nei consumi e nello stile di vita da quella dei tempi del primo Cavaliere, i mezzi di comunicazione sono dotati di un’efficienza e di una capillarità allora inimmaginabili.

Ma quella parola che affiora nel linguaggio del presidente del Consiglio è come una macchina del tempo. Di più , è un marcatore genetico. Ci riporta agli anni venti del secolo scorso. Svela il binario obbligato su cui corre il treno dell’avventura politica oggi in atto. Contro il disfattismo dei socialisti e la debolezza dei liberali, responsabili di dividere il paese e di criticare chi aveva voluto l’ingresso in guerra, Benito Mussolini pronunziò un celebre discorso il 3 aprile 1921 nel teatro comunale di Bologna: l’attacco era fatto in nome di una «stirpe ariana e mediterranea» da parte di un capo che chiamava a raccolta contro il nemico interno. Il filo dell’attacco al disfattismo non si interruppe qui. Fu il leit motiv della propaganda del regime.

Se rievochiamo queste vecchie cose non è per tornare sulla questione generale se quello che si presentò anni fa come il «nuovo che avanza» sia in realtà qualcosa di molto vecchio, se il berlusconismo sia classificabile come fascismo. Quello che si presenta è una nuova declinazione di qualcosa che appartiene alle viscere profonde della storia italiana, alle magagne della nostra società, alle questioni non risolte nel rapporto tra gli italiani e il passato del paese.

E’ il linguaggio del leader a svelare che il regime che giorno dopo giorno avanza nel nostro paese tende a riproporre qualcosa che l’Italia ha già conosciuto. Il disfattismo fu per il regime fascista un fantasma necessario, continuamente evocato, il responsabile a cui imputare le difficoltà e gli insuccessi. La voce del Capo si alzava non tanto per denunziare le trame dei disfattisti di professione, quel pugno di antifascisti «soli, solissimi», come ha scritto Vittorio Foa. Per loro, per seguirne i passi, in Italia e all’estero, per eliminarli all’occorrenza, bastavano l’Ovra e i sicari. No: il disfattismo era per il regime il nemico per definizione, l’unico nemico che potesse minacciare un sistema in cui il Capo doveva realizzare l’ideale supremo della democrazia organica, della fusione mistica del popolo nel leader. E tanto più insistente fu la campagna contro il disfattismo quanto più in profondità penetrava l’adesione collettiva al regime, quanto più generalizzato fu il consenso.

Consenso: questa è la parola che figura nel titolo di un volume della biografia di Mussolini scritta da Renzo De Felice. Da lì data la sconfessione di una falsa immagine della nostra storia. La favola bella che fu raccontata dopo la Liberazione all’Italia che si scopriva insieme sconfitta e vittoriosa fu quella di un antifascismo originario e diffuso che era sfociato naturalmente nella Resistenza.

Oggi sappiamo che non era vero. Sappiamo che gli italiani erano stati profondamente corrotti dal regime fascista. La corruzione era consistita proprio nella continua denunzia del disfattismo, nella costruzione passo dopo passo di un sistema di unità organica tra popolo e capo che permettesse al capo di riassumere ed esprimere i bisogni del popolo, di rispondere a ciò che la gente voleva, al di là di ogni mediazione.

In fondo, possiamo parlare del fascismo come di una forma speciale di democrazia: una democrazia che eliminava le mediazioni faticose dei sistemi rappresentativi nel momento stesso in cui cancellava le barriere che impedivano al potere del Capo di operare. Era per eliminare il disfattismo che bisognava sostituire la voce del regime alle discordanti voci della libera stampa e trasformare le istituzioni di una monarchia parlamentare in canali di unione organicistica tra il Capo e il suo popolo.

E quando, con i Patti Lateranensi, anche la Chiesa dette il suo fondamentale contributo al pieno dispiegarsi di una saldatura completa tra il paese e «l’uomo della Provvidenza» la lotta al disfattismo fu coronata da due provvedimenti emblematici: il giuramento di fedeltà dei professori e la riapertura del tesseramento perché tutti potessero entrare in un partito che non era più una parte ma il tutto. Fu allora che almeno un italiano parlò di un processo di corruzione che stava minacciando tutti: un processo che poteva e doveva essere contrastato. Leone Ginzburg sostenne che non si dovevano condannare gli italiani che per ragioni di necessità avevano chiesto quella tessera, ma bisognava incoraggiarli a non fare altri passi sul terreno della corruzione.

Oggi il discorso sulla corruzione degli italiani è di tipo diverso ma non meno grave. La saldatura tra popolo e leader si nutre del progressivo svuotamento dell’etica civile, fatto di leggi e di decreti di breve e brevissimo respiro, di una continua aggressione alle istituzioni rappresentative, alla divisione dei poteri dello Stato, alle istituzioni giudiziarie e alla legalità. Alla violenza fascista si è sostituita la persuasione di un abile management delle emozioni collettive e una sostituzione dell’evasione e del sogno alla durezza dell’irrreggimentazione.

Ma l’esito è identico: si chiama corruzione e affonda le radici in un vuoto di memoria e di cultura civile. Se il consenso massiccio della popolazione al regime di Mussolini è una verità storica acquisita, questa verità non ha operato nel senso giusto, non ha spinto le istituzioni della Repubblica e la coscienza degli italiani a fare i conti con la nostra storia con la radicalità e la durezza con cui i tedeschi hanno fatto i conti col nazismo. Solo tenendo conto di questo si può risolvere l’enigma di un consenso collettivo appena incrinato da episodi che altrove avrebbero costretto ogni statista decente a dimettersi. Un paese che dimentica la propria storia è condannato a ripeterla.


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