Se un classico ci spiega cosa è davvero il capitale
di Antonio Gnoli (la Repubblica, 11.03.2012)
Improvvisamente ci sentiamo tutti più dubbiosi e incerti circa le sorti del capitalismo. Sarà alla fine? Come recitano alcuni critici. Oppure, quel suo permanente ricorso alla crisi lo rende sì instabile, ma anche insostituibile per la sua capacità innovativa? Nel corso dei secoli abbiamo assistito a diverse mutazioni. Ma oggi guardiamo con un certo sconcerto al passaggio da un’economia dei beni materiali a una sostanzialmente fondata sull’immateriale. E non si sta parlando di Internet, ma di qualcosa che coinvolge le nostre tasche.
Eppure, dopo tante brillanti analisi del vecchio Marx, toccò a un curioso personaggio di origini viennesi, che era stato ministro all’epoca di Weimar, mettere in guardia dall’evoluzione del capitalismo. Rudolf Hilferding avvertì che c’era qualcosa di intrinsecamente insano nell’economia. Nelle sue pratiche tutt’altro che virtuose. Vi scrisse sopra un indimenticabile e pallosissimo libro (Il capitale finanziario, appena riedito da Mimesis) che si concludeva con le seguenti parole: «Il capitale finanziario nella sua forma più compiuta implica il completo dominio dell’oligarchia capitalistica sul potere politico ed economico. Esso è la più compiuta realizzazione della dittatura dei magnati del capitale».
Dittatura è una parola gravida di conseguenze Non ci vuole la sfera di cristallo per leggere che ciò che stava nascendo poco più di un secolo fa, e che Hilferding intuì con raro acume, si è oggi pienamente dispiegato. La questione, tuttavia, non è solo fin dove siamo giunti, ma quanto possiamo ancora spingerci oltre, sapendo che i mercati, come ha osservato un’analista sconsolato, sono sempre più veloci della democrazia.