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FILOSOFIA E POESIA. Goethe e la continuità tra il pensiero greco e il cristianesimo nelle riflessioni sulla vita, sul senso del tempo umano ...

RICORDATI DI VIVERE: E IN UN ATTIMO ("AUGENBLICK") SARAI FELICE. Il filo d’oro dell’eternità nella catena del tempo. Un lavoro di Pierre Hadot, presentato da Rosita Copioli - a cura di Federico La Sala

Hadot vive le espe­rienze di cui parlano gli stoici, Epitteto, Seneca, Marco Aure­lio, gli epicurei, Lucrezio, i cristiani, Spinoza, Goethe.
domenica 7 giugno 2009 di Federico La Sala
[...] L’attimo non è solo il kairòs
del momento felice, quando il destino sorride in una strizzatina d’occhio (Augen­blick).
Il battere d’occhio è l’istante da fissare per sem­pre: «Guarda l’attimo (Au­gen-blick) negli occhi (Au­gen)», comanda l’Elegia di Marienbad. Ogni attimo ha un valore infinito perché rappresenta l’eternità nella sua interezza. Occorre ac­cettare e amare la metamorfosi dell’essere per ritrovarsi uni­ti al divino che è nell’esistenza. Così la farfalla si (...)

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> RICORDATI DI VIVERE: E IN UN ATTIMO ("AUGENBLICK") SARAI FELICE. Il filo d’oro dell’eternità nella catena del tempo. --- Jacqueline Risset, la ribellione attraverso l’istante (di Emanuele Trevi)

domenica 28 settembre 2014

Jacqueline Risset, la ribellione attraverso l’istante

di Emanuele Trevi *

      • Les instants les éclairs (Gallimard), l’ultimo libro di Jacqueline Risset. Contro il moloch del Progetto e della Narrativa, l’italianista francese propone di valorizzare l’attimo: proprio come l’ultimo Roland Barthes

Nata a Besa­nçon, come Vic­tor Hugo e i fra­telli Lumière, nel 1936, Jac­que­line Ris­set se n’è andata all’improvviso lo scorso 3 set­tem­bre. Negli ultimi mesi, l’immane lavoro di revi­sione della sua tra­du­zione in fran­cese delle rime di Dante l’aveva non poco logo­rata. «Que­sto lavoro finirà per ucci­dermi», rac­con­tava spesso agli amici. Modi di dire che ogni tanto, con la pre­ci­sione di un’imperscrutabile rou­lette meta­fi­sica, si rive­lano veri alla let­tera. Ci sono in effetti lavori e dedi­zioni che diven­tano forme di vita e infine malat­tie mor­tali. Breve o lungo che sia, lo stop­pino che ci è toc­cato in sorte arde e si con­suma più in fretta al fuoco di un’impresa dif­fi­cile, dall’esito incerto.

D’altra parte: se non si vive così, che si vive a fare? Ormai vicina agli ottant’anni, e ancora avvolta nel suo fascino irre­si­sti­bile, Jac­que­line non ha mai com­messo l’errore fatale di chi si illude che invec­chiare signi­fica avere impa­rato qual­cosa. Per­ché in realtà solo i medio­cri capi­ta­liz­zano, ricor­rono al «mestiere». Un carat­tere auten­tico di arti­sta per­ce­pi­sce fino all’ultimo ogni opera come un nuovo esor­dio, un nuovo azzardo. A que­sto pro­po­sito ricordo di una volta che, durante una delle lun­ghe tele­fo­nate mat­tu­tine che Jac­que­line raga­lava agli amici, abbiamo par­lato a lungo di una serie di pastelli ai quali Dubuf­fet aveva lavo­rato negli ultimi giorni di vita, come un bam­bino che sco­prisse il fascino di certi colori, del verde, del giallo squillante.

Que­sta incli­na­zione fon­da­men­tale all’esperimento è anche una chiave, a mio parere, per spie­gare la fedeltà di Jac­que­line a certi ideali gio­va­nili che molti com­pa­gni di strada, in maniera più o meno espli­cita, si sono dedi­cati a rin­ne­gare col pas­sare del tempo. Mi rife­ri­sco, ovvia­mente, alla lunga espe­rienza di redat­trice di una rivi­sta come «Tel Quel», che in Fran­cia è diven­tata un perio­dico ber­sa­glio di vitu­peri come da noi il Gruppo 63.

Per Jac­que­line, era un po’ tri­ste vedere tanti pro­ta­go­ni­sti della grande festa mobile dello spe­ri­men­ta­li­smo pie­garsi, arri­vati i capelli bian­chi, a più miti con­si­gli, dedi­can­dosi a imba­stire tra­di­zio­na­lis­simi romanzi. Tutto som­mato, in quell’arte gli scrit­tori più com­mer­ciali erano più bravi, più avvin­centi. Quanto a lei, amava gli impe­ni­tenti, i sovrani spre­gia­tori dei dibat­titi e dei periodi sto­rici. La car­riera di Henri Michaux la riem­piva di ammi­ra­zione più di cento Premi Goun­court di cui l’anno dopo non si ricorda più nem­meno il titolo.

Que­ste rifles­sioni mi con­du­cono quasi natu­ra­le­mente a par­lare dell’altra opera ter­mi­nale che Jac­que­line ci ha lasciato assieme alla tra­du­zione delle rime di Dante, un libro inti­to­lato Les instants les éclairs uscito qual­che mese fa da Gal­li­mard nella col­lana «L’Infini» diretta da Phi­lippe Sol­lers (pp. 177, euro 16,90). È duro con­sta­tare come un’opera si tra­sformi in un testa­mento così come, per riflesso, una recen­sione si tra­sforma in necro­lo­gio.

Eppure, anche se nulla fa pre­sa­gire la fine del work in pro­gress, que­sto libro è una vera «summa», come si diceva un tempo, del tema che più inte­res­sava la scrit­trice lungo tutta la sua ultima sta­gione: l’istante nella sua dimen­sione psi­co­lo­gica e crea­tiva, e i suoi legami con l’infanzia e il sogno. È un’indagine che dai versi delle ultime rac­colte (auto-tradotti e pub­bli­cati da Einaudi nel 2011 con il titolo Il tempo dell’istante) si tra­sfe­ri­sce nella prosa nitida e tagliente dell’ultimo libro: una col­le­zione di mine­rali psi­chici e medi­ta­zioni che a let­tura ulti­mata si rivela un memo­ra­bile esem­pio non tanto e non solo di let­te­ra­tura, ma di «cura di sé» intesa, nel senso che Fou­cault dà alla cele­bre espres­sione, come atti­vità per­pe­tua­mente orien­tata alla scrit­tura e alla pro­du­zione di forme.

Ho detto prima che quello dell’istante, o della mol­te­pli­cità degli istanti che tra­fig­gono il con­ti­nuum dell’esistere, è un «tema», ma mi accorgo che que­sta parola è troppo par­ziale e appros­si­ma­tiva. Jac­que­line ci parla di un’inclinazione fon­da­men­tale e innata del suo carat­tere, e dun­que di una forma di vita che si svi­luppa al di fuori della volontà, così come il corpo, col pas­sare del tempo, assume certe forme e non altre. Si capi­sce bene come il ricorso ai ricordi dell’infanzia sia così impor­tante e così ben allac­ciato alla mate­ria oni­rica. La costel­la­zione si com­pleta e assume la pie­nezza del suo signi­fi­cato con l’esperienza amo­rosa, il coup de fou­dre che irrompe e deva­sta il tes­suto del tempo.

Tutto que­sto mate­riale di lavoro, se così vogliamo defi­nirlo, costringe la scrit­tura al di fuori di un pro­getto nar­ra­tivo. Costi­tui­sce, come viene detto con illu­mi­nante pre­ci­sione, «il con­tra­rio di un pro­getto». Sarà la pigri­zia? si chiede spesso Jac­que­line. La verità è che si è nati in un certo modo, e come don Abbon­dio non si poteva dare il corag­gio che non aveva, non si può con­ce­pire un «pro­getto» sem­pli­ce­mente per­ché si vor­rebbe dare ordine alla pro­pria vita o scri­vere un romanzo di suc­cesso.

A Jac­que­line, la let­tura dei romanzi non dispiace affatto, ci man­che­rebbe, ma quella che ci rac­conta è un’altra sto­ria, tanto più pre­ziosa in un’epoca in cui un turpe pen­siero unico, che acco­muna l’editoria e le scuole di scrit­tura e il gior­na­li­smo, asse­gna allo sto­ry­tel­ling e alle sue doz­zi­nali feli­cità il ruolo spro­po­si­tato di un cri­te­rio este­tico uni­ver­sale capace di mar­gi­na­liz­zare ogni altra forma d’espressione. E invece Jac­que­line, con que­sto suo ultimo libro, ci ha lasciato un’inestimabile lezione di libertà, che con­si­ste nel fare perno sul pro­prio limite per con­durre la scrit­tura nell’alveo di un’assoluta spon­ta­neità, priva di inu­tili con­ces­sioni allo spi­rito del tempo.

Come ogni libertà, anche que­sta che ci viene mostrata in Les instants les éclairs è frutto di una ribel­lione: al pre­do­mi­nio della durata, e a tutte le forme di nar­ra­zione di sé e del mondo che la durata inca­tena nell’economia della causa e dell’effetto, del prima o del dopo, del vero­si­mile. Mi col­pi­sce molto, arri­vati a que­sto punto, la con­so­nanza con il pen­siero di un altro grande ribelle del Nove­cento, arri­vato anche lui, nell’ultima fase del suo pen­siero, a un vero culto dell’istante e delle tec­ni­che di anno­ta­zione di que­sta impal­pa­bile, fug­gi­tiva ric­chezza.

Penso al Roland Bar­thes della Camera chiara e soprat­tutto di quello stu­pendo ultimo corso tenuto fra il 1978 e il 1980 al Col­lège de France e inti­to­lato La pre­pa­ra­zione del romanzo. Anche in que­sto caso, si tratta di un testa­mento, ma invo­lon­ta­rio: Bar­thes morì pochi giorni dopo aver tenuto l’ultima lezione a causa di un inci­dente stra­dale. Ma c’è una grande dif­fe­renza di metodo da segna­lare: per­ché nelle lezioni di Bar­thes il modello supremo di «cat­tura» dell’istante è a sua volta un genere poe­tico alta­mente codi­fi­cato come l’haiku del periodo d’oro giap­po­nese, e tende al satori della pra­tica zen, quell’estasi di illu­mi­na­zione nella quale salta la distin­zione fra il sog­getto e l’oggetto.

Con­fron­tando le due opere, Les instants les éclairs ci appare più libera, per­ché l’autrice non si affida a un modello così vin­co­lante. A un tale grado di indi­pen­denza e fedeltà a se stessa, nem­meno la distin­zione dell’adorato Proust tra memo­ria volon­ta­ria e invo­lon­ta­ria le sem­bra più utile.

Lo scan­dalo dell’istante è tale sia che andiamo a cer­carlo, sia che rischiari all’improvviso la notte della durata. Più che di una teo­ria, si avrebbe biso­gno di una magia. Ma l’unica magia che abbiamo vera­mente a dispo­si­zione è essere se stessi, con tutto il peso della pro­pria tre­pi­dante, fer­vida «pigri­zia». Noi sogniamo, ci inna­mo­riamo, ripen­siamo a un det­ta­glio della nostra infan­zia, e una feli­cità anar­chica, priva di «pro­getto», ci invade come una marea, come la luce dell’alba. E il peso che ci por­ta­vamo sulle spalle, senza merito e senza volontà, si sro­tola ai nostri piedi, è diven­tato un tap­peto volante.

* IL MANIFESTO/Alias, Domenica, 28.9.2014


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