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ANTROPOLOGIA E TEOLOGIA. LA VERITA’, LE PASSIONI DELL’ANIMA, E LE INTERPRETAZIONI .... DELLA GENTE DALLA DOPPIA TESTA E DALLA LINGUA BIFORCUTA.

"IL MITO GRECO" E "1984" DI ORWELL: IL "CHI E’ PIU’ FORTE COMANDA" E "LA VOGLIA DI FASCISMO". Luciano Canfora e Tommaso Pincio evidenziano, contemporaneamente (senza volerlo), il "lato oscuro" della tradizione europea - a cura di Federico La Sala

lunedì 8 giugno 2009 di Federico La Sala
Luciano Canfora
[...] Lo dicono gli Atenie­si ai Meli, nel celebre «dialogo del carnefice con la vittima» nel quinto libro della Storia tu­cididea, onde togliere ai Meli ogni illusione: «noi riteniamo che, a quanto si sa tra gli dei, ma certamente tra gli uomini, in forza di una necessità (hypo physeos anankaias), chi è più forte comanda. Non siamo noi ad aver stabili­to questa norma, né siamo i primi ad attenerci ad essa; l’abbiamo trovata che c’era già e la la­sceremo in eredità a chi (...)

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> "IL MITO GRECO" E "1984" DI ORWELL: IL "CHI E’ PIU’ FORTE COMANDA" E "LA VOGLIA DI FASCISMO". --- 60 anni fa usciva il romanzo di George Orwell. Distopia che pare adattarsi a tutti i regimi. Forse anche all’Italia dei nostri giorni. (di Guido Vitiello)

domenica 14 giugno 2009

ANNIVERSARIO. 60 anni fa usciva il romanzo di George Orwell. Distopia che pare adattarsi a tutti i regimi. Forse anche all’Italia dei nostri giorni.

1984, il Grande Fratello non è più staliniano

di Guido Vitiello (il Riformista, 14.06.2009)

Ci sono scrittori divorati dalla loro stessa fortuna, che come un mostro marino li fa scomparire nelle sue fauci, li rimastica, li spolpa diligentemente, per poi risputarne al più qualche osso lustro, qualche maldigesto brandello. Ma a pensarci bene, per descrivere quel che capita a questi infelici, metafore altrettanto adatte possiamo trovarle nel prosaico scenario di un giacimento petrolifero: accade cioè che dal ribollente sottosuolo della loro opera la trivella dei critici e dei recensori estragga un piccolo numero di preferiti motivi, e che ad essi riduca l’intero corpus dei loro scritti. Se poi seguiamo le tappe successive della raffinazione, ecco che osserviamo come da centinaia o migliaia di pagine si perviene a distillare un paio di aggettivi miserelli, adatti a spendersi in ogni occasione che la cronaca, la storia o i casi della vita faranno apparire opportuna: si dirà allora che la tal situazione è kafkiana, o pirandelliana, o boccaccesca, e non si serberà memoria di una sola riga scritta da Boccaccio, Pirandello, o Kafka.

Qualcosa di simile è accaduto a George Orwell, e al suo libro più fortunato, 1984, che fece il suo debutto sulla scena letteraria l’8 giugno di sessant’anni fa. Lo scrittore, polemista e combattente britannico, al secolo Eric Arthur Blair, morto quarantaseienne appena sette mesi dopo aver dato alla luce la sua terrificante distopia politica, sopravvive oggi nel linguaggio comune rannicchiato nello spazio breve di un solo aggettivo, "orwelliano" - che a ben vedere si sovrappone un poco a "kafkiano", ma senza i grilli metafisici del grande praghese: orwelliana è la propaganda occulta, la scaltra manipolazione dell’opinione pubblica, l’informazione che crea dal nulla immagini della realtà congeniali al potere; orwelliano è quel pervertimento del linguaggio che consente di dire o fare qualcosa sotto la maschera del suo opposto, di muovere guerra inneggiando alla pace, di razzolare da oppressori mentre si predica da liberatori; orwelliano è, infine, qualunque sistema di sorveglianza o di spionaggio centralizzato, qualunque diavoleria elettronica che assedi - più o meno a nostra insaputa - la cittadella della vita privata.

Nei sei decenni esatti che ci separano dalla prima apparizione di 1984, critici e lettori illustri si sono disputati a dadi le vesti di George Orwell: alcuni onestamente, altri in modo un poco immaginoso, altri ancora barando apertamente al gioco. E così, il torvo scenario di un mondo retto dall’onnipresente effigie del Grande Fratello è stato strattonato nell’una o nell’altra direzione, a seconda delle opinioni e delle convenienze. Per alcuni, l’ordine totalitario descritto nel romanzo era una maschera i cui tratti si adattavano altrettanto bene alla Germania di Hitler e alla Russia di Stalin, solo esaperate e trasposte nel futuro. C’è chi, come Anthony Burgess, vi ha letto una satira swiftiana della sinistra londinese del dopoguerra, o perfino del governo laburista di Clement Attlee. Più di recente Christopher Hitchens - che all’autore britannico ha dedicato un libro appassionato, Why Orwell Matters - ha trovato analogie tra l’impero del Big Brother e l’Iraq di Saddam Hussein o la Corea del Nord di Kim Jong-Il - quasi echeggiando Norman Podhoretz, che in un celebre saggio di vent’anni prima aveva tentato l’annessione postuma di Orwell alla causa neoconservatrice.

Lo spagnolo Fernando Arrabal, in una dura requisitoria in versi e in prosa contro la dittatura cubana, scritta proprio allo scoccare dell’anno fatale, aveva accusato Fidel Castro di aver materializzato i peggiori incubi di 1984. E ovviamente c’è chi - sono legione - con forzatura davvero marchiana si ostina a scorgere in 1984 la prefigurazione di un ipercapitalismo tecnologico e oppressivo, di un mondo schiavo dell’imbonimento televisivo, magari giocando sulla fortuna di un format che, battezzato a partire da Orwell, con il suo libro non ha nulla a che vedere (e poi, diciamolo fuori dai denti: sul premier in carica, fatto salvo tutto il male che se ne può pensare, 1984 non ha nulla da dirci).

L’appellativo che si associa più di frequente al nome dell’autore di 1984, ad ogni modo, è quello di "profeta". Ed è un appellativo corretto, purché non lo s’intenda alla maniera moderna, come sinonimo di chiaroveggente o indovino, ma nel senso originario di colui che coglie con più chiarezza il presente e ne decifra i segni. George Orwell, spirito candido - nel senso voltairiano quanto in quello comune - nonché grande ammiratore della fiaba anderseniana del "re nudo", che sognava di trasporre nel mondo moderno, non parlava del futuro, ma del presente e del passato recente. Lui, che con La strada di Wigan Pier e Omaggio alla Catalogna aveva inaugurato il "non-fiction novel" con qualche lustro di anticipo su Truman Capote e Norman Mailer, nelle pagine di 1984 non ha fatto che descrivere quel che aveva davanti agli occhi, nelle cronache del suo tempo - un poco nascoste semmai, o sommerse da voci più squillanti, nondimeno accessibili a chiunque lo volesse. «Anche coloro che conoscono Orwell solo per sentito dire», scriveva nei primi anni cinquanta Czeslaw Milosz in uno dei saggi de La mente prigioniera, «si stupiscono che uno scrittore mai stato in Russia abbia potuto mettere insieme una tale quantità di osservazioni esatte». Impressione confermata dal polacco Gustaw Herling, l’autore di Un mondo a parte, una delle più alte testimonianze sul gulag: quando i suoi connazionali presero a leggere Orwell, racconta, non poterono fare a meno di chiedersi: «Ma questa è la mia vita. Come fa a conoscerla così bene? Come può un inglese sapere queste cose?».

Proprio come "La fattoria degli animali", di certo il libro più misurato e felice di Orwell, 1984 è prima di tutto un libro su Stalin e lo stalinismo, che sceglie il registro della fantascienza come l’altro sceglieva i travestimenti dell’apologo esopico. Non c’è nulla, o quasi, che Orwell non abbia pescato nelle cronache della Russia sovietica: l’asfissiante delirio burocratico, la creazione di un linguaggio disanimato fatto di sigle astruse; la riscrittura continua della storia in funzione delle necessità presenti, che porta fino alla cancellazione "in effigie" dei dissidenti (ricordiamo cosa fece Stalin con Karl Radek?); il controllo della vita privata basato sulla delazione generalizzata quanto e più che sui sistemi tecnologici di sorveglianza, la ripetizione martellante di slogan innocui costruiti per celare il loro esatto opposto; l’induzione coatta di sentimenti di reverente ammirazione verso la figura paterna del leader, rinfocolati dalla pratica dei «due minuti d’odio», in cui i sudditi si raccolgono a insultare l’oppositore Emmanuel Goldstein - trasparente alter ego di Lev Trotzkij - che compare su un grande schermo.

Il Grande Fratello è, prima di tutto, Iosif Stalin. E anche se è pretestuoso sostenere, come pure si è fatto, che questa elementare verità sul romanzo di Orwell sia stata occultata o rimossa per le sempiterne ragioni di fedeltà al partito, di egemonia, di accecamento ideologico, è pur vero che essa circola alla stregua di una lectio minore: la lettura di 1984 come prefigurazione dell’epoca televisiva gode senza dubbio di una risonanza più vasta.

Certo, l’attacco di Orwell allo stalinismo è pur sempre l’attacco di un uomo che si professò, fino all’ultimo, socialista. Un socialista sui generis, ferocemente antitotalitario, avversario dei marxisti dottrinari, dei pacifisti fanatici, degli anticolonialisti ideologici; un uomo ferito da quel che chiamava «l’orrore della politica», mosso dalla chimera populista e sentimentale di poter rinnegare le proprie origini privilegiate per immergersi nel popolo, confondersi con gli umili, sperimentare la condizione operaia con la stessa straunata generosità di Simone Weil.

La sua avversione al Grande Fratello staliniano discendeva da un’idea del socialismo ancora un po’ fluttuante in mare aperto, che non si era persuasa del tutto a rinnegare le sirene di una possibile rivoluzione "buona" (lo testimonia Il leone e l’unicorno), ma che pure sembrava navigare nella direzione della piena sconfessione dell’utopia. Fosse vissuto un po’ più a lungo, chissà, Orwell avrebbe capito che a fronte del "socialismo reale" non c’è il socialismo ideale, ma solo socialismi immaginari.


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