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PER LA CRITICA DEL CAPITALISMO E DELLA SUA TEOLOGIA "MAMMONICA" (Benedetto XVI, "Deus caritas est", 2006).

"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE. Un saggio di Federico La Sala

LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. MARX, IL "LAVORO - IN GENERALE", E IL "RAPPORTO SOCIALE DI PRODUZIONE - IN GENERALE".
giovedì 14 marzo 2024
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. Relazioni chiasmatiche e civiltà. Lettera da ‘Johannesburg’ a Primo Moroni (in memoriam)
(PER LEGGERE il saggio, aprire il pdf, vedi anche allegato, in fondo.
HEGEL E L’AUTOCOSCIENZA - DALLA RELAZIONE DIALETTICA AL DIALOGO: "L’autocoscienza attraversa nella sua formazione o movimento questi tre stadi: 1. quello del desiderio [Begierde], in quanto rivolto ad altre cose; 2. quello della relazione signoria-servitù, nella misura in cui l’autocoscienza si rivolge ad (...)

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>RELAZIONE E POTERE: UN NUOVO PARADIGMA. --- Il dono e il rifiuto del mercato (di Chris Carlsson)

venerdì 20 giugno 2014

Il dono e il rifiuto del mercato

di Chris Carlsson (Comune-info, 12 febbraio 2014) *

Il dono è un concetto con molti significati diversi e contraddittori. Esiste perfino una storia buia del dono, che arriva fino ad alcune forme dell’”economia della condivisione”, ovvero quello che il capitalismo, travestendosi, fa da sempre: trasformare relazioni basate su cooperazione e solidarietà sociale in prodotti da vendere. Tuttavia, l’economia del dono che molti auspicano e alcuni sperimentano, è ciò che libera dalle relazioni di mercato e dal dominio del denaro, per proporre sistemi che cercano prima di tutto di ricomporre le relazioni tra le persone.
-  Scrive Chris Carlsson: “Credo che la nostra speranza sia che quello spirito simile ai primi anni di vita nelle braccia delle nostre madri e dei nostri padri, dove tutto veniva offerto gratuitamente e con amore, possa essere la base di una trasformazione a livello sociale. Forse è possibile. Se ci riuniamo per discutere di queste idee ma dobbiamo sempre tornare a una vita dove la logica predominante è far soldi per pagare i conti, continueremo a pedalare a vuoto per un lungo tempo”

Il dono è apparentemente un concetto che si porta dietro un notevole peso specifico. Le persone lo usano in tutti i tipi di contesto e può contenere molti significati differenti, perfino riferirsi a cose completamente diverse. Per riflettere sulla nozione di economia del dono, è prima necessario avere un’idea abbastanza chiara su quello di cui si sta discutendo.

Alcuni prendono la nozione di dono e la collegano ai sentimenti che hanno provato quando ne hanno ricevuto uno, di solito una sorta di gratitudine e/o sorpresa. Non ci vuole molto perché questa percezione assuma una forma ulteriore e qualcuno inizi a rivivere momenti nei quali ha ricevuto qualcosa che inconsciamente dava per scontato e successivamente si è reso conto che avrebbe dovuto sentirsi grato per quella cosa. Per quelli con inclinazioni religiose, il concetto di dono diventa immediatamente un fulcro per ringraziare Dio per la vita stessa, o Gaia/Terra, oppure, se con una mentalità più secolare, per ringraziare le persone della propria vita per i doni del cibo, dell’acqua, persino dell’’aria.

Penso che circoscrivere l’dea di un’economia del dono nell’ambito di queste modalità fortemente soggettive, spesso fondamentalmente spirituali, renda quasi impossibile affrontare l’enorme sfida di porre la logica del dono contro la logica del capitalismo. Il capitalismo è un sistema sorprendentemente complesso e adattivo di organizzazione sociale basata su classe, proprietà privata e scambio strettamente correlati in un regime produttivo concepito per crescere infinitamente. Proporre il dono come un’alternativa conduce a problemi immediati, poiché tende a rafforzare il punto di partenza della proprietà privata che può essere data da qualcuno a qualcun altro. (Mentre scrivo, la Tv in sottofondo trasmette uno spot per lo shopping natalizio incentrato su un personaggio che hanno soprannominato The Gifter - La Donatrice, ndt -. una donna impegnata in compere febbrili per donare dozzine di regali durante le festività). Inoltre, la nozione di regalo tende anche a dirigere la nostra attenzione sui beni e servizi che vengono dati (o ricevuti), piuttosto che sulle relazioni sociali, entrambi prerequisiti e risultati logici di una cultura di libera condivisione.

La storia buia del dono

I doni esistono da quando esiste lo scambio tra diversi gruppi di persone, fin dalla storia non scritta. L’’opera di David Graeber sul debito (Debt: The First 5000 Years) mostra come il denaro stesso sia nato da un processo di contabilizzazione che cominciò misurando le equivalenze tra regali. I regali erano usati in molte culture anche come meccanismo per cementare relazioni specifiche tra figure di potere, di solito uomini, o famiglie potenti. La storia buia dei regali è che sono anche il punto di partenza della schiavitù! Uomini potenti davano in moglie le loro figlie come dono ad altre famiglie per ragioni politiche, senza rispetto dei desideri delle donne coinvolte. L’idea che le persone fossero oggetti che potevano essere spostati come altre proprietà nacque da questi comportamenti primordiali, e alla fine ha distrutto la vita di milioni di individui nel corso dei secoli.

Nel Nord America c’erano centinaia di culture tribali diverse prima che arrivassero gli europei. Nell’estremo nord-ovest, vicino all’attuale Seattle, le popolazioni locali avevano la tradizione del potlatch un festival annuale in cui i capi locali più potenti competevano tra loro per vedere chi avrebbe sprecato la maggiore ricchezza al festival, al punto di distruggere in modo stravagante pelli, animali, utensili e cibo in una frenesia di mostrare il proprio vantaggio (cercando di svettare in maniera capovolta rispetto ai nostri standard contemporanei). Un’altra cultura tribale che dominò le Grandi Pianure meridionali dall’inizio de 1700 alla metà del 1800, i Comanches, aveva una politica estera economica basata sui doni e sul commercia e saccheggia. Mandavano carovane per il commercio e gruppi di guerra alle colonie spagnole (più tardi messicane) in Texas e New Mexico, e all’arrivo chiedevano doni a profusione ai loro ospiti. Se le elite locali decidevano di non soddisfare adeguatamente le loro richieste, i guerrieri attaccavano e prendevano quello che volevano in qualsiasi modo. Per i Comanches il commercio iniziava ricevendo doni materiali considerevoli, e solo poi seguiva il vero scambio. Senza il dono, la relazione si trasformava in forza bruta e gli stessi beni venivano presi senza alcuna reciprocità.

Reintrodurre meccanismi sociali

Tutto ciò è per dire che la nostra idea di dono e di economia del dono è, si spera, del tutto differente da quella che i secoli della storia umana suggeriscono. O forse no? E comune tra i radicali dell’inizio del XXI secolo attaccare i mercati e il denaro come meccanismi di oppressione se non una forma di schiavismo. Ma per molte persone che vivono nelle città comprare e vendere nei negozi da commessi anonimi è una sorta di libertà dalle complicate relazioni sociali correlate all’acquisto di beni in un luogo dove tutti ci conoscono e dove conosciamo tutti. La sola affidabilità di cui siamo responsabili è se abbiamo o non abbiamo abbastanza denaro. Per noi non ha alcuna importanza chi abbia prodotto quello che stiamo comprando, dove o come, né quali conseguenze ecologiche possano derivare dalla produzione. Che ci piaccia o no, anche questa è una forma di libertà, libertà dal dover tenere in considerazione tutti quelle complicate esternalità (come il capitalismo ama etichettarle). Se stiamo rifiutando la grande libertà che il mercato concede all’individuo (almeno a quelli che hanno risorse sufficienti per comprare e vendere ciò di cui hanno bisogno e ciò che vogliono), forse vogliamo davvero sostituirla con un sistema che unisca più strettamente le persone in relazioni che sono precisamente specifiche. Forse stiamo proponendo un’economia del dono come una modalità per disfare l’anonimato della vita moderna e reintrodurre meccanismi sociali di affidabilità e responsabilità che sono stati distrutti dall’unico sistema di misurazione rimasto: i soldi. Forse desideriamo davvero l’idea di un’economia del dono per tornare a relazioni de visu dove dobbiamo prendere decisioni su cosa facciamo, perché, come e con chi? Ma questo può crescere fino a fare l’acciaio? A costruire ponti? A far muovere complessi sistemi sotterranei? A continuare a far uscire l’acqua fresca l’acqua c dai milioni di rubinetti? Come potrebbe funzionare?

Penso sia importante per chiunque proponga un’economia del dono come alternativa alla vita quotidiana di oggi essere chiaro su ciò che comporta. Penso che dovremmo proporre il dono come un mezzo per una decommodification dei beni che produciamo collettivamente e da cui dipendiamo per la nostra riproduzione. Il dono dovrebbe essere un modo di dimostrare la nostra intenzione di spostare sempre di più la vita materiale dal regno della proprietà privata a un nuovo tipo di diritti. Se questa è la nostra intenzione, allora abbiamo grandi problemi politici! La maggioranza delle persone sta dalla nostra parte? Come le convinciamo? Come spieghiamo alla gente che ancora non vede positivamente questa trasformazione che la loro vita sarà molto migliore durante e dopo la transizione? Possiamo cominciare a creare le pratiche sociali che ci permettono di riprodurre una vita complessa, per lo più urbana per milioni di persone, sulla base di produttori che si associano liberamente e che mettono a disposizione gratuitamente competenza e tempo e, nello stesso momento, altrettanto gratuitamente, ottengono l’accesso al cibo, alla casa, all’’energia, ai trasporti, alle comunicazioni, ecc. di cui hanno bisogno per vivere?

Libertà dalle relazioni di mercato?

Possiamo vedere piuttosto facilmente che non stiamo parlando di comportamenti personali, scelte e preferenze (sebbene ne facciano parte), bensì di proposte per nuovi sistemi di vita sociale. Ma cosa stiamo proponendo? Più libertà? Meno? Libertà dalle relazioni di mercato? Libertà dall’’anonimato e dalle conseguenti anomie sociali? Ma un sistema in cui dovessimo decidere ogni singolo componente delle nostre vite materiali non sarebbe un nuovo tipo di oppressione? Come potremmo organizzare una complessa società tecnologica, prevalentemente urbana in modo da poter tutti lavorare molto meno, amare il lavoro che facciamo perché lo scegliamo liberamente e lo controlliamo democraticamente, e assicurarci che non stiamo distruggendo l’’ecologia planetaria producendo “abbastanza” per tutti? In che modo decideremmo quanto sia abbastanza? Come apparirebbe e cosa vorrebbe la democrazia una volta avviato il meccanismo per gestire collettivamente la riproduzione materiale di una società urbana complessa?

L’idea di una cultura del dono è certamente un buon punto di inizio per pensare a queste cose, ma non se fermiamo il processo al ringraziamento perché respiriamo, mangiamo o per la luce del sole. Ringraziare è un bel gesto di solidarietà sociale, ma non è minimamente sufficiente. Spesso ho dovuto convenire sul fatto che “meglio è meglio di peggio” quando si fa riferimento a un intero complesso di scelte inadeguate, ma anche se è meglio acquistare cibo biologico sano, o sponsorizzare una piccola attività di amici o lavorarci invece che lavorare in un grande centro commerciale come Walmart, o andare in bicicletta anziché che in auto, non è abbastanza! Le scelte dei consumatori non sono molto importanti quando si parla di cambiare vita (naturalmente, fate le scelte “migliori” invece di quelle “peggiori” se potete). Detta in maniera semplice, non la nostra via verso una nuova vita non è acquistabile.

La condivisione? Si può vendere

Questo ci conduce faccia a faccia con la crescente presenza di uno dei più recenti slogan commerciali del capitalismo, l’”’economia condivisa”, di solito fondata su un altro concetto in voga, quello di “imprenditorialità sociale”. Questo spazio scivoloso del mondo degli affari pretende di essere qualcosa di nuovo, mentre in realtà è piuttosto familiare. E’ quello che il capitalismo ha fatto incessantemente dall’’inizio: convertire normali comportamenti umani basati sulla cooperazione, la condivisione e la solidarietà sociale in prodotti da vendere. Fin quando le persone prendono il loro tempo e le loro competenze e risorse fuori dal mercato e le rendono disponibili gratuitamente ad altri, aiutando le persone a usare il benessere condiviso per ridurre la loro dipendenza dal denaro e dall’’acquisto di beni nel mercato, le pretese di una “nuova economia” che sfida i paradigmi del capitalismo hanno ragione d’’essere. Ma laddove manchi questa deliberata rottura con i mercati, il denaro, il lavoro salariato e la proprietà privata, assistiamo in realtà all’’espansione delle relazioni sociali capitaliste in aree che non erano ancora colonizzate da quella logica.

La buona volontà è importante. Il desiderio di aiutare e sostenersi reciprocamente sono pietre fondanti della solidarietà sociale. Ma la confusione su ciò contro cui stiamo combattendo è probabilmente uno dei nostri maggiori problemi. Non saremo in grado di creare affari per spodestare il business! Una “economia del dono” degna di questo nome implica una trasformazione massiccia di dimensioni alle quali, francamente, la maggior parte di noi ha paura di pensare. Apprezzo i miei amici con cui ho soprattutto goduto una generosità e una reciprocità incommensurabili. Credo che la nostra speranza sia che quello spirito simile ai primi anni di vita nelle braccia delle nostre madri e dei nostri padri, dove tutto veniva offerto gratuitamente e con amore, possa essere la base di una trasformazione a livello sociale. Forse è possibile. Ma se così è, dovremo comprendere il dibattito politico le dinamiche istituzionali ultime che faciliteranno una tale trasformazione. Non accadrà solo perché lo desideriamo, o perché proviamo molto amore per coloro che ci circondano. Se ci riuniamo per discutere di queste idee ma dobbiamo sempre tornare a una vita dove la logica predominante è far soldi per pagare i conti, continueremo a pedalare a vuoto per un lungo tempo a venire.

* Chris Carlsson, scrittore e artista da sempre nei movimenti sociali statunitensi, è stato tra i promotori della prima storica Critical mass a San Francisco e autore, tra le altre cose, dell’ottimo «Nowutopia» (Shake edizioni) e, più recentemente, di «Critical mass. Noi siamo il traffico» (Memori). Invia periodicamente i suoi articoli, molti dei quali raccolti su nowtopians.com, a Comune-info: il saggio qui pubblicato è stato scritto in occasione del Giftval (neologismo che lega dono e festival), ospitato a Gezi Park, Istanbul (Turchia), lo scorso ottobre.

Traduzione: Elisabetta Mincato per Comune-info.


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