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PER LA CRITICA DEL CAPITALISMO E DELLA SUA TEOLOGIA "MAMMONICA" (Benedetto XVI, "Deus caritas est", 2006).

"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE. Un saggio di Federico La Sala

LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. MARX, IL "LAVORO - IN GENERALE", E IL "RAPPORTO SOCIALE DI PRODUZIONE - IN GENERALE".
giovedì 14 marzo 2024
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. Relazioni chiasmatiche e civiltà. Lettera da ‘Johannesburg’ a Primo Moroni (in memoriam)
(PER LEGGERE il saggio, aprire il pdf, vedi anche allegato, in fondo.
HEGEL E L’AUTOCOSCIENZA - DALLA RELAZIONE DIALETTICA AL DIALOGO: "L’autocoscienza attraversa nella sua formazione o movimento questi tre stadi: 1. quello del desiderio [Begierde], in quanto rivolto ad altre cose; 2. quello della relazione signoria-servitù, nella misura in cui l’autocoscienza si rivolge ad (...)

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> "CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ... CON MARX, OLTRE. --- VOLEVAMO LA LUNA, Il Sessantotto, un futuro possibile, e la Luna - mezzo secolo dopo (di Andrea Cortellessa).

domenica 21 luglio 2019

Volevamo la Luna

-  di Andrea Cortellessa (Alfabeta-2, 21 luglio 2019)

      • CONTINUAZIONE E FINE

Nel 1978 un fotografo dalla matrice concettuale che la sua attuale voga quasi pop oblitera pour cause, Luigi Ghirri, spiegò come l’origine appunto concettuale del suo lavoro andasse cercata proprio in quelle foto della Terra vista dalla Luna. Era quella «la prima fotografia del Mondo», comprensiva di tutte le sue «immagini precedenti, incomplete [...]: graffiti, arabeschi, dipinti, scritture, fotografie, libri, film»: da questo senso di inclusione, e diciamo pure di reclusione, del mondo dentro la sua immagine deriva il tema strutturale della cornice, che dominerà sempre l’immaginario di Ghirri. Come ha sottolineato Franco Farinelli risponde a un caso, ma è un caso eloquente, che il primo collegamento in rete fra i computer di quattro università americane - prima che sul progetto ARPANET mettano le mani i militari - venga realizzato proprio negli stessi giorni dell’Allunaggio: così ponendo le premesse dell’attuale «Mondo dentro il Capitale», come l’ha chiamato Peter Sloterdijk.

Al contrario di Heidegger e di tanti scrittori “apocalittici” di quel tempo, Maurice Blanchot ed Emmanuel Lévinas videro nell’avventura astronautica una possibilità straordinaria. Il primo definì «disastro», ma in positivo (dis-astro), l’«irrevocabilità, per l’uomo, di un’erranza indefinita». Anziché radicarsi nei «luoghi» celebrati da Heidegger, la «verità» per Blanchot non può che essere «nomade». Cioè, puntualizza l’ebreo Lévinas, sottratta a una «maternità della terra» la quale «determina tutta la civilizzazione occidentale di proprietà, di sfruttamento, di tirannia politica e di guerra».

Il paradosso (che non sfugge peraltro a Lévinas) è che questa trascendentale lezione di libertà e di pace si renda possibile appunto in seguito a un’operazione tecnologica dagli evidenti risvolti militari, quella appunto del complesso militar-industriale statunitense, mirata alla proprietà e allo sfruttamento. Ma certo la fase ascensionale dell’umanità - in quest’intreccio mai lineare di fini e di moventi - era stata contrassegnata dalla tensione a un luogo «fuori», a un’«oltranza» che, una volta conseguita e realizzata, pare aver perso definitivamente il suo millenario appeal. Già nel 1928, peraltro (quando il suo connazionale Wernher Von Braun si cominciava a baloccare coi primi razzetti), Walter Benjamin lamentava la perdita, da parte dell’uomo moderno, della «dedizione a un’esperienza cosmica».
-  Nel 1977 proprio la notizia della morte del pioniere della missilistica, fa tornare ancora una volta Italo Calvino sul tema, con un articolo dal titolo di nuovo leopardiano, Il tramonto della luna. Calvino si accorge di come, appena otto anni dopo l’Allunaggio, i toni siano improntati ormai alla «rievocazione di un’epoca già lontana»: «Von Braun muore in un momento in cui la conquista dello spazio, cui egli dedicò tutta la sua vita, appare come qualcosa di incongruo, un diversivo costoso e fuori luogo, confrontato alle preoccupazioni che tengono in ansia il mondo». La lotta per la supremazia spaziale, che per un ventennio ha visto contrapposti i colossi industriali e militari degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica, non dissimula più la profonda crisi, valoriale prima che economica, che attanaglia entrambi. Ma soprattutto, conclude Calvino con una clausola che pare diametralmente rovesciare l’enfasi sulla conoscenza che gli avevamo ascoltato appena dieci anni prima, «c’è qualcosa che non funziona, qualcosa che manca perché questa nuova potenza del sapere sia vero sapere, sia vera potenza».

A distanza di altri quarant’anni, l’idea oggi corrente - che la Luna non sia più la meta dell’Avventura per antonomasia bensì, al più, di uno sfruttamento turistico-commerciale - parrebbe il segno definitivo che per il nostro tempo «un altro mondo», davvero, non è più possibile.

È un fatto che dopo il dicembre del ’72 - quando Eugene Cernan della missione Apollo 17 calpesta per l’ultima volta il suolo lunare - questo sguardo dal di fuori non si sia più potuto realizzare (col crack petrolifero seguito alla Guerra del Kippur, giusto nel ’73, l’economia mondiale entra in una fase recessiva dalla quale - nonostante il prolungato anticiclo degli anni Ottanta e Novanta - non è mai davvero uscita).

In un tempo che è agli esatti antipodi culturali del nostro, il Sessantotto, proprio la conquista della Luna è vista al contrario come la madre di tutte le profezie, la letteralizzazione di tutte le metafore. Il 4 luglio 1969, nella chiesa sconsacrata di San Nicolò a Spoleto, va in scena il più iconico e decisivo spettacolo teatrale del secondo Novecento: l’Orlando Furioso nella riduzione di Edoardo Sanguineti, per la regia di Luca Ronconi. Lungamente annunciato, è il momento in cui cade di schianto non solo il diaframma fra tradizione e avanguardia, ma anche quello fra avanguardia e pubblico. Ogni separazione fra attori e spettatori è rimossa da Ronconi, il quale occupa con le sue strabilianti macchine e i suoi paladini duellanti l’intero spazio a disposizione, per poi debordare anche da quello e, irresistibile, dilagare nelle piazze italiane di un’estate indimenticabile. Memorabili le immagini riportate da un vecchio libro di Franco Quadri, Il rito perduto, con gli spettatori che, issatisi sulle assi-pedane lanciate da Ronconi sulle piazze d’Italia, soccorrono con amorevole urgenza i paladini “caduti” in duello: immagine vibrante dell’uscita, evidentemente non solo del teatro ma di un’intera società, da cardini che sembravano fissati da sempre, e per sempre.

La rivista della Neoavanguardia, «Quindici», celebra l’evento sul suo ultimo numero, uscito giusto nell’agosto ’69, con un lungo saggio di Cesare Milanese che definisce il viaggio del duca anglosassone Astolfo in sella al cavallo alato, alla ricerca del senno perduto del cavaliere Orlando, appunto «un gesto d’uscita». Anche se l’allunaggio di Armstrong e soci trova la sua più irriverente celebrazione nell’ultimo manifesto allegato alla stessa «Quindici», col logo della missione Apollo semicancellato dalle scritte furiose della protesta operaia: «tutti ci dicono che questa impresa è una grande conquista dell’umanità | ma chi è questa umanità?». La domanda, fatta pure la tara alla foga della retorica-slogan, non cessa di interrogarci: «dove è andato a finire il progresso? [...] il progresso, come sempre, è finito nelle tasche dei padroni».

Ma a prevalere, nella cultura d’avanguardia di quel mirabilis Sessantotto-Sessantanove, era viceversa un sentimento di fiducia, di seppur sospesa speranza. Opera-emblema di questo spirito d’avventura è per me quella di un artista che ha legato il suo nome piuttosto, appunto nel decennio successivo, a sentimenti tragici di dolente rilettura della traumatica storia del Novecento. Siamo ancora lontani da quelle atroci pantomime sul fascismo e la Shoah quando Luna, proprio, s’intitola l’allestimento presentato da Fabio Mauri al memorabile “Teatro delle mostre” genialmente organizzato da Plinio de Martiis, alla galleria romana della Tartaruga, nella primavera del 1968.

È in generale il vettore dell’Uscita, si è detto, quello proposto dagli artisti di quel tempo (inaugurando un ciclo si spostamenti e deterritorializzazioni che culminerà nel ’72-73 colla mostra Contemporanea, inabissata da Achille Bonito Oliva nel sotterraneo del parcheggio di Villa Borghese). Si pensi ai 12 cavalli vivi di Jannis Kounellis, all’Attico di Fabio Sargentini nel gennaio del ’69, colla wilderness, la nuda vita nella sua dimensione creaturalmente “selvatica” che fa irruzione nello spazio chiuso della Galleria d’arte. O, sempre al Teatro delle mostre di de Martiis, all’ultima performance del settembre del ’68, quella dedicata ai Muri della Sorbona da Nanni Balestrini: che prima detta al telefono perché vengano tracciate sulle pareti della galleria, e poi coll’ultimo aereo da Orly fa in tempo ad arrivare per tracciare di suo pugno, appunto le scritte viste coi propri occhi sui muri di Parigi.

Ma l’opera poeticamente più memorabile resta la Luna di Fabio Mauri: che anticipa di qualche mese la passeggiata di Neil Armstrong ricoprendo lo spazio espositivo, alla Tartaruga, di un mare di non meno ironiche palline di bianchissimo polistirolo. Un’Odissea nello spazio ridotta a Kindergarten: che anticipa curiosamente, peraltro, gli atteggiamenti infantili assunti dai moonwalkers che, tutti, scopriranno subito che per camminarci, sulla Luna, bisogna in effetti ballonzolare; che (come John Young dell’Apollo 16) fanno buffi saltelli quando devono mettersi sull’attenti davanti alla bandiera a Stelle e Strisce; o che addirittura (come Alan Shepard dell’Apollo 14) contrabbandano sulla Luna, a insaputa della NASA, una mazza da golf per sparare così, in assenza di gravità, il più lungo drive della storia.
-  Come ha scritto Stefano Catucci (nel suo bel libro Imparare dalla Luna, Quodlibet 2013), fu questo «il miglior modo per restituire all’impresa un valore di universalità che ridimensionasse il provincialismo delle bandiere e neutralizzasse i codici della narrazione militare». Gli astronauti americani non lo potevano sapere, insomma, ma sulla Luna si stavano comportando proprio come Ercole e Atlante nell’operetta di Leopardi: con i corpi celesti giocavano a palla.

Mi dicono gli psichiatri infantili che non è neurologicamente possibile (e va ascritta con ogni probabilità, dunque, alla casistica del “ricordo di copertura”) la mia convinzione, peraltro assai insistente, che mio primo ricordo cosciente sia appunto la diretta televisiva della notte fra il 20 e il 21 luglio 1969 (avevo appena compiuto un anno, un mese e un giorno). Viceversa sono certo che fu proprio il gioco da bambini allestito da Mauri quello con cui, appunto bambino, feci il mio primo e per me incancellabile incontro con l’arte contemporanea: qualche anno dopo, giusto alla vecchia GNAM dove la Luna di polistirolo di Fabio Mauri figurava in una qualche mostra collettiva, facevo anch’io il mio piccolo, grande balzo dell’umanità. Il Sessantotto, a me che in quell’anno ero nato, aveva davvero regalato un futuro possibile. Se quel futuro - come ci pare di vedere oggi, mezzo secolo dopo - risulta essere stato sprecato, ciò si deve solo a noi; solo a me.


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