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MILANO. L’INVISIBILE ALLA "MILANESIANA". Il testo che John Banville leggerà stasera ...

MILANESIANA 2009. John Banville non sa «Chi è?», che "L’Io, l’Io è il mistero profondo!" (Wittgenstein), se la prende con Foucault, e ritorna nella "selva oscura" (Dante), nell’invisibile - a cura di Federico La Sala

(...) all’improvviso mi sembrò l’unica risposta possibile. «Beh, vede», risposi, «non c’è nessun John Banville».
martedì 23 giugno 2009 di Federico La Sala
[...] Per Foucault, come per molti altri fanatici delle paludi accademiche di circa una generazione fa, la risposta alla domanda di Beckett non è tanto un chi bensì un cosa. Secondo Foucault, non si tratta dell’autore che parla o scrive ciò che scrive, ma è il linguaggio stesso, con tutti i suoi echi e riverberi, i suoi sibili e ululati provenienti dall’oscura foresta del passato. Noi non sappiamo cosa diciamo quando parliamo, perché in realtà non parliamo, bensì veniamo parlati, e quello (...)

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> MILANESIANA 2009. --- Anita Desai. La scrittrice indiana riflette sul metodo letterario a partire dagli antichi Veda.

martedì 30 giugno 2009

l’Unità, 30.06.2009

Anita Desai

La scrittura viene dal silenzio come la forma dalla pietra e la luce dal buio della notte

-  La scrittrice indiana riflette sul metodo letterario a partire dagli antichi Veda, ognuno dei quali era, assieme, incipit e frammento di un racconto generale.
-  Il narrare è come la musica e la solitudine dello scrittore è l’indispensabile nulla che precede l’emissione del suono

L’intervento pubblicato verrà letto da Anita Desai oggi alle ore 21 alla Milanesiana, il festival di letteratura, musica e cinema, ideato e diretto da Elisabetta Sgarbi e promosso dalla Provincia di Milano, con il Comune di Milano e la Regione Lombardia.

In La terra desolata, T.S.Eliot scriveva: Chi è il terzo che ci cammina sempre accanto? Quando conto, ci siamo soltanto tu e io insieme, Ma quando guardo avanti alla strada bianca C’è sempre un altro che ti cammina accanto Scivolando ravvolto in un mantello bruno, incappucciato Non so se uomo o donna Ma chi è che ti sta all’altro fianco?

E in una nota a piè pagina, Eliot aggiungeva che quei versi gli erano stati suggeriti dal resoconto di una spedizione in Antartide: «Vi si riferiva che il gruppo degli esploratori, allo stremo delle forze, aveva continuamente l’illusione che ci fosse una persona in più di quante non se ne potessero effettivamente contare». Per chi viene dall’India è una sensazione familiare. In India i bambini crescono in compagnia di antichi miti e leggende prima di saper leggere o scrivere, e perfino prima di essere consapevoli di conoscerli. Sono lì, nelle voci di genitori e nonni, sono la materia stessa delle feste che celebriamo, le immagini sono sparse ovunque, ubique come i corvi e le mosche. Oggi schizzano fuori dai fumetti e dai cartoni animati, e si riversano fuori dagli schermi televisivi. Tutti sappiamo che l’albero sul ciglio della strada che ci dà ombra nelle giornate calde è anche l’albero sotto il quale pregava il Buddha e in cui si nascondeva Krishna. La scimmia che si dondola dai rami non è soltanto un primate giocherellone ma anche il dio Hanuman. Il fiume melmoso che pigramente si dirige fuori dalla città non è soltanto la fogna urbana che sembra ma anche il fiume che dopo la nostra morte porterà le nostre ceneri al mare e nell’eternità. Così, per uno scrittore indiano, i personaggi che crea sono meri simboli di concetti più vasti che sono sempre esistiti. Un albero rappresenta tutti gli alberi, un fiume tutti i fiumi, un amante tutti gli amanti. Allo stesso modo gli eroi e le eroine del cinema non sono soltanto le formose tentatrici che vedete, o i baffuti criminali o la vedova in lacrime vestita di bianco; essi rappresentano ciò che già sappiamo dalla nostra mitologia. A loro non chiediamo di essere unici e originali, ma semplicemente di interpretare il proprio ruolo, e poi sparire per ricomparire altrove.

Nel pionieristico romanzo di Salman Rushdie, I figli della mezzanotte, il protagonista Saleem non si considera un individuo. Dice: «E ci sono tante storie da raccontare, troppe, un tale eccesso di linee eventi miracoli luoghi chiacchiere intrecciati, una così fitta mescolanza d’improbabile e di mondano! Sono stato un inghiottitore di vite; e per conoscermi, dovrete anche voi inghiottire tutto quanto». Il metodo narrativo usato è lo stesso usato millenni or sono quando i Veda vennero messi per iscritto per la prima volta, su strisce di foglie di palma, dopo secoli di recitazione orale. Su ogni striscia era iscritta una porzione del tutto. Se ne poteva scegliere una qualunque come incipit al resto. Un intero pubblico, o un singolo ascoltatore, poteva entrare e ascoltare un episodio, e poi andarsene e tornare per sentirne un altro. Il tempo era tutto sincronico, simultaneo.

Per un indiano il tempo è un ciclo, una ruota, che passa dalle tenebre alla luce e ritorna alle tenebre, dal silenzio al suono e di nuovo al silenzio. Per l’induismo, vedere le cose come separate, differenziate, è avidya, ignoranza, mentre la vera conoscenza, vidya, è conoscenza unitaria. Io ritrovo lo stesso credo nella festa messicana del Dia de los Muertos, quando ogni famiglia erige altari per i propri morti, e vi posa gli oggetti più cari ai defunti, una chitarra, per esempio, o una bottiglia di pulque, o una sella; in modo che i defunti, qualora tornassero, ne possano godere di nuovo. Nei cimiteri, le famiglie trascorrono la notte raggruppati intorno alle tombe, portando i cibi che un tempo piacevano ai loro morti, suonando e cantando le canzoni che essi amavano. E nel buio spesso della notte, pieno di guizzi e fumo di candele, i morti sono di nuovo presenti anche se invisibili.

Forse la musica esemplifica meglio questo credo. Non la musica in sé, ma il silenzio che la precede. Prima del suono c’è il silenzio, il vasto e incoato magma fuso - il nulla - ed è quel silenzio, quel nulla, che dà origine al suono. Per il credo indù, quel suono primigenio è la sacra sillaba Om. Ma una volta pronunciato, quel suono ritorna al silenzio. Così formando un cerchio, o un ciclo, la ruota che rappresenta anche la vita; la vita non è lineare, né sequenziale, bensì ciclica, circolare, finisce dov’era cominciata, e ricomincia là dove finisce. Dal silenzio nasce il suono. Dalla notte, il giorno. Dalla pietra, la forma. Ancor oggi un cantante classico in India lascia che il silenzio sia riempito dal ronzio indifferenziato del tanpura, e da tale ronzio lui o lei estrae la nota primaria del raga, dalla quale verranno le altre. Queste note - e sono suoni, non parole - nelle loro diverse combinazioni, sequenze e intonazioni andranno a comporre il raga.

Si ritiene che, pronunciate correttamente, abbiano poteri magici. E lo scrittore che maneggia le parole, il linguaggio, questo lo sa istintivamente. È dal buio, dall’invisibilità, che emerge ciò che si vede e ciò che si sente. Molti scrittori l’hanno testimoniato. Proust diceva che i libri veri non sono figli della luce del giorno e delle chiacchiere, bensì del buio e del silenzio. Rilke scrisse: «Questo solo è ciò che abbisogna: solitudine, grande intima solitudine. Penetrare in sé stessi e per ore non incontrare nessuno, questo si deve poter raggiungere». E Walter de la Mare: «Lo scrittore deve ritrarsi dalle pressioni e dai vezzi della convenzione, ancora e ancora. Deve costantemente ricatturare il silenzio». E il profeta americano Henry David Thoreau: «Amo avere ampi margini alla mia vita. (...) Come grano di notte crebbi in quelle stagioni. Esse non furono un tempo sottratto alla vita, ma molto sopra e al di là della consueta razione».

E Virginia Woolf così descrisse la scrittrice: «La immagino in un atteggiamento di contemplazione, come una donna che pesca, seduta sulla riva di un lago con la lenza protesa sull’acqua. Non stava pensando, né riflettendo, né costruendo un intreccio; lasciava che la sua immaginazione s’immergesse nelle profondità della coscienza mentre lei restava seduta lì aggrappandosi a un sottile ma indispensabile filo di ragione. Lasciava scorrere incontrollata l’immaginazione dietro ogni roccia, dentro ogni fessura del mondo che giace sommerso nelle profondità del nostro essere inconscio».

(traduzione di Anna Nadotti) Copyright: © 2009 by Anita Desai. Published by Arrangement with Roberto Santachiara Agenzia Letteraria

Dai romanzi ai racconti per bimbi la scrittrice e la sua India Anita Desai, nata nel 1937 da madre tedesca e padre bengalese, ha compiuto gli studi a Delhi. I suoi libri pubblicati includono tra gli altri «Fuoco sulla montagna» (2006), che si aggiudicò il Royal Society of Literature’s Winifred Holtby Memorial Prize e il National Academy of Letters Award. Ha scritto anche due libri per bambini, «The Peacock Garden» (1979) e «Il villaggio sul mare» (2002), che vinse il Guardian Award for Children’s Fiction e da cui è stato tratto un film. Il suo ultimo romanzo, «Digiunare, divorare», tradotto in Italia nel 2005, è stato selezionato per il Booker Prize.


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