Marx più Heidegger. Ecco il comunismo 2.0
È uscito il saggio di Gianni Vattimo e Santiago Zabala sull’idea d’una società alternativa. A differenza dal passato però la violenza rivoluzionaria è esplicitamente rifiutata
di Franca D’Agostini (La Stampa, 28.11.2014)
Comunismo ermeneutico, di Gianni Vattimo e Santiago Zabala, è un libro che è necessario leggere, per chiunque sia interessato alla filosofia, alla politica, e ai rapporti tra l’una e all’altra. Non perché sia ineccepibile (al contrario avrei da eccepire a diverse tesi presentate dai due autori) ma per un’altra ragione, più seria e profonda.
Dal punto di vista ideologico-politico viviamo in un’epoca di morti viventi: teorie già morte e finite, che però continuano a fare danno (si possono tralasciare gli esempi: chiunque potrebbe citare due o tre casi, da destra o da sinistra). Ma viviamo anche in un’epoca di sepolti vivi: teorie e ipotesi che sono state affrettatamente tumulate, prima che riuscissero a svilupparsi pienamente e a manifestare i loro meriti e le loro ragioni. E uno di questi sepolti vivi è precisamente, io credo, quella variante dell’ermeneutica che Vattimo pensò come «pensiero debole»: una posizione filosofica che è stata troppo rapidamente liquidata, quando aveva ancora qualcosa da dire, o anzi (mia opinione) non aveva ancora incominciato a dire il meglio di quel che doveva-poteva dire.
Uno degli aspetti centrali del debolismo ermeneutico era la sua ricaduta politica, e in particolare l’idea che l’ermeneutica (la filosofia dell’interpretazione elaborata da Hans Georg Gadamer, Paul Ricoeur, Luigi Pareyson) potesse configurarsi non tanto come «pensiero debole», ma come «pensiero dei deboli»: voce delle parti più sfortunate della società, e parola pronunciata in loro difesa. Questo aspetto legava il pensiero debole di Vattimo al Cristianesimo, creando l’idea paradossale ma plausibile di un Gesù «nichilista», pronto a mettere in discussione le (false) verità degli scribi, dei sacerdoti, dei farisei.
In Comunismo ermeneutico i due autori non sviluppano molto le basi filosofiche della loro prospettiva. E non c’è molto, nel libro, delle posizioni originarie di Vattimo. C’è invece una rapida liquidazione delle problematiche della verità, del realismo, della metafisica, semplicemente identificati come i tre costituenti della «politica delle descrizioni» che secondo gli autori starebbe alla base del capitalismo. E per tutto il libro con ostinazione si ripete che «l’imposizione della verità e la difesa del realismo» sono i grandi nemici della giustizia globale.
L’ermeneutica, in quanto pensiero interpretativo e non descrittivo, si contrapporrebbe a tali nemici, in una guerra che è la nostra attuale «emergenza», secondo gli autori. Si tratta allora di contrastare il ferreo ordine capitalistico mondiale con un pensiero che non aspira né alla verità né all’oggettività, e neppure alla forza rivoluzionaria, ma si concede libero al conflitto delle interpretazioni.
Non so se davvero il capitalismo in questa fase storica terminale debba davvero descriversi (interpretarsi) come «politica delle descrizioni». Non so se i nemici che i poveri del mondo devono combattere siano davvero la metafisica, il concetto di verità, o quella astrazione che gli autori chiamano «realismo», e che a me sembra una specie di caricatura del cosiddetto «realismo ingenuo». Dubito che sia così.
Inoltre, i due autori citano la politica di Chávez come «la grande novità della politica mondiale». Ma ci chiediamo: davvero il «nuovo» di Chávez, e di Morales, Correa, Mujica e dei Kirchner, e «persino Papa Bergoglio» ha come sfondo filosofico il rifiuto della verità e il contrasto tra descrizioni e interpretazioni? L’aggancio tra l’ermeneutica debolista e il decisionismo forte, veritativo e descrittivo, necessario per una politica concreta (specie di stampo comunista) sembra delineato nel libro in modo piuttosto vago.
Ma è ovvio che Vattimo e Zabala lavorano in un linguaggio speciale, che hanno ereditato da interpretazioni e reinterpretazioni di Rorty, Derrida, Heidegger, Nietzsche; e per capire la loro proposta occorre entrare in questo linguaggio, e condividerne le regole.
Per esempio, ciò che unisce Marx e Heidegger, dicono, è la critica della metafisica, ma «metafisica» non è la disciplina filosofica che ha questo nome, bensì un modo di vedere la realtà funzionale agli interessi dei potenti della Terra. Ciò che chiamano «descrizioni» non è il semplice descrivere cose più o meno reali o immaginate, ma la pretesa «oggettivistica» di catturare il mondo «dall’alto», con le parole i discorsi i concetti, e imprigionare in tale cattura anche le libere esistenze dei singoli umani.
E il comunismo a cui pensano Vattimo e Zabala non è ciò che canonicamente si può intendere per comunismo ma il principio della comunanza, quale si esprime nel vangelo di Matteo: «Dovunque due o tre sono radunati nel nome mio, quivi son io in mezzo a loro». E «nel nome mio», spiegano gli autori, significa «nel nome della giustizia, della fraternità, e della solidarietà».
Iniziamo dunque a vedere la ragione per cui occorre leggere Comunismo ermeneutico: per riprendere il discorso sul rapporto tra filosofia e «pensiero dei deboli», e se mai confermare che la filosofia (anche nella variante quasi «anti-filosofica» delineata da Vattimo e Zabala) in definitiva è sempre stata e dovrebbe continuare a essere, come diceva Jean-François Lyotard, la force des faibles.