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FILOSOFIA, ETICA E POLITICA. Quando il cammello va avanti senza il coraggio di bere e di mangiare ("sàpere aude!"), non diventa leone (e nemmeno bambino), e finisce per morire sotto il peso delle tavole della Verità ...

FOUCAULT, HADOT, PROSPERI, VATTIMO. L’ "addio alla verità" degli antichi e la coraggiosa proposta della carità ("charitas"), oggi. Materiali sul tema - a cura di Federico La Sala

lunedì 6 luglio 2009 di Federico La Sala
[...] Non è solo una questione di parole. La lotta contro l’errore, per la Chiesa, ha cessato presto di essere la parola carismatica dell’apostolo che corregge Simon Mago per diventare la funzione di un potere regolato dal diritto. Da correzione fraterna dell’errante si è trasformata in volontà di uniformazione del consenso e domanda di adesione acritica secondo la formula recitata dall’eretico pentito: «Credo quod credit Sancta Mater Ecclesia» (credo quello che crede la santa madre (...)

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> FOUCAULT, HADOT, PROSPERI, VATTIMO. ---- il Papa della Deus caritas est e della Caritas in veritate e la parabola del cattolicesimo-romano (di Bruno Forte - La parabola dell’umanesimo ateo).

mercoledì 19 agosto 2009


-  Una riflessione del teologo Bruno Forte

-  La parabola dell’umanesimo ateo

È possibile un’etica che non faccia riferimento a Dio? E allora come si spiega l’esigenza di fare il bene ed evitare il male?

-  DI BRUNO FORTE (Avvenire, 19.08.2009) *

Nel dibattito accesosi in que­sti giorni sulla stampa in­torno al concetto di nichili­smo e di umanesimo ateo, a partire dalla frase pronunciata da Benedet­to XVI nell’Angelus del 9 agosto ri­guardo ai «lager nazisti, simboli e­stremi del male, come il nichilismo contemporaneo», vorrei inserirmi concentrandomi su un’unica do­manda, quella che dal punto di vista delle conseguenze pratiche mi ap­pare la più decisiva: è possibile un’e­tica senza Trascendenza? Può esser­ci un codice morale normativo e condiviso senza il riferimento a Dio, all’«ultimo Dio»? Se sì, dove fondare l’esigenza assoluta di fare il bene e di evitare il male, dal momento che non esisterebbe alcun assoluto a cui ancorarla? O il bene si giustifica da sé e si impone con un’evidenza tale da non richiedere ulteriori motiva­zioni? E il male? È anch’esso così e­vidente da non supporre alcun im­perativo categorico, rispetto a cui porsi come controcanto, negazione ostinata e perfino beffarda del «co­siddetto bene»? Miriadi di voci in se­coli di storia hanno risposto a que­ste domande in una stessa direzio­ne: il bene c’è ed è assoluto; esso si i­dentifica anzi con l’Assoluto stesso, di cui è il volto attraente, lo splendo­re irradiante, l’esigenza amabile, il dono perfetto. Il male è la resistenza opposta a questo richiamo, l’appas­sionato permanere nella negazione, la lotta vissuta in nome di una causa falsa, quella della propria libertà e­retta come assoluto contro l’Assolu­to. Fra il male e il bene la scelta non sarebbe allora che una: con Dio o contro Dio; per l’Assoluto o per le onnivore fauci del nulla. Dall’ethos classico, alla morale delle Dieci Pa­role, legate al Grande Codice dell’al­leanza con il Dio biblico, dal discor­so della montagna alle esigenze di giustizia del diritto romano, è que­st’impianto di una morale fondata nella trascendenza che ha retto le sorti della vita personale e collettiva dell’Occidente.

È con l’emergere moderno del valo­re centrale della soggettività che cambiano anche i termini del pro­blema: dall’eteronomia - in cui si vorrebbe costringere tutto il com­plesso accennato di un’etica dalla fondazione oggettiva ed assoluta - si intende uscire per passare al mondo dell’autonomia, verso i pascoli di u­na vita morale emancipata, dove il coraggio di esistere autonomamen­te sia esteso dal conoscitivo «sapere aude!» - «osa sapere!» al decisioni­stico «libere age!» - «agisci secondo il codice di un’assoluta libertà!» L’autonomia appare come la sfida irrinunciabile su cui misurare qual­sivoglia imperativo morale, per veri­ficare se esso renda più o meno libe­ri, più o meno umani. Farsi norma a se stessi, essere soggetto e non og­getto del proprio destino, questo ap­pare il progetto da perseguire. L’eb­brezza di questo sogno contagia gli spiriti più diversi, in forme borghesi o rivoluzionarie, di progresso o di conservazione, di freddo calcolo o di passioni emotive. Ben presto, tutta­via, la coscienza dell’impossibilità di un’etica tutta soggettiva si impone alla riflessione dei moderni: che be­ne sarebbe il bene che fosse tale solo per me? E in nome di quale criterio valido per tutti sarebbe da evitare il male? Non è il con­fine fra la mia libertà e l’al­trui anche il limite di ogni autonomia? E perché se una scelta mi risultasse più van­taggiosa - in termini morali o economici o politici - do­vrei seguire un criterio di­verso dal semplice profitto e agire in maniera differente?

Se poi un comportamento scorretto è diffuso - giustificato dal «tutti lo fanno!» - in nome di quale valore morale dovrei evitarlo, se la scelta è lasciata all’arbitrio persona­le? È a partire dal crogiuolo di queste domande - quelle di una modernità ferita, insoddisfatta del passato e in­quieta di sé - che si profila come te­ma veramente urgente quello della fondazione dell’etica, in un’epoca in cui il passaggio dal fenomeno al fondamento appare tanto necessa­rio, quanto spesso evaso. Oltre il tra­monto delle pretese assolute di una certa modernità e l’incompiutezza del nichilismo della post-modernità debolista, ritorna in tutta la sua for­za il bisogno di un’etica della tra­scendenza, mancando la quale tutto è permesso. Quattro tesi potranno aiutare a coglierne il senso, che a mio avviso chiarisce e motiva nella maniera più adeguata le parole del Papa. Formulerei così la prima tesi:

non c’è etica senza trascendenza.

Non può esserci agire morale, lì do­ve non ci sia l’altro, riconosciuto in tutto lo spessore irriducibile della sua alterità. La fondazione dell’etica è inseparabile da questo riconosci­mento: chi afferma se stesso al pun­to da negare consapevolmente o di fatto ogni altro su cui misurarsi, nell’atto stesso di questa afferma­zione sazia, idolatrica, nega se stes­so come soggetto morale, nega anzi la possibilità stessa di una scelta eti- ca fra bene e male, perché annega o­gni differenza nell’oceano asfissian­te della propria identità. Nessun uo­mo è un’isola: e chi pensasse o vo­lesse essere tale, nell’atto stesso di pensarsi o volersi così annullerebbe se stesso come soggetto di relazione, e perciò di vita e di storia reale. La negazione dell’altro è negazione di sé; fare dell’altro lo «stra­niero morale» è farsi stra­nieri alla verità di se stes­si, è rinnegare la più profonda dignità del pro­prio essere personale e del proprio destino. Non c’è responsabilità e vita morale senza un movi­mento di esodo da sé per andare verso l’altro, so­prattutto se debole, indi­feso e senza voce o capa­cità di far valere i propri diritti. A questa prima tesi si congiunge direttamente la secon­da:

non c’è etica senza gratuità e re­sponsabilità.

Questa seconda tesi ri­corda come ogni movimento di tra­scendenza ha un carattere gratuito e potenzialmente infinito: uscire da sé in vista di un ritorno, calcolare con l’altro al fine di un proprio interesse è svuotare di ogni valore la scelta morale, facendone semplicemente un commercio o uno scambio tra pari. Qui la lezione di Kant conserva tutta la sua verità: l’imperativo mo­rale o è categorico, e dunque incon­dizionato, o non è. O il destinarsi ad altri è un atto gratuito e senza con­dizioni, da null’altro motivato che dall’esigenza e dall’indigenza del­l’altro - «exode de soi sans retour», direbbe Lévinas - , o non è auto-tra­scendenza, ma riflesso, proiezione di sé fuori di sé in vista dell’egoistico ritorno a sé. In questo carattere gra­tuito e potenzialmente infinito della trascendenza morale si coglie come l’anima più profonda di essa sia l’a­more, il dare senza calcolo e senza misura per la sola forza irradiante del dono. Il bene è ragione a se stes­so!

La terza tesi dilata la seconda alle forme dell’oggettività sociale e co­munitaria:

non c’è etica senza solida­rietà e giustizia.

È nello stesso movi­mento di auto-trascendenza che si scopre la rete degli altri che circonda l’io come sorgente di un insieme complesso di esigenze etiche: con­temperarle in modo che il dono compiuto all’uno non sia ferita o chiusura ad altri è coniugare la mo­rale con la giustizia. Regolare in for­ma collettiva questa rete di esigenze è misurarsi sul bisogno del diritto: non l’astratta oggettività della nor­ma, né il dispotismo del sovrano fonda l’autorità della legge, ma l’ur­genza di contemperare le relazioni etiche perché nessuna sia a vantag­gio esclusivo di alcuni e a scapito della dignità di altri. L’etica della so­lidarietà integra qui la sola etica del­la responsabilità, strappandola al ri­schio sempre incombente di un suo stemperarsi nell’assolutismo infe­condo della sola intenzione. Il bene comune è misura e norma dell’agire individuale, specialmente nel cam­po dei doveri civili. Infine, quando si riconosce che il movimento di tra­scendenza verso l’altro e la rete d’al­tri in cui siamo posti presentano un carattere di esigenza infinita, sull’o­rizzonte dell’etica si profila un’altra trascendenza, ultima e nascosta, di cui quella prossima e penultima è traccia e rinvio:

l’etica rimanda alla trascendenza libera e sovrana, ulti­ma e assoluta.

Nel volto d’altri è l’imperativo categorico dell’amore assoluto che mi raggiunge, e nell’as­solutezza dell’urgenza della solida­rietà con il più debole è un amore infinitamente indigente che mi chiama. Questa trascen­denza assoluta, questo as­soluto bisogno d’amore sono la soglia che salda l’e­tica filosofica all’etica teo­logica: qui l’etica della re­sponsabilità e l’etica della solidarietà appellano all’e­tica del dono, alla morale della Grazia. Qui l’amore - sovrana esigenza morale - rimanda all’Amore come eterno evento interperso­nale dell’unico Dio. Qui, nelle forme dell’essere l’u­no- per-l’altro, è il possibile impossi­bile amore, gratuitamente donato dall’alto, che viene a narrarsi nel tempo: la carità, che «non avrà mai fine» (1 Cor 13,8). Su di essa si misu­rerà la verità profonda delle nostre scelte: alla sera della vita saremo giudicati sull’amore! Si comprende così come il Papa della Deus caritas est e della Caritas in veritate sia la chiave interpretativa più autentica e illuminante della frase pronunciata all’Angelus del 9 agosto scorso. «Dalle Dieci Parole all’ethos classico e cristiano: l’impianto di una morale fondata nella trascendenza ha retto l’Occidente»

* IL DIBATTITO

Lager e nichilismo, le parole del Papa fanno discutere

Le parole pronunciate da Benedetto XVI all’Angelus del 9 agosto hanno suscitato un dibattito animato sulla stampa italiana. Emanuele Severino sul «Corriere della Sera» e Adriano Sofri su «Repubblica» hanno criticato l’espressione del Papa riguardo ai «lager nazisti, simboli estremi del male, come il nichilismo contemporaneo». A loro ha poi risposto Giovanni Reale su «Liberal»: «Non hanno capito il nichilismo. Non hanno compreso la terribile annunciazione fatta da Nietzsche, il filosofo per eccellenza del nichilismo: la morte di Dio, la trasmutazione di tutti i valori, la fedeltà alla terra come unico principio di realtà». Infine ancora su «Repubblica»,Vito Mancuso pur prendendo le distanze dall’espressione di Ratzinger su lager e nichilismo, ha condiviso la critica all’antropocentrismo moderno e l’impossibilità di un’etica senza trascendenza. Su questo tema pubblichiamo in questa pagina una riflessione di Bruno Forte, arcivescovo di Chieti Vasto.


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