LA CRITICA ERRANTE DI UN PENSIERO RIBELLE
Lo scandalo DELLA VERITÀ
di Alessandro Dal Lago (il manifesto, 23.10.2009)
Il corso di Michel Foucault raccolto nel volume edito da Feltrinelli «Il governo di sé e degli altri» articola il tema di una prassi teorica che si presenta come critica all’esistente e atto ribelle rispetto al potere. Un testo che, assieme a «Il coraggio della verità» in corso di pubblicazione, smentisce le interpretazioni che hanno presentato il filosofo francese come un teorico del neoliberismo
Il coraggio della verità è il titolo del corso tenuto da Michel Foucault al Collège de France dal febbraio al marzo del 1984. Pochi mesi dopo, nel mese di giugno, il filosofo sarebbe morto. La morte aleggia sulle ultime parole pubbliche pronunciate da Foucault e non solo perché all’inizio del corso egli ammette di essere seriamente malato o si moltiplicano i riferimenti agli ultimi giorni di Socrate. Piuttosto, le lezioni si concludono all’insegna della finitudine, come consapevolezza di un senso terreno e irripetibile da dare all’esistenza tra gli uomini. Continuazione esplicita di Il governo di sé e degli altri, uscito in Francia nel 2008 e in Italia da pochi giorni presso Feltrinelli, Il coraggio della verità (di cui l’editore milanese ha annunciato la pubblicazione in italiano) corona una meditazione sobria e analitica ma non di meno radicale su ciò che Hannah Arendt avrebbe definito l’esistenza politica.
Qui dobbiamo essere chiari. I due corsi, e soprattutto il secondo, mandano all’aria le interpretazioni edificanti e parrocchiali, essenzialmente revisioniste, che nell’ultimo decennio, in base alla pubblicazione dei corsi, si sono volute dare della ricerca foucaultiana. Laddove Foucault ricostruiva le peripezie dell’etica antica in chiave di progressiva spoliticizzazione (e quindi giustificazione di un governo pastorale o se vogliamo del dominio), alcuni interpreti contemporanei hanno voluto vedere una sorta di filosofia pratica dell’interiorità - come in quella parodia degli esercizi spirituali che va sotto il nome di consulenza filosofica. Uno storico e filosofo scettico e libertario è stato così ridotto a una sorta di pedagogista o maestro di saggezza, caricatura che Foucault avrebbe aborrito. Basterebbe la sobrietà con cui ha affrontato gli ultimi mesi di vita a mostrare come per Foucault la «cura di sé» fosse qualcosa di squisitamente privato di cui non fare commercio intellettuale e materiale.
Gli idoli del cinico
Nel Governo di sé e degli altri, Foucault indica, basandosi su Euripide, Platone, Plutarco ecc.come la parresia fosse in origine un concetto politico - la parola che l’uomo libero pronuncia al cospetto della polis contro la tirannia e l’ingiustizia. Dunque, qualcosa che ha senso in pubblico e presuppone un coro. Successivamente, in sintonia con il declino della polis, la parresia entra a far parte degli arcana imperi. Come si vede nei rapporti di Platone con i due Dionigi, il «parlar franco» diventa quello del filosofo al tiranno; in altri termini, si tratta di qualcosa al tempo stesso tecnico e segreto (da qui l’affinità con il tema platonico della supremazia della sapienza orale).
La fine della libertà greca è il contesto storico in cui la parresia perde qualsiasi sapore politico per divenire «franchezza» teoretica, «verità» personale e interpersonale. Si gettano qui le premesse per quel rimpatrio dei filosofi in se stessi alla base di gran parte dell’etica ellenistica e in particolare dello stoicismo. Ma, se si hanno in mente le altre ricerche di Foucault, è impossibile non pensare alla fondazione della soggettività teoretica. A partire dal Noli foras ire di Agostino si dipana una strada che passa da Cartesio e transita dalle parti di Husserl per finire nel ricettario edificante contemporaneo.
Le prime lezioni del corso del 1984 riprendono e rielaborano il Governo di sé e degli altri. Come se sentisse l’urgenza di fissare un materia delicatissima (in fondo si tratta di ripensare in chiave di conflitto etico-politico, e non più di mero disvelamento della razionalità, le origini del pensiero occidentale), Foucault ritorna sulle diverse declinazioni della parresia, si sofferma sulle interpretazioni della morte di Socrate, tira i fili che da quelle antiche discussioni portano direttamente ai dilemmi d’oggi, mostra come in ultimo la psuché sia il terreno cui è approdato il «parlar franco». È nell’interiorità dell’anima che il saggio vedrà in ultimo manifestarsi il logos. Simone Weil ha potuto parlare, a proposito della filosofia platonica, di intuizioni precristiane. Foucault ci mostra quanto classica sia l’idea (che si vuole moderna) dell’io come terreno privilegiato della verità.
Era possibile un’altra storia? Attraverso un’analisi originalissima della svolta cinica, Foucault sembra suggerire di sì - portandoci su un terreno che non è quello della mera nostalgia della polis e tanto meno del ripiegamento stoico. Il cinico non è qualcuno che esercita all’occasione la parresia o tanto meno la teorizza, ma è quello che la pratica sempre - qualcuno cioè che vive, si potrebbe dire, in uno stato di parresia.
Il cinico pertanto, smaschera con il suo esempio gli idoli privati e pubblici. Esemplare, a questo proposito, quel filosofo cinico trascinato in giudizio perché si rifiuta di accettare i misteri. Se i misteri sono cattivi, egli dice, il filosofo deve dire la verità su di loro. Se sono buoni, dovrà attirarvi più gente possibile; in ogni caso, deve conoscerli e quindi non possono darsi misteri. Con una battuta, i cinici smascherano la mitologia religiosa e la prosopopea del potere. In questo modo, corrono dei rischi, esattamente come Socrate, di cui portano alle estreme conseguenze il metodo, ma senza quell’aura di superiorità un po’ tortuosa che già aveva sollevato su Socrate le ironie di Aristofane.
I cinici, infatti, danno soprattutto l’esempio, incarnano la verità con il loro comportamento. In un capitolo straordinario sulla posterità dei cinici, Foucault mostra quanto il loro esempio sia affine allo spirito rivoluzionario moderno. Il cinico è, in ultima analisi,un filosofo pratico sovversivo e, in questo senso, si erge contro il conservatorismo platonico e aristotelico e il loro supremo senso dell’ordine.
Lo spirito antistituzionale
Povertà nella vita quotidiana, corpi coperti di stracci, mancanza di dimora, nomadismo... In questa filosofia praticata in basso Foucault vede giustamente i prodromi di un cristianesimo popolare e primitivo, ma anche delle eresie che germineranno ai margini dell’istituzionalizzazione del cristianesimo e contro di essa. Come non pensare, oltre ai valdesi citati da Foucault, alle sette gnostiche, ai catari e via via ai levellers o agli anabattisti? C’è nel cosiddetto cinismo, sembra dire Foucault, uno spirito anti-istituzionale e anti-aristocratico che, pur provenendo direttamente dall’esperienza filosofica classica, mira direttamente al cuore di un’altra modernità.
I cinici si rifanno a Socrate, ma lo liberano delle mitologie filospartane e autoritarie di un Senofonte, lo de-platonizzano e così facendo lo superano. Ecco il senso del motto di Diogene «cambiare il valore della moneta». Non un’apologia della falsificazione, ma - verrebbe voglia dire - una trasvalutazione dei valori democratica, popolare, rivoluzionaria.
Ascesi, verità come scandalo, militantismo: sono questi i tre aspetti che il cinismo consegna alla posterità. Non solo nella religione o nelle dottrine sociali. Si pensi - dice Foucault - alla pretesa degli artisti moderni di vivere una vita esclusiva, e cioè di vivere l’arte, di non accettare una separazione tra arte e vita. «C’è un anti-platonismo dell’arte moderna che (...) è stata una tendenza che si ritrova in Manet sino a Francis Bacon, da Baudelaire sino a Samuel Beckett o Burroughs; anti-platonismo: l’arte come irruzione dell’elementare, messa a nudo dell’esistenza» (Le courage de la verité).
La pedanteria dell’esempio
Certo, nel cinismo filosofico, dice Foucault c’è anche l’annuncio di un altro tipo di pedagogismo, che non si manifesterebbe attraverso il razionalismo socratico-platonico e poi storico, cristiano ecc., ma con la pedanteria dell’esempio. Il militante è pronto a trasformarsi - come l’esperienza storica ci mostra sino alla nausea - in funzionario, magari dell’umanità. Il sovversivo in moralista. L’eretico in tutore di un ordine che non può che invecchiare fatalmente.
Ma si tratta di una dialettica squisitamente moderna, che è alla base delle nostre illusioni e delle innumerevoli delusioni contemporanee. E tuttavia, la «ragion cinica» - per citare un vecchio libro del filosofo tedesco Peter Sloterdijk - continua a lavorare contro l’eternizzazione del presente. Perché, come nota giustamente Frédéric Gros nelle note conclusive a Le courage de la verité, il gesto dei cinici consiste nell’appello alla trasformazione del mondo e quindi alla possibilità di un mondo «altro». Con ciò, crediamo, il senso della ricerca di Foucault si emancipa dalla patina insopportabilmente perbenista e confessionale da cui è stato ricoperto da una ventina d’anni.
Viene voglia di dire che il significato profondo della parresia per noi non è affatto nel ripiegamento interiore che Foucault ha ricostruito sino alle soglie del cristianesimo, ma nell’indifferenza di Diogene di fronte ad Alessandro e al suo seguito; nel disprezzo delle convenienze teoriche e politiche; nell’appello alla verità contro la falsità mediale e istituzionale. In definitiva, in un’esistenza autenticamente ribelle. Dopotutto, poco prima di morire, Foucault ha notato che il vero significato della ribellione non è nella sua vittoria, che è sempre problematica, ma nel fatto che solo essa rende possibile la storia.