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ITALIA (1994-2016). TRE PRESIDENTI: OSCAR LUIGI SCALFARO (1992-1999), CARLO AZEGLIO CIAMPI (1999-2006), GIORGIO NAPOLITANO (2006-2014), E IL PARTITO DEL FALSO PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA DEL "POPOLO DELLA LIBERTÀ": "FORZA ITALIA"!!! UNA DIARCHIA, UN DUOPOLIO DI FATTO...

L’ITALIA (1994-2016), TRE PRESIDENTI DELLA REPUBBLICA SENZA "PAROLA", E I FURBASTRI CHE SANNO (COSA SIGNIFICA) GRIDARE "FORZA ITALIA". In memoria di Sandro Pertini e di Gioacchino da Fiore, alcuni appunti per i posteri - di Federico La Sala

CEDUTA LA "PAROLA" (1994) E CANCELLATA LA DIFFERENZA TRA LA VERITÀ ("ITALIA") E LA MENZOGNA ("FORZA ITALIA"), L’ ITALIA E’ GIUNTA AL CAPOLINEA ... CHE GRANDE "POPOLO DELLA LIBERTÀ"!!!
giovedì 21 gennaio 2016
COME L’ITALIA, UN PAESE E UN POPOLO LIBERO, ROVINO’ CON IL "GIOCO" DEL PARTITO CON IL PROPRIO NOME E CON LA "OVVIA" PRESENZA DI "DUE PRESIDENTI DELLA REPUBBLICA".
STORIA D’ITALIA (1994-2012). CON un Partito camuffato (e tuttavia autorizzato dalle Istituzioni, non una ma due volte!) da PARTITO DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA, IL CAVALIERE SFERRA L’ATTACCO AL QUIRINALE E ALLA COSTITUZIONE: "FORZA ITALIA"!, FORZA "POPOLO DELLA LIBERTÀ"! - "L’ITALIA SONO IO" E IL DIRITTO E’ "UN DIRITTO AD (...)

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> L’ITALIA (1994-2016), TRE PRESIDENTI DELLA REPUBBLICA SENZA "PAROLA", E I FURBASTRI -- Affari e grandi guerre. Eugenio Scalfari vota Berlusconi: “Populista sì, ma di sostanza”. È la scelta dell’establishment per il 2018.

giovedì 23 novembre 2017

Conversioni - Il fondatore di “Repubblica” va in tv e si rimangia 20 anni di “guerra al puzzone”: “Preferisco lui a Di Maio”. È la scelta dell’establishment per il 2018

Ora Scalfari vota Berlusconi: “Populista sì, ma di sostanza”

di Daniela Ranieri (Il Fatto, 23.11.2017)

Nelle ore in cui si scaldano le rotative che sforneranno la nuova Repubblica, interamente scritta col carattere tipografico sobriamente ribattezzato “Eugenio”, Eugenio Scalfari, fondatore di Repubblica e autorità morale, è a La7, ospite di Giovanni Floris.

Esordisce dicendo che se il Pd “sta esaurendo il suo ruolo”, nondimeno Renzi è il suo “nipotino” e non si sente “il nonno di nessun altro”. La frecciata è per quelli di Mdp (in particolare per Bersani che, macchiandosi d’ignominia, “fece la corte ai 5Stelle”), colpevoli di aver abbandonato il tontolone neoliberista al suo destino invece di farsi carico della sua prossima, ennesima sconfitta.

I diseredati per Scalfari prenderanno tra l’8 e il 10%, che “è niente” rispetto a quanto prenderà Renzi, peraltro alleandosi con tutte le frattaglie della Repubblica. “Io sono perché si rinnovi il Pd”, dice Scalfari ieraticamente: in questo senso gli pare “notevole il colloquio che Renzi ha avuto con Macron”, due “pilastri dell’europeismo” (Scalfari pensa che Renzi sia Bismarck, ogni tanto lo critica e lo indirizza ma come Machiavelli farebbe col Valentino). Il Fondatore sa bene che Renzi è europeista solo quando gli fa comodo, che in lui convivono lo statista kitsch della portaerei al largo di Ventotene e il bamboccione capriccioso delle bandiere europee tolte dal set di Palazzo Chigi per fare una delle sue gradassate; ciò nondimeno, del figaccio in Scervino apprezza il cinismo, e la tempra per fondare l’unica cosa che per Scalfari conta più della democrazia: l’oligarchia.

A questo punto viene fatto entrare Bruno Vespa, che come tutti sanno è venuto a promuovere il nuovo libro che ancora deve uscire ma è già in classifica (è come la Apple, ogni anno sforna un aggiornamento): si intitola Soli al comando. Da Stalin a Renzi, da Mussolini a Berlusconi, da Hitler a Grillo; titolo che farebbe sorridere se non venisse dallo stesso autore di Donne d’Italia. Da Cleopatra a Maria Elena Boschi (come se uno storico del cinema scrivesse Latin lover. Da Rodolfo Valentino a Er Mutanda).

La serata prosegue con geriatrica lentezza, rassicurante come un documentario di Geo & Geo: l’incontro con B. “quando lui non si occupava di politica ma di televisioni” (“era una delizia”), il giardino con le tombe, il materasso a cuore... Ma l’aneddotica sui mausolei e i bordelli di B. (che peraltro dopo la sfilata delle ragazze a Un giorno in pretura non può più emozionarci) è destinata a interrompersi. La bomba è grossa e Floris sa come innescarla: accertato il decesso del Pd, “tra B. e Di Maio, chi sceglierebbe?”. Scalfari incide su pietra: “Sono tutti populisti tranne il Pd, però il populismo di B. ha una sua sostanza”. Basti pensare alle dentiere e alle am-lire. Soprattutto, “B. è europeista, non sfegatato; mentre Salvini no” (riecco B. argine contro i populisti), ergo “in caso di estrema necessità può allearsi col Pd”, senza Salvini. Senza dimenticare che B. “è un attore-autore, sceglie il tema e lo interpreta, recita il suo testo”. E quindi? Qui Scalfari confessa: “Sceglierei B.”

Ma come? E i 20 anni di antiberlusconismo di Repubblica? E la distanza antropologica? E le 10 domande? E le Se non ora quando?

A noi disillusi, la confessione di Scalfari pare coerente. Logicamente: se non può vincere Renzi, che ha distrutto il Pd e in tre anni di governo ha attuato un programma neoliberista di destra, perché non votare B., che può allearsi con Renzi facendo argine contro gli odiati populisti?

Storicamente: fu lo stesso Scalfari, in occasione degli 80 anni di Berlusconi, a rivelare un retroscena “divertente” della “guerra di Segrate” tra il gruppo Espresso di De Benedetti e il magnate della Tv. Il quale, sconfitto, si rifiutò di pagare le spese legali (si sa come sono fatti questi ricchi quando c’è da pagare). Scalfari: “Dopo molti suoi rifiuti riuscii a persuaderlo promettendogli e dandogli la mia parola d’onore che se lui accettava di pagare le spese legali io l’avrei trattato d’ora in avanti come un socio cioè eventuali notizie che lo riguardassero sarebbero state anzitutto rese note a lui che ne dava la sua interpretazione dopodiché l’inchiesta sarebbe andata avanti”.

Non stupisce che oggi Scalfari difenda l’establishment, rassicurato solo da un’alleanza tra i due migliori, si fa per dire, lazzaroni su piazza. E tutto nel giorno del varo del nuovo font Eugenio! (che a questo punto poteva pure chiamarsi Silvio).


Affari e grandi guerre, il triangolo fra Silvio, il fondatore e l’editore

Dalla battaglia per la Mondadori con le sentenze comprate dal Cavaliere agli ultimi tentavi di fare impresa assieme

di Gianni Barbacetto (Il Fatto, 23.11.2017)

Il triangolo no, Berlusconi non l’aveva considerato. Eppure Eugenio Scalfari è riuscito a fare in tv l’elogio dell’ex Cavaliere. “Il populismo di Berlusconi ha una sua sostanza”, ha detto il Fondatore. E alla domanda di Giovanni Floris, “se dovesse scegliere tra Di Maio e Berlusconi, chi sceglierebbe?”, ha risposto senza esitazioni: “Berlusconi”. Il terzo del triangolo è l’Editore, Carlo De Benedetti, che completa un ménage à trois burrascoso ma intenso, che si dipana in quarant’anni di scontri e incontri e scontri. Grandi guerre e improvvise alleanze. In cui, più che il giornalismo, pesano gli affari.

All’inizio - era il 1979 - ci fu un incarico commerciale affidato a Scalfari dalla famiglia Mondadori: vendere a Berlusconi Rete 4, che stava trascinando nel baratro la casa editrice di Segrate. “Berlusconi ci invitò a cena ad Arcore”, raccontò poi il Fondatore, “e fu quello l’inizio non dico di un’amicizia ma di una conoscenza che col passare dei giorni e dei mesi diventò molto cordiale”.

L’agente commerciale Scalfari portò a compimento il suo mandato: “I contatti durarono a lungo, l’affare Rete 4 fu concluso. Ci vedevamo spesso finché lui cominciò ad occuparsi di politica. Per metà diventò socialista (craxiano ovviamente)... Per l’altra metà diventò democratico cristiano, vicino ad Andreotti e a Forlani”. E allora la quasi-amicizia si interruppe, perché Eugenio preferiva De Mita. Scalfari sparò contro Silvio - era il 1990 - articoli in cui lo paragonò a Mackie Messer, il bandito inventato da Bertolt Brecht. Anche De Benedetti, intanto, aveva incrociato Silvio sulla sua strada. Nel 1985 aveva cercato di portare a casa a buon prezzo la Sme, industria alimentare di Stato. Bettino Craxi chiese a Berlusconi di bloccare a ogni costo l’operazione. Silvio eseguì: gli preparò una cordata concorrente (Barilla, Ferrero, Fininvest) e l’affare sfumò. I due si ritrovarono a fare i duellanti nella “guerra di Segrate”. La Mondadori era diventata di De Benedetti e Repubblica si era integrata nel gruppo. Ma Silvio si era mangiato tutto, anche comprandosi giudici e sentenza. Poi però aveva accettato di spartire il bottino, lasciando Repubblica e L’Espresso a Scalfari e De Benedetti. Ci fu uno strascico: 50 milioni di lire di spese legali.

Non le voleva pagare nessuno, né Berlusconi, né De Benedetti, né Carlo Caracciolo, il principe editore del vecchio Espresso. “A quel punto dovetti intervenire io”, racconta Scalfari, che propose a Berlusconi un baratto. “Riuscii a persuaderlo promettendogli e dandogli la mia parola d’onore che se lui accettava di pagare le spese legali io l’avrei trattato d’ora in avanti come un socio cioè eventuali notizie che lo riguardassero sarebbero state anzitutto rese note a lui che ne dava la sua interpretazione dopodiché l’inchiesta sarebbe andata avanti come sempre accade in tutti i giornali... Il mio impegno durò fino a quando divenne presidente del Consiglio”. Allora sparò un’altra delle sue definizioni: non più Mackie Messer, ma “ragazzo coccodé”, prendendola a prestito da Renzo Arbore.

Nel bel mezzo del ventennio berlusconiano - e dunque anche antiberlusconiano - i duellanti della Sme e della “guerra di Segrate”, De Benedetti e Berlusconi, nemici accerrimi, anche antropologicamente inconciliabili, diventano improvvisamente soci. Nel 2005 De Benedetti fonda la società di investimenti M&C. Mission: salvare imprese in difficoltà. Si diffonde la notizia che vi entrerà, con una quota consistente, anche la Fininvest. La Borsa s’infiamma, il titolo s’impenna, la Consob s’insospettisce e De Benedetti, accusato di insider trading, paga una sanzione di 30 mila euro.

Ma la pubblica opinione, di cui i lettori di Repubblica sono parte, s’indigna: ma come, l’Editore, dopo guerre sanguinose per Sme e Mondadori, fa affari insieme al suo arcinemico? Alla fine Berlusconi si sfila: troppe polemiche, troppe insinuazioni (e forse pochi affari). I duellanti riprendono a duellare. Dopo che una sentenza definitiva stabilisce, nel 2007, che la Mondadori era andata a Berlusconi grazie a una sentenza comprata, De Benedetti avvia una causa civile, chiedendo che Fininvest risarcisca la sua Cir per avergli scippato la casa di Segrate. Porta a casa in primo grado, nel 2009, 745 milioni di euro come “danno patrimoniale da perdita di opportunità di un giudizio imparziale”: a scriverlo è il giudice Raimondo Mesiano, subito messo in ridicolo dalle tv di Berlusconi per via dei suoi imperdonabili calzini azzurri. Nel 2011 il risarcimento a De Benedetti è ridotto a 540 milioni, che diventano 560 con gli interessi. Nel 2013, nuovo ritocco: 494 milioni.

Quando il 29 settembre 2016 Silvio compie 80 anni, Eugenio unisce agli auguri un’autocritica: “Sbagliai, non era affatto il ragazzo coccodé e ce lo ritrovammo sul gobbo per vent’anni. E ancora non è finito”. E allora: “Oggi dovrei fargli gli auguri e infatti glieli faccio anche se non ci parliamo più dal 1994”. Del resto, “debbo dire che invecchiando è migliorato, l’età porta guai ma anche qualche prestigio”. Sarà la comune senescenza a farli tornare più vicini? Ora Eugenio recupera Silvio come populista “di sostanza” contro il populismo senza qualità dei 5stelle. Si chiude il cerchio. Anzi il triangolo.


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