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Calabria, lo scrittore Mauro Minervino attaccato dall’intellettuale Pasquino Crupi. Il caso pone il problema della difesa di chi, vivendoci, racconta la regione

Sotto accusa il libro "La Calabria brucia"
venerdì 14 agosto 2009 di Emiliano Morrone
Cari amici,
vi segnalo una vicenda che mi preoccupa non poco. Sul quotidiano "Calabria Ora" di ieri, è uscito un pezzo (in basso in formato jpg) a firma di Pasquino Crupi, definito "intellettuale in trincea" in una biografia reperibile al seguente link, http://www.cittadelsoledizioni.it/autore.php?id=141. Nel suo scritto, l’autore replica a una recensione di Caterina Provenzano del libro "La Calabria brucia", di Mauro Minervino, antropologo e letterato che vive e lavora in Calabria.
Crupi (...)

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> Calabria .. Il caso pone il problema della difesa di chi, vivendoci, racconta la regione -- A San Giovanni in Fiore, capitale della Sila cosentina (di Mauro Francesco Minervino)

venerdì 19 gennaio 2018

Mentre la Calabria brucia

di Mauro Francesco Minervino (Doppiozero, 0’8.01.2018)

      • continuazione e fine

Poi c’è la malavita e il malaffare che mettono radici e sentinelle dappertutto. Nella vita amministrativa, nel giro dei soldi, nell’economia di carta, a volte inspiegabile. A San Giovanni in Fiore, capitale della Sila cosentina, il più grosso dei 282 comuni montani e dell’Appennino italiano situato al di sopra dei mille metri di quota, popolazione di emigrati ed ex braccianti, blocco sociale superassistito e sussidiato sin dal dopoguerra, in un paesone che fa 2700 pensionati e 8000 disoccupati su 17.500 abitanti (in calo costante dal 2000, quando erano quasi 20.000), se girate per il centro potete contare con sorpresa che vi si trovano aperte solo dieci macellerie. Ma tra concessionarie di lusso e vetrine di autosaloni si arriva alla cifra di ben venticinque esercizi aperti. Attraversando queste plaghe di vita intermittente, di vita opaca e di desolazione appenninica post-urbana, si guadagnano anche icone di un’umanità più genuina. C’è ancora qualche buon forno per il pane e i dolci della tradizione, botteghe rinomate di artigiani orafi e una bellissima scuola per la tessitura di stoffe tappeti tradizionali famosa in tutto il mondo. Ho studenti e amici di San Giovanni. Ci sono le facce e la voce della buona gente che vive qui, sulla breccia di un presente incupito dalla desolazione e dalla noia, fatto emigrazione - un’emorragia inarrestabile di giovani - e una sopravvivenza da poveri, senza più ospedali né scuole, sussidiati ma in modo sempre più scarso. Persone che non resistono e vanno via, ce ne sono tante. La Calabria dei monti perde i pezzi, paesi interi spariscono. È l’antropogeografia dell’ultimo Appennino e dei suoi profughi interni, la Società sparente, come nel titolo del libro-inchiesta che un giovane giornalista di San Giovanni in Fiore, Emiliano Morrone, ha dedicato qualche anno orsono al racconto di una fuga generazionale da questi paesi della Calabria interna. Una nuova emigrazione. Un esodo finale sconsolato, doloroso, e nondimeno necessario.

A san Giovanni in Fiore, patria del millenarismo pauperista e della spiritualità utopistica del pensiero Gioachimita, c’è anche un bellissimo Museo Demologico intitolato all’etnografo Raffaele Corso.

Ci lavorai che ero studente. Oggi è ancora lì, all’interno di un’ala della magnifica abbazia Florense, ma è quasi deserto. Da queste parti ormai nessuno ha più le facce omiletiche delle popolane in costume e i sembianti frastornati e malnutriti dei contadini e dei braccianti silani immortalati negli scatti della collezione di Saverio Marra, un meraviglioso fotografo di San Giovanni in Fiore morto nel 1978, pioniere della fotografia sociale. Le foto e i ritratti di Marra, di cui resta un lascito di 2500 lastre, una cinquantina in esposizione permanente al museo, stanno alla storia della gente comune di questo altopiano e alla fotografia come Mike Disfarmer sta ai più famosi ritratti dei suoi miserabili paesani dell’Arkansas e agli sbandati fotografati ai tempi della Grande Depressione americana.

Se Marra ritornasse in vita a fare i suoi ritratti ai compaesani di San Giovanni in Fiore oggi ne fotograferebbe la mutazione antropologica impressa nei sembianti come una sorta di geroglifico postmoderno. In giro per il paesone di San Giovanni ci restano i condannati allo sperpero di sé, i disoccupati e i reduci dall’abbandono del paese spopolato: vecchi che chiacchierano con giovani cassiere di un supermercato per guadagnare un po’ di fresco e di tempo alla solitudine, bariste e commesse di negozi che ti guardano con insistenza dal bordo di una strada e forse sognano un amore di passaggio che le strappi dalla noia, certe facce interroganti di bambini incollate al lunotto delle auto dei forestieri, gli emigranti di ritorno con le targhe svizzere e belghe che girano per andare a trovare i parenti di ritorno al paese per le ferie d’agosto. Sono volti, incontri fortuiti, in spazi che non si coniugano né al passato, né al futuro. C’è solo un presente provvisorio, senza nostalgia né speranza. Il disordine edilizio e sproporzionato del paese nuovo che dilaga sui bordi scuri dei boschi di abeti silani, segna il confine malcerto di una sorta di istantaneo “time out” della storia e della vita di adesso.

Su queste strade di montagna della Sila Grande nel paesaggio si aprono spazi vuoti che sembrano spinti dai risucchi incostanti di una corrente d’aria. Vado avanti e frugo con gli occhi dentro lo scompiglio che mi si fa intorno. In alto le creste bruciate dei gruppi montuosi, rocce tutte diseguali. Sotto la macchia sgretolata dei paesi e delle case lambite dalla superstrada. La montagna che sale ripida come un ascensore alle spalle delle case vecchie e nuove resta una presenza imminente. Il frammento più nobile e potente rimasto in piedi di una natura dispotica, che qui limita lo spazio, restringe la vista e spinge verso paesaggio il bordo, mandando tutto a precipizio verso il mare. Una volta che intervistai Predrag Matvejevic, quando gli ricordai che io venivo a incontrarlo dalla Calabria, mi disse: “la Calabria è una terra strana, in realtà è quasi un’isola, una passerella alta e stretta tra due mari, la strada interrotta verso la Sicilia, l’ultimo bivio dell’Europa che prepara il salto verso il Mediterraneo profondo. È una terra di confine, uno di questi posti che viene sempre prima o appena dopo che ci si lascia tutto alle spalle. Ma il mare da voi è così vicino alle grandi montagne dell’Appennino, più che in tutto il resto d’Italia, e quasi ti viene incontro da tutti i lati. La montagna scura e il mare che vi specchia ed è vicino a tutto, così anche il paesaggio ha qualcosa di dilagante, inarginabile. Il Mediterraneo illumina anche le montagne, porta il sale delle onde fin dentro ai boschi, alla grandezza della Sila. Mi piace la Calabria, c’è più vita, e c’è più disordine in posti così. Per me conta molto, è importante il disordine. È una cosa salutare”.

Solo il reticolo asfittico di vecchie provinciali e strade comunali che si diramo come vecchi gomitoli di spago dalla vena pompante della 107 Silana-Crotonese, la superstrada che dalle due coste si inerpica veloce verso il centro della Sila e l’interno dell’altopiano, per ora sembra essersi salvato.

Ci sono punti del paesaggio in cui le cose sembrano ristagnare. Piccoli luoghi rimasti così com’era prima che tutto cambiasse accelerando, scollato dal disordine calabro-meridiano “dilagante e inarginabile” che piaceva tanto a Matvejevic. Da queste parti il salto dello spazio corrisponde ancora a un salto nel tempo. Un groviglio di stradine secondarie, spesso semiscassate da frane e incuria, che menano a contrade silane di gran fascino come i resti dell’antica Acerenzia o di Jure Vetere dove sono visibili in totale abbandono le tracce del cenobio della più primitiva comunità gioachimita, e richiami spirituali come Monteoliveto e San Bernardo che riportano ad altre impronte gioachimite sparse sull’altopiano. Piccoli nidi di montagna dai nomi lindi e profumati come Valle Piccola, Cuturelle, Caporosa, Fantino; poi Torre Garga, Righio, Germano, Silvana Mansio, gli sparuti villaggi della Riforma Agraria composti di poche case in semioscurità. Contrade e minuscole frazioni di una Sila gentile, ancora addormentate nel sopore contadino delle vecchie case rurali dai camini sempre fumiganti, ingentilite dai panni messi ad asciugare al vento, con un cane che sonnecchia davanti all’uscio di legno, un orto pettinato dalla zappa, i fiori colorati che crescono rigogliosi nelle vecchie tinozze di zinco. Poi, dopo un’ultima ansa del tempo la strada si cancella fino a diventare una serpe nera e avvolta d’ombre come dentro al bosco delle favole.


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