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PER IL "15O° ITALIA", COSTITUZIONALMENTE, FORMALMENTE E LEGALMENTE, TOGLIERE LA PAROLA : ITALIA, DALLE MANI DEL CAVALIERE DI "FORZA ITALIA", DEL PRESIDENTE DEL "POPOLO DELLA LIBERTA’"!!!

L’OCCUPAZIONE DELLA LEGGE E DELLA LINGUA ITALIANA: L’ITALIA E LA VERGOGNA. Un’analisi di Gianrico Carofiglio - a cura di Federico La Sala

RESTITUIRE LA PAROLA "ITALIA" AL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA, GIORGIO NAPOLITANO, AL PARLAMENTO, E A TUTTI I CITTADINI E A TUTTE LE CITTADINE D’ITALIA
martedì 25 agosto 2009 di Federico La Sala
[...] Oggi, nel nostro paese, lo stato di salute delle
parole è preoccupante. Stiamo assistendo a un processo patologico di conversione del linguaggio
a un’ideologia dominante attraverso l’occupazione della lingua.
E l’espropriazione di alcune parole chiave del lessico civile. È un fenomeno riscontrabile nei media
e soprattutto nella vita politica, sempre più segnata da tensioni linguistiche orwelliane [...]
LA LIBERTA’, LA "PAROLA" E LA "LINGUA" DELL’ITALIA, E IL COLPO DI STATO (...)

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> L’OCCUPAZIONE DELLA LINGUA ITALIANA: L’ITALIA E LA VERGOGNA. ---- La nostra lingua non è (di) un "padre-padrone" (di Stefano Bartezzaghi).

lunedì 18 gennaio 2010


-  Ma la nostra lingua non è un "padre-padrone"
-  la sua bellezza è nella continua evoluzione

-  Se l’amore per la lingua dovesse discendere dal timore dell’infrazione e non
-  dall’adesione a un’identità, la lingua stessa non avrebbe nulla da guadagnarne

-  di STEFANO BARTEZZAGHI *

C’è qualcosa di persino commovente nell’ansia con cui una quota di parlanti, minoritaria ma cospicua, cerca risposte certe in merito alla nostra lingua nazionale. Esiste il verbo "perplimere"? "Qual è" vuole l’apostrofo, non lo vuole mai, lo vuole soltanto quando è seguito da un sostantivo femminile ("qual è il motivo", "qual’è la ragione")? "Piuttosto che" è sinonimo di "oppure", o no? È, quasi sempre, possibile dare una risposta certa: "perplimere" no, non esiste, almeno finora; "qual è" non vuole l’apostrofo in nessun caso; "piuttosto che" esprime una preferenza ("preferisco un dessert piuttosto che un liquore") e non un’alternativa ("mi va bene tutto: mi porti un dessert piuttosto che un liquore piuttosto che un piatto di formaggi piuttosto che della frutta... Scelga lei").

Ma tali risposte sono anche, quasi sempre, meno interessanti delle richieste che soddisfano: riportano a uno stato cristallizzato della lingua, mentre le domande ne testimoniano la continua erosione. Un linguista che sia un vero linguista, e non un burocrate della norma (sempre di per sé provvisoria, almeno in questa materia), sa che perplimere può diventare prima o poi un rispettabile lemma in un futuro dizionario; che l’infame apostrofo tra "qual" ed "è" può ricevere una sua legittimazione; che le grammatiche possono rassegnarsi all’uso ormai dominante del "piuttosto che". Un linguista non può minimamente legiferare, neppure in fatto di lingua, ma è al servizio di fenomeni spontanei che possono solo essere registrati e studiati. A legiferare è il parlante: quando è un singolo come il frate Antonino da Scasazza di Nino Frassica ("concorso Cuore T’Oro"), non può altro che far ridere platee televisive; quando è un’intera categoria, può spostare intere montagne.

Il fatto commovente è che, in assenza di autorità riconosciute in materia, quella larga minoranza prova nostalgia di un’istanza paterna nelle vicenda di una lingua che è appena riuscita, e a volte a stento, a essere madre. Chi ha sensibilità per la lingua spesso smarrisce il senso della di lei duttilità e mutevolezza: la desidererebbe strumento rigido, per sé e soprattutto per gli altri. Lo sportello dell’Accademia della Crusca è il luogo in cui si tenta di ragionare ed di far ragionare sulla differenza fra oggettive infrazioni alla lingua e violazioni della sensibilità stilistica soggettiva. Nelle risposte è spesso percepibile il sospiro con cui l’esperto dà torto a un richiedente di cui condivide quell’indignazione a cui però, in onesta coscienza professionale, non può dare supporto scientifico.

La lingua italiana è certo bistrattata: ma le cause di tale maltrattamento non sono direttamente linguistiche bensì culturali. Se l’amore per la lingua dovesse discendere dal timore dell’infrazione e non dall’adesione a un’identità (se la lingua madre fosse scambiata, cioè, per un padre padrone) la lingua stessa non avrebbe nulla da guadagnarne.

© la Repubblica, 18 gennaio 2010


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