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ITALIA, ANNO 2009: ALLE ITALIANE E AGLI ITALIANI NEL MONDO. PER LA POLITICA XENOFOBICA E RAZZISTA DEL GOVERNO .... "MI VERGOGNO DI ESSERE ITALIANO E CRISTIANO" (Padre Alex Zanotelli).

MIGRANTI E POLITICA. LA LEZIONE DI JOHN FITZEGERALD KENNEDY: "IO SONO UN IMMIGRATO". Un testo del 1957, pubblicato per la prima volta in Italia (2009) - a cura di Federico La Sala

Non vi è settore che non sia stato investito dal nostro passato di immigrati. Ovunque gli immigrati hanno arricchito e rafforzato il tessuto della vita americana.
lunedì 31 agosto 2009 di Federico La Sala
[...] Sul finire del Diciannovesimo secolo l’emigrazione verso l’America subì un cambiamento notevole. Cominciarono infatti ad arrivare, in gran numero, italiani, russi, polacchi, cechi, ungheresi, rumeni, bulgari, austriaci e greci, creando nuovi problemi e dando origine a nuove tensioni [...]
[...] Già nel 1910 in molte città esistevano delle "Little Italy" o "Little Poland" dai confini ben definiti. Stando al censimento del 1960, abitavano più persone di origini o di genitori italiani (...)

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> MIGRANTI E POLITICA. LA LEZIONE DI JOHN FITZEGERALD KENNEDY: "IO SONO UN IMMIGRATO". --- Quando Bossi sbarcò in America (di Gian Antonio Stella) - I bambini del futuro (di Giuseppe Caliceti).

mercoledì 23 novembre 2011

Quando Bossi sbarcò in America

di Gian Antonio Stella (Corriere della Sera, 23 novembre 2011)

L’emigrante Napolitano Giorgio sbarcò ad Ellis Island nel 1922, tredici anni dopo Bossi Umberto. Cinque anni dopo erano americani. I loro omonimi attuali, però, la pensano assai diversamente sulla cittadinanza agli immigrati. E se il presidente della Repubblica è convinto che debba essere riconosciuto come italiano ogni bambino che nasce in Italia, il Senatur e la Lega restano bellicosamente ostili.

Nei registri monitorati dalla «Fondazione Agnelli» diretta da Maddalena Tirabassi, di immigrati che di cognome facevano Napolitano, dal 1892 al 1924, ne sbarcarono a Ellis Island esattamente 2.613. Altri 1.882 Napolitano sbarcarono dal 1882 al 1960 in Argentina. Altri ancora si sparpagliarono per il Brasile, la Francia, il Belgio, la Germania... E tutti i loro figli (come tutti i figli dei Bossi e dei Maroni e dei Castelli emigrati) sono diventati americani, argentini, brasiliani, francesi, belgi, tedeschi...

Il capo lo Stato non lo dimentica. E dopo avere qualche giorno fa ricordato l’importanza dei ragazzi nati in Italia durante l’incontro con la Nazionale italiana e in particolare il bresciano di pelle nera Mario Balotelli, è tornato ieri sul tema sottolineando come sia ormai maturo il passaggio dallo «ius sanguinis» allo «ius soli». Vale a dire dal diritto al passaporto legato alla nazionalità dei genitori a quello legato al luogo di nascita: «Mi auguro che in Parlamento si possa affrontare anche la questione della cittadinanza ai bambini nati in Italia da immigrati stranieri. Negarla è un’autentica follia, un’assurdità».

Immediata rivolta a destra. A partire da Maurizio Gasparri («Ma si vuole facilitare o complicare la vita del nuovo governo? Noi lo sosteniamo con lealtà, ma se si mettessero in agenda temi come la modifica della legge sulla cittadinanza...») fino a Roberto Calderoli, che minaccia barricate: «La vera follia sarebbe quella di concedere la cittadinanza basandosi sullo ius soli e non sullo ius sanguinis. Non vorrei che questa idea altro non sia che il “cavallo di Troia” che, utilizzando l’immagine dei “poveri bambini”, punti invece ad arrivare a dare il voto agli immigrati prima del tempo previsto dalla legge».

Un’obiezione antica. Nata dalla convinzione che gli immigrati siano tendenzialmente portati a votare «a sinistra». E che dunque un’irruzione di voti freschi possa aiutare chi oggi sta con Bersani, Di Pietro e soprattutto Vendola. Chi studia l’emigrazione, in realtà, sa che generalmente succede l’esatto contrario. L’immigrato che si è inserito tende spesso a essere conservatore e più rigido verso i nuovi immigrati che non i cittadini originari. Perché li vede come possibili «concorrenti». Perché teme che possano destabilizzare la situazione in cui loro sono già inseriti. Perché via via si sono immedesimati nella nuova realtà al punto che desiderano dimostrare a tutti gli altri di essere diventati «dei loro».

È sempre andata così. In America, in Australia, in Francia... Chi riesce a togliersi dall’ultimo gradino della scala sociale trova spesso naturale voltarsi indietro appena è salito sul penultimo per sputare su chi ha preso sotto il suo posto. I nostri nonni hanno fatto le spese di tutto questo: pochi sono stati razzisti con gli italiani quanto gli irlandesi che fino a poco prima erano stati discriminati. E al linciaggio di undici siciliani a New Orleans, il 15 marzo 1891, non a caso parteciparono migliaia di neri. Volevano affermare un principio: noi siamo più americani di voi.

Al di là di queste polemiche e dei ruoli diversi che spettano al governo Monti, chiamato a risanare i conti, e al Parlamento (dove 133 senatori democratici, dipietristi e del Terzo polo trascinati da Ignazio Marino hanno presentato una proposta per dare il passaporto italiano a ogni bimbo nato qui a prescindere da quello dei genitori), il tema della cittadinanza si è fatto ormai ineludibile.

Basti dire che ogni anno, come spiegano nel loro libro Cose da non credere l’economista Guglielmo Weber e il demografo Gianpiero Dalla Zuanna, nascono in Italia circa 100.000 bambini che hanno almeno un genitore straniero. Di più, nel loro saggio Una classe a colori Vinicio Ongini e ClaudiaNosenghi dicono che già un paio di anni fa su circa 58.000 scuole quasi 15.000 avevano più di un alunno su 10 straniero, in 500 la percentuale superava il 50% e in 24 toccava o oltrepassava l’80%. Come al plesso scolastico «Pestalozzi», nella zona Monte Rosa, a Torino. Dove nel 2010 gli scolari con il cognome straniero sono stati 118 contro 65 italiani. Ma fino a che punto quei bambini sono «stranieri», se ben 105 sono nati a Torino o comunque in Italia, tifano Juventus o Milan, crescono guardando i cartoni animati della «Valle incantata» e studiano sui sussidiari le avventure di Giuseppe Garibaldi? Ha senso ospitare centinaia di migliaia di bambini e di ragazzi che si sentono italiani, si vestono come i loro coetanei italiani, parlano fra di loro in italiano, fanno soffrire i loro genitori legati al Paese di provenienza rivendicando la loro italianità; ha senso tutto questo senza riconoscere loro il diritto al passaporto italiano?

Quei bambini di cognome straniero ma nati a Torino, se fossero nati in Francia sarebbero francesi, negli States statunitensi, in Brasile brasiliani, in Argentina argentini, in Germania tedeschi. Proprio perché in quei Paesi da un paio di secoli, o più di recente, si sono resi conto di un punto centrale: è difficile chiedere alle persone di essere dei buoni cittadini se non sono pienamente cittadini.

Proprio a proposito dei figli, vale la pena di ricordare cosa risposero le autorità scolastiche di Boston alla giornalista e sociologa italoamericana Amy Bernardy che nel 1909, compiendo un’inchiesta sugli emigrati italiani negli Stati Uniti, aveva chiesto di sapere quanti fossero gli scolari del Massachusetts di origine italiana. La replica fu secca. Spiacenti, ma nessun dato: «Noi siamo del parere che in questo Paese tutti sono americani e non desideriamo incoraggiare alcuna ricerca tendente a differenziare gli americani di una discendenza, dagli americani di discendenza diversa». Del resto, 2.200 anni fa, in Cina, il celeberrimo Libro del Maestro di Huainan spiegava già tutto: «Quando presso gli Êrmâ, i Di o i Bodi nascono bambini, urlano tutti allo stesso modo. Ma una volta cresciuti non sono in grado di capirsi neppure con l’interprete. (...) Ma prendete un bimbo di tre mesi, portatelo in un altro Stato e in futuro non saprà neanche quali costumi esistono nella sua patria...».


I bambini del futuro

di Giuseppe Caliceti (l’Unità, 23 novembre 2011)

Chiedo ai miei alunni di otto anni se considerano il loro compagno di classe Hassan e gli altri alunni di origine straniera presenti in classe - nati in Italia ma con i genitori di origine straniera - dei bambini italiani o stranieri. Tutti rispondono che sono italiani. Tranne due, che specificano: «Per me Hassan, per esempio, e italo-marocchino». Ecco risolto il problema della cittadinanza per i bambini. Con semplicità, lucidità, fermezza. Forse perché i bambini vengono dal futuro, come ha scritto il poeta Andrea Zanzotto. Ascoltando le loro parole, noi adulti abbiamo la possibilità di parlare con chi sarà adulto domani. Di vedere come sarà domani il nostro mondo, quando noi saremo vecchi o non ci saremo più.

L’intervento deciso di Giorgio Napolitano riapre con forza un tema centrale per l’Italia. Negare la cittadinanza italiana ai bambini che nascono nelle nostre città è sicuramente «un’autentica follia, un’assurdità». Nessuno più dei docenti italiani sa quanto sia vera e appassionata questa aspirazione. Un’altra mia alunna di qualche anno fa, Vera, undici anni disse in classe con semplicità: «Io sono nata in Italia, però mia mamma e mio papà sono albanesi. Io ho fatto l’asilo qui, la scuola qui. Vorrei chiedere al maestro due cose. La prima cosa è questa: io sono italiana o albanese o tutti e due? La seconda: ma io, se non mi sono mai spostata da qui, sono immigrata?».

A queste domande noi adulti italiani, per troppo tempo, non abbiamo saputo rispondere. Perché la nostra legge al riguardo è vecchia, fa riferimento a una concezione ottocentesca che immagina l’identità legata al sangue, più che al luogo in cui noi nasciamo, viviamo e cresciamo. A differenza di quanto accade negli Stati Uniti e in tanti altri Paesi europei, per esempio, che sono certamente, almeno su questo problema specifico, molto più evoluti dal punto di vista legislativo.

Napolitano ieri ha parlato della necessità di «acquisire nuove energie in una società per molti versi invecchiata se non sclerotizzata ». Ad ascoltarle bene, le sue parole assomigliavano quasi a un appello al governo italiano. In particolare ad Andrea Riccardi, fondatore della comunità di Sant’Egidio e nuovissimo ministro della Cooperazione e dell’integrazione sociali, per «riprendere politiche di integrazione che hanno uno sviluppo ormai lontano» e arrivare al più presto a una nuova legge sul diritto di cittadinanza. Quasi ci fosse la volontà di girare finalmente pagina rispetto ai recenti governi di centrodestra che, di fatto, in questi anni hanno sdoganato contro i migranti parole come “razzismo” - che non sentivamo dalla fine della Seconda Guerra mondiale. E lo hanno fatto senza alcun pudore, quasi che “razzismo” fosse diventato sinonimo di una nuova identità nazionale.

Ora il clima politico in Italia è cambiato e ci sono le condizioni per cambiare. E per rilanciare con convinzione la campagna per i diritti di cittadinanza “L’Italia sono anch’io” cui aderiscono Acli, Arci, Caritas Italiana, Cgil, Emmaus Italia, Fondazione Migrantes, Ugl, Rete G2 - Seconde Generazioni e tante altre associazioni della società civile. Come sostiene Graziano Delrio, sindaco di Reggio Emilia e presidente del comitato promotore, ormai si fa strada la consapevolezza che «una riforma non è più rinviabile». Per questo la mobilitazione prosegue in tutto il Paese per due leggi di iniziativa popolare affinché questi italiani di fatto, ma non di diritto, che nascono, crescono e vivono in Italia, siano anch’essi le risorse morali e intellettuali del nostro futuro.

La Lega Nord, che si è già buttata in una disperata campagna elettorale in cui si ripetono parole a vanvera, si è dichiarata ovviamente pronta «a fare le barricate in Parlamento e nelle piazze». Che dire? Vorrei rispondere con le parole di Damian, un alunno di 10 anni con i genitori di origine albanese: «Secondo me i bambini, se non sapevano che erano nati tutti in paesi diversi, era più facile andare d’accordo. Anche da grandi».

Di fronte alla diversità, qualsiasi diversità, il sentimento prevalente nei bambini e nei ragazzi che nascono e crescono oggi in Italia è la curiosità e la solidarietà. Per tanti, troppi adulti, invece, è stata la paura: c’è qualcosa che non va. C’è qualcosa che forse possiamo imparare: dai bambini e dal nostro Capo dello Stato. Ascoltiamoli attentamente. E muoviamoci.


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