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VITA E FILOSOFIA. Per il ventennale della morte di Elvio Fachinelli (1928-1989).

METTERSI IN GIOCO, CORAGGIOSAMENTE. PIER ALDO ROVATTI INCONTRA ELVIO FACHINELLI. Una nota di Federico La Sala

AL DI LA’ DEL ’FARISEISMO CATTOLICO-ROMANO’, UN ESERCIZIO DI PARRHESIA EVANGELICA: PARLARE IN PRIMA PERSONA, E IN SPIRITO DI CARITA’.
sabato 18 febbraio 2012
[...] Vicino/lontano - in un circolo virtuoso, sulla spiaggia, dinanzi al mare. Nel 2009, sostenuto dalla volontà e dal coraggio di mettersi in gioco e di entrare nel gioco (pp. 36-7), Rovatti è giunto “Sulla spiaggia” (E. Fachinelli. La mente estatica, Milano, Adelphi, 1989, pp. 13-25) e, finalmente, ha capito il senso del lavoro di Fachinelli ed è capace di riconoscerne tutto il valore [...]
Psicoanalisi, Storia e Politica....
L’ITALIA, IL VECCHIO E NUOVO FASCISMO, E "LA (...)

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> METTERSI IN GIOCO, CORAGGIOSAMENTE. --- Perché vincere non insegna nulla (di Pier Aldo Robatti -- Dialoghi sull’uomo: "L’umanità in gioco")

lunedì 23 maggio 2016

Pistoia-Dialoghi sull’uomo, festival di antropolgia culturale del contemporaneo *

Perché vincere non insegna nulla

di Pier Aldo Rovatti (Il Sole-24 ore, Domenica, 22 maggio 2016)

«Mettersi in gioco non è un gioco». Ecco una frase che mi è capitato di ascoltare in un dibattito pubblico attorno al competere come carattere della società contemporanea. La parola «gioco» ha un significato e un’operatività non univoci: va bene «mettersi in gioco» purché il gioco non sia quella ovvietà cui solitamente ci riferiamo ma qualcos’altro. Che cosa? Qualcosa di molto serio e coinvolgente che ci mette radicalmente all’opera. Come negarlo? Ma, attenzione, così la parola «gioco» perde o guadagna qualcosa? Guadagna e perde. Un poco si snatura.

L’istruzione numero uno potrebbe allora essere la seguente: facciamo in modo che la frase «mettersi in gioco» non si svuoti di ciò che è più importante, ovvero del gioco stesso, delle risorse di pensiero che nella sua performatività cioè nella sua pratica, il gioco può mettere a nostra disposizione. Il gioco è per noi una x che va sondata e tradotta in un esercizio che non ci è affatto abituale.

Il gioco è irriducibile a ogni volontà di potenza e perfino alla semplice volontà di un soggetto. Non è riducibile al desiderio di affermarsi nella competizione e al piacere/godimento di prevalere sugli altri. Saper giocare significa giocare e al tempo stesso essere giocati. Saper giocare vuol dire riuscire a «sospendere» il rapporto univoco e oppositivo tra attività e passività. Perciò saper giocare può rendere possibile l’aprirsi/instaurarsi di un diverso legame sociale a partire dalla consapevolezza del fatto che tutti siamo sempre in gioco.

Il gioco è una pratica che può diventare una politica dell’esistenza. Il giocare non può mai ridursi a una successione di partite, e il saper giocare è un apprendimento di noi stessi come soggetti che devono deporre la propria corona se vogliono stare nel gioco. In questo senso si tratta di un esercizio etico in cui la nostra libertà non può che essere un equilibrio instabile difficile da mantenere.

Roger Caillois - il pensatore che secondo me ci ha lasciato la eredità filosofica più significativa sul gioco - dice in sostanza che il giocare è una competizione indebolita dal caso, ma che se lo riduciamo a una mescolanza tra abilità e fortuna, come di solito accade nella nostra società, lo snaturiamo e finiamo per strumentalizzarlo: occorre completare l’idea e la pratica del gioco con le dimensioni della maschera e della vertigine, cioè con il fatto che non si dà «vero» gioco senza una qualche alterazione del nostro sé (ovvero senza una componente di perdita della propria identità) e senza l’introduzione dell’azzardo (ovvero senza una componente di messa a repentaglio di noi stessi).

Ne consegue che saper giocare vorrebbe dire essere disposti a oscurare la pretesa di governare completamente la nostra soggettività: non solo accettare che ciò avvenga, ma «sapere» che questa è la chance positiva offerta dal giocare. Ne consegue anche che saper giocare è molto difficile poiché è inevitabilmente il passaggio attraverso una perdita che non riguarda solo una posta misurabile o monetizzabile, ma è sempre in qualche modo una perdita di noi stessi. Mentre il vincere alla fine non ci insegna nulla, il saper perdere può risultare un apprendimento del rapporto non solo con noi stessi ma anche con gli altri giocatori. Questo uso positivo della perdita di sé è forse l’insegnamento più importante che possiamo ricavare dal gioco.

Che cosa significa «essere presi» dal gioco? Giocare senza essere presi dal gioco - i bambini ce lo mostrano, noi adulti tentiamo di nasconderlo - non è un vero giocare. Ma anche giocare senza provare «divertimento» non è un vero giocare, e divertirsi significa distogliersi, allontanarsi dalla realtà quotidiana quel tanto che basta per non venirne oppressi.

Qui c’è un rapporto tra essere dentro ed essere fuori rispetto alla realtà quotidiana che sembra comprensibile solo ricorrendo nuovamente alla parola «gioco» e all’esperienza alla quale essa si riferisce. C’è un gioco sottile tra fuori e dentro, e se lo eliminiamo, perché restiamo esterni al giocare o perché ne veniamo assorbiti al punto di dimenticare la realtà quotidiana, allora abbiamo smesso di giocare.

Questo gioco sottile ha a che fare con uno scarto che si tratta di riuscire ad «abitare». Da questo scarto possiamo ricavare una sorta di arte del distanziamento tanto da noi stessi quanto dalle cose. Potremmo così scoprire che grandi questioni filosofiche come quella della sospensione del giudizio, ma anche la stessa idea di esercizio si riescono a vivere e dunque a capire solo se ci riferiamo all’esperienza del gioco e al «saper» giocare.

Chiamerei ironico tale distanziamento per diversi motivi. Perché ci sfugge sempre senza lasciarsi fissare in una definizione. Perché comporta un godimento che accompagna alla leggerezza del divertirsi una sorta di smorfia nei confronti del peso del mondo e dei suoi effetti vincolanti. Infine, perché allontana irrisoriamente noi da noi stessi, facendoci vedere come di solito ci prendiamo troppo sul serio.

* La settima edizione di Pistoia-Dialoghi sull’uomo, festival di antropolgia culturale del contemporaneo, ideato e diretto da Giulia Cogoli è dedicato a: L’umanità in gioco. Società, culture e giochi. GUARDA IL PROGRAMMA.


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