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A BENO FIGNON (SCRITTORE, POETA, AMICO FRIULANO SPENTOSI NELLA NOTTE SCORSA), IN RICORDO ....

L’ITALIA, LA LINGUA, I DIALETTI, ED ESSERI UMANI «CAPACI DI INTENDERSI E VOLARE»(BENO FIGNON). L’identità è una matrioska: somma di incontri e storie. Una riflessione di Claudio Magris, con una nota di Federico La Sala

Le dispute agosta­ne sui dialetti e gli inni nazionali o locali possono essere tutte sfatate da una lapidaria riflessione di Raf­faele La Capria sulla diffe­renza tra essere napoletani e fare i napole­tani. (...) Chi fa il napoletano è il peggior nemico dei napoletani.
lunedì 7 settembre 2009
[...] L’identità autentica assomiglia alle Ma­trioske, ognuna delle quali contiene un’al­tra e s’inserisce a sua volta in un’altra più grande. Essere emiliani ha senso solo se im­plica essere e sentirsi italiani, il che vuol di­re essere e sentirsi pure europei. La nostra identità è contemporaneamente regionale, nazionale - senza contare tutte le vitali mescolanze che sparigliano ogni rigido gio­co - ed europea; del nostro Dna culturale fanno parte Manzoni come Cervantes, Shakespeare o (...)

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> ESSERI UMANI «CAPACI DI INTENDERSI E VOLARE» --- ASINO E TUTA. In ridordo di don Luisito Bianchi (di Lorenzo Prezzi).

venerdì 3 febbraio 2012

Asino e tuta

di Lorenzo Prezzi

in “settimana” - attualità pastorale - n. 3 del 22 gennaio 2012

Per un prete i "segni" in morte non sono secondari, come i segni-sacramenti che ha celebrato in vita. Luisito Bianchi (23 maggio 1927 - 5 gennaio 2012) è stato accompagnato al cimitero del suo paese (San Leonardo in Vescovato - Cremona) da un asinello e ha chiesto di essere sepolto in tuta. Ma nella precedente celebrazione nell’abbazia di Viboldone (Milano), dove ha vissuto gli ultimi anni, il suo vescovo, Dante Lafranconi, al momento dello scambio della pace è passato davanti alla bara, si è inginocchiato e l’ha baciata. Niente di più efficace per dire la cura della Chiesa per questo suo prete, ma anche la distanza, le incomprensioni e la necessità del perdono.

Non è stato un prete facile, don Luisito. Ordinato nel 1950, laureato alla Cattolica, assistente delle Acli, prima in diocesi poi a Roma, prete operaio alla Montecatini di Spinetta Marengo (Alessandria) per tre anni, poi benzinaio, inserviente ospedaliero, infermiere, traduttore ecc. Infine, sacerdote a disposizione delle monache benedettine di Viboldone. Una vita non tranquilla, segnata da una permanente tensione interiore e spirituale.

prete, non funzionario

Nella sua sensibilità sacerdotale e nei suoi riferimenti esemplari si ritrova molto della spiritualità di don Primo Mazzolari, prete della sua stessa diocesi. «Operai inconfondibili - aveva scritto dei sacerdoti don Primo -anche se inutili: non mercenari, ma perduti in un lavoro che è il nostro, in un campo che ci appartiene, per anime che sono nostre». «Il gusto di fare il prete è questo felice consumarsi di una lampada nell’attesa di chi è già presente e che ci scava infinitamente il cuore per restituirci coloro che credevamo perduti» (Ai preti, La Locusta, Vicenza 1977).

Don Luisito nei diari della sua esperienza operaia scrive: «Mi sento questa Chiesa, prostituta e amata. Porto con me le sue contraddizioni. Ma fino a quando riuscirò a identificarmi con questa Chiesa, senza sentire il richiamo forte a desolidarizzarmi dalla sua meschinità, che è la mia, per andare direttamente al Cristo?» (I miei amici, Sironi, Milano 2008, p. 159).

L’annuncio gratuito del Vangelo, l’assoluto disinteresse del messaggero, l’estraneità della Parola da ogni compromesso meschino sono stati i pensieri più coltivati nel suo ministero. In un solo termine: la gratuità. Fino a chiedersi se sarebbe diventato prete nel 1950 se ci fosse stato allora il sostentamento del clero ad assicurare una retribuzione mensile sicura: «Non so - risponde -. Forse sì, forse sarei stato addirittura contento di queste viscere materne della mia Chiesa che si preoccupava, al mio posto, di quello che avrei mangiato; o forse no, se qualcuno, col cuore di don Mazzolari, m’avesse parlato della gioia liberante della gratuità del ministero seguendo le orme di san Paolo, e non solo della povertà» (Regno-att. 20,2006,674).

operario, non militante

La tuta operaia come ultimo vestito e le numerose pagine delle sue opere legate alla sua esperienza di fabbrica (Come atomo sulla bilancia, Morcelliana, Brescia 1972; Sfilacciature di fabbrica, 1972; I miei amici, Sironi, Milano 2008) dicono la profonda risonanza personale della sua scelta di vivere del proprio lavoro. Ma, pur essendo e rimanendo prete operaio, non è mai stato del tutto organico o rappresentativo del filone prevalente dei preti operai italiani. Non solo perché poco propenso all’ideologia e refrattario ad appartenenze vincolanti, ma per un senso specifico della "diversità" del prete. «È inutile voler giocare un ruolo che non posso giocare: io non mi sono mai sentito né mi sento un operaio che voglia fare movimento operaio. Accetto la condizione sociologica dell’operaio fin che me lo permette il fatto d’essere prete, formato in questo modo, in questa Chiesa» (I miei amici, p. 151).

Niente di più lontano dalla sua sensibilità il fatto di perseguire una «Chiesa in classe operaia». E, tuttavia, del tutto interno a quel mondo, apprezzato collaboratore di Pretioperai e di Viator, difensore dei loro principi ecclesiali. Anzi, uno dei frutti migliori. Se la tradizione pastoraleitaliana deve non poco ai preti operai del Piemonte e del Triveneto, come pure il clero è spiritualmente debitore della ricerca interiore dei preti operai, anche la pubblicistica e la narrativa sul ministero ha in lui, come in Sirio Politi e altri, un riferimento importante.

letterato, non arcade

La poesia e la narrativa si sono rivelate alla lunga il campo più rilevante e ampio del suo ministero. Non appartenente all’accademia o all’arcadia, né a scuole particolari, la sua poetica nasce dentro la sua fede e il suo ministero. Forse si può sentire l’eco della passione di un Davide Turoldo. Ma il testo che gli ha riservato maggiore attenzione e risonanza, forse il romanzo "cattolico" più bello degli ultimi cinquant’anni assieme a Il cavallo rosso di E. Corti, è La messa dell’uomo disarmato (Sironi, Milano 2003), un racconto fluviale e drammatico sulla resistenza cattolica nelle aree della bassa milanese.

Le parole messe in bocca ad un vecchio parroco in memoria di un amico partigiano non credente suonano come un viatico per sé: «Certo, dobbiamo onorare i morti continuando a vivere senza rimpianti, anche se è duro pensare che loro hanno pagato per me, per tutti... Certo, bisogna continuare a vivere come se loro non fossero morti, dire ogni giorno nella messa: communicantes et memoriam venerantes in primis, non scandalizzarti Franco di questo vecchio prete, in primis - ripeté con più forza - gloriosum fratrum nostrorum, e faccio seguire quei nomi perché mi rimangano impressi per tutta la giornata e mi aiutino a portare il pondus diei et aestus. ... Non ci resta che questo comunicare con loro, e venerarne la memoria, in un anello che si congiungerà con un altro anello dopo di noi, quando saremmo annoverati fra coloro di cui si deve fare memoria, un anello fra i molti ma sempre completo nella sua individualità. In fondo, la vita è questo comunicare con coloro che ci hanno preceduto, e farne memoria» (p. 747).

Ma è nella traduzione della trilogia di san Giovanni della croce (Salita sul monte Carmelo, Notte oscura, Cantico spirituale, EDB, Bologna) che si coglie la sua monastica inclinazione alla mistica e alla profezia: «Là tu mi mostrerai/ ciò che l’anima mia pretendeva,/ e tosto mi darai/ ancora là, vita mia/ quanto già mi donasti il dì passato» (Cantico spirituale, p. 35).


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