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INDIVIDUAZIONE. Dopo quasi un secolo pubblicata l’opera in cui Carl G. Jung tentò di capire l’inconscio a partire dalle sue visioni e fantasie.

COME JUNG DIVENNE JUNG. Dai "Libri Neri", il "Libro Rosso, o "Liber Novus". Una nota di Sonu Shamdasani e una pagina di Jung - a cura di Federico La Sala

Il Liber Novus presenta il prototipo del processo di individuazione, da lui considerato la forma universale dello sviluppo psicologico individuale.
sabato 24 ottobre 2009 di Federico La Sala
[...] Nel Libro Rosso sono discussi una serie di temi, tra cui: la natura della conoscenza di sé, l’importanza del pensare e del sentire e i tipi psicologici, la relazione tra virilità e femminilità interna ed esterna, l’unione degli opposti, la solitudine, l’importanza del sapere e dell’imparare, lo stato della scienza, il significato dei simboli e come si deve interpretarli, la pazzia, la pazzia divina e la psichiatria, l’imitazione di Cristo, la natura di Dio e degli dei, Nietzsche, la (...)

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> COME JUNG DIVENNE JUNG. --- Il libro rosso di Jung. Dio nella mia anima draghi nel mio cuore. Appunti di viaggio verso l’abisso.

domenica 7 novembre 2010

Appunti di viaggio verso l’abisso

di Antonio Gnoli (la Repubblica, 07.11.2010)

Gli anni che precedettero la prima guerra mondiale furono per Carl Gustav Jung (1875-1961) attraversati da strane premonizioni. Poco più che trentenne, cominciò ad avere delle visioni apocalittiche. I suoi occhi erano colmi di terrificanti inondazioni, vedeva macerie ovunque e fiumi di sangue scorrere per l’Europa. Pensò di essere pazzo. Quegli stati di veglia, durante i quali gli accadeva di provare angoscia e tremore, non potevano tuttavia ridursi a semplici fantasticherie. Da bambino, gli accadde spesso di sognare una figura che la voce della madre definiva il «divoratore di uomini». Chi era quel personaggio che di notte portava lo scompiglio nella testa del giovane Carl?

Ancora molti anni dopo, riflettendo su quell’esperienza allucinatoria, Jung non sapeva se ricondurla alla favolistica dimensione di un orco o alla figura del Cristo. Forte era il disorientamento, ma forte al contempo la necessità di cercare una spiegazione che andasse oltre la pura ragione e la semplice esperienza sensoriale. Fu così che Jung cominciò ad annotare, come un allucinato sismografo, tutto quello che accadeva nel proprio mondo interiore. Non solo i sogni e le visioni, ma anche le letture fatte, gli scrittori compulsati, i saperi torturati, le civiltà confrontate, le mitologie, il folclore, l’arte, le religioni, insomma tutto, o quasi, confluì in quel grande e misterioso affresco incompiuto che è il Libro rosso, di cui esce ora l’edizione italiana.

Nelle intenzioni di Jung, quel testo - per decenni considerato una sorta di Santo Graal della psicoanalisi junghiana - avrebbe dovuto descrivere le varie componenti della sua personalità, proprio a partire dalle sue fantasie. Le quali, sebbene agissero liberamente, appartenevano al sostrato antichissimo del mito. Jung aveva compreso che per conoscere se stessi occorreva perlustrare quel cantiere di sogni e di apparenti bizzarrie, di visioni e perfino di mostruosità che talvolta ci portiamo dentro. Era consapevole che non si trattava di semplici allucinazioni, ma di un mondo simbolicamente ricchissimo che l’epoca moderna aveva tentato di cancellare.

Il Libro rosso (o Liber novus) mette il lettore di fronte a due situazioni: gli fa conoscere Jung attraverso Jung; e contemporaneamente lo introduce a un metodo di lavoro che può illuminare la sua vasta produzione. È noto che egli fu allievo di Freud, con il quale scambiò, oltre che l’amicizia, lettere, giudizi e riflessioni. Quel rapporto - proprio negli anni in cui vennero poste le premesse alla sua opera più intima - si esaurì. Nel 1914 Jung uscì dall’Associazione psicoanalitica internazionale. Alla base della rottura ci fu più di un motivo.

C’era, innanzitutto, quella che Jung definì l’ortodossia freudiana e l’eccesso di dogmatismo dottrinario; c’era il diverso modo di interpretare la libido (per Freud la libido era riconducibile esclusivamente alla pulsione sessuale; mentre per Jung essa si apriva anche ad altre pulsioni psichiche); c’era la diversa lettura che entrambi davano dell’inconscio (per Freud all’inizio una tabula rasa su cui via via vengono depositati gli atti rimossi dalla coscienza; per Jung viceversa l’inconscio è già definito fin dall’origine); infine il metodo freudiano era soprattutto un’analisi retrospettiva, tendeva cioè a ricostruire gli antecedenti del materiale psichico osservato; quello junghiano privilegiava la vita nella sua complessità simbolica e immaginativa. Di qui l’importanza che agli occhi dell’ex allievo assunsero alcuni archetipi: "Persona", "Ombra", "Anima", "Sé", che egli interpretò come manifestazioni differenti della personalità.

Il Libro rosso può dunque esser letto anche come il tormentato emanciparsi dalla figura del maestro. Il differente approccio junghiano alla vita psichica, includeva l’esistenza di un conflitto con la figura paterna, sia reale (come nel caso del distacco da Freud) sia simbolica (quando gli accadde di riflettere sulla morte di Dio). Jung meditò a lungo sullo Zarathustra di Nietzsche. Ne concluse che - grazie all’anima - il dio che muore rinasceva nelle sue multiformi espressioni.

Il Libro rosso è una delle grandi avventure clandestine del Novecento. Jung ne interruppe improvvisamente la stesura negli anni Venti, per poi riprenderla nel 1959. Ma anche in quella occasione prevalse la sospensione. Per anni il testo fu inaccessibile. Del resto, non era chiaro se Jung lo considerasse pubblicabile. Gli eredi, grazie al lavoro di persuasione di Sonu Shamdasani, lo hanno infine consentito. E questo, sebbene la parte scritta e quella disegnata (vi ricorre, ad esempio, il grande tema del Mandala) inducano a catalogarlo tra i suoi frutti più esoterici. D’altro canto, il Libro rosso rivela un mondo che ci sorprende per ricchezza concettuale, per affezione a civiltà remote e diverse dalla nostra, per quei nessi sotterranei che mostrano l’immenso talento di chi li ha saputi creare. Più che un monumento alla psicologia, o un semplice documento intimo, il Libro rosso è la prova che i grandi spiriti sanno guardare l’abisso della follia senza esserne inghiottiti.


Il libro rosso di Jung tra Dio e abisso

Dio nella mia anima draghi nel mio cuore

di Carl Gustav Jung (la Repubblica, 07.11.2010)

Nel 1913 Carl Gustav Jung ha quarant’anni ed è un uomo realizzato: ha "fama, potere, ricchezza, sapere". Ma all’improvviso incominciano incubi e visioni apocalittiche. Il padre della psicologia analitica li annoterà e li disegnerà per tutta la vita su un quaderno che diventerà il "Libro rosso" Uno stupefacente diario intimo, monumento all’inconscio, testo alchemico di straordinaria ricchezza. L’opera, rimasta a lungo segreta, ora esce in Italia

Quando, nell’ottobre 1913, ebbi la visione dell’alluvione, mi trovavo in un periodo per me importante sul piano personale. Allora, all’età di quarant’anni, avevo ottenuto tutto ciò che mi ero augurato. Avevo raggiunto fama, potere, ricchezza, sapere e ogni felicità umana. Cessò dunque in me il desiderio di accrescere ancora quei beni, mi venne a mancare il desiderio e fui colmo d’orrore. La visione dell’alluvione mi sopraffece e percepii lo spirito del profondo, senza tuttavia comprenderlo. Esso però mi forzò facendomi provare un insopportabile, intimo struggimento, e io dissi: «Anima mia, dove sei? Mi senti? Io parlo, ti chiamo... Ci sei? Sono tornato, sono di nuovo qui.

Ho scosso dai miei calzari la polvere di ogni paese e sono venuto da te, sono a te vicino; dopo lunghi anni di lunghe peregrinazioni sono ritornato da te. Vuoi che ti racconti tutto ciò che ho visto, vissuto, assorbito in me? Oppure non vuoi sentire nulla di tutto il rumore della vita e del mondo? Ma una cosa devi sapere: una cosa ho imparato, ossia che questa vita va vissuta. Questa vita è la via, la via a lungo cercata verso ciò che è inconoscibile e che noi chiamiamo divino. Non c’è altra via. Ogni altra strada è sbagliata. Ho trovato la via giusta, mi ha condotto a te, anima mia. Ritorno temprato e purificato. Mi conosci ancora? Quanto a lungo è durata la separazione! Tutto è così mutato. E come ti ho trovata? Com’è stato bizzarro il mio viaggio! Che parole dovrei usare per descrivere per quali tortuosi sentieri una buona stella mi ha guidato fino a te? Dammi la mano, anima mia quasi dimenticata. Che immensa gioia rivederti, o anima per tanto tempo disconosciuta! La vita mi ha riportato a te. Diciamo grazie alla vita perché ho vissuto, per tutte le ore serene e per quelle tristi, per ogni gioia e ogni dolore. Anima mia, il mio viaggio deve proseguire insieme a te. Con te voglio andare ed elevarmi alla mia solitudine».

Questo mi costrinse a dire lo spirito del profondo e al tempo stesso a viverlo contro la mia stessa volontà, perché non me l’aspettavo. In quel periodo ero ancora totalmente prigioniero dello spirito di questo tempo e nutrivo altri pensieri riguardo all’anima umana. Pensavo e parlavo molto dell’anima, conoscevo tante parole dotte in proposito, l’avevo giudicata e resa oggetto della scienza.

Credevo che la mia anima potesse essere l’oggetto del mio giudizio e del mio sapere; il mio giudizio e il mio sapere sono invece proprio loro gli oggetti della mia anima. Perciò lo spirito del profondo mi costrinse a parlare all’anima mia, a rivolgermi a lei come a una creatura vivente, dotata di esistenza propria. Dovevo acquistare consapevolezza di aver perduto la mia anima. Da ciò impariamo in che modo lo spirito del profondo consideri l’anima: la vede come una creatura vivente, dotata di una propria esistenza, e con ciò contraddice lo spirito di questo tempo, per il quale l’anima è una cosa dipendente dall’uomo, che si può giudicare e classificare e di cui possiamo afferrare i confini.

Ho dovuto capire che ciò che prima consideravo la mia anima, non era affatto la mia anima, bensì un’inerte costruzione dottrinale. Ho dovuto quindi parlare all’anima come se fosse qualcosa di distante e ignoto, che non esisteva grazie a me, ma grazie alla quale io stesso esistevo.

Giunge al luogo dell’anima chi distoglie il proprio desiderio dalle cose esteriori. Se non la trova, viene sopraffatto dall’orrore del vuoto. E, agitando più volte il suo flagello, l’angoscia lo spronerà a una ricerca disperata e a una cieca brama delle cose vacue di questo mondo. Diverrà folle per la sua insaziabile cupidigia e si allontanerà dalla sua anima, per non ritrovarla mai più. Correrà dietro a ogni cosa, se ne impadronirà, ma non ritroverà la sua anima, perché solo dentro di sé la potrebbe trovare. Essa si trovava certo nelle cose e negli uomini, tuttavia colui che è cieco coglie le cose e gli uomini, ma non la sua anima nelle cose e negli uomini. Nulla sa dell’anima sua. Come potrebbe distinguerla dagli uomini e dalle cose? La potrebbe trovare nel desiderio stesso, ma non negli oggetti del desiderio. Se lui fosse padrone del suo desiderio, e non fosse invece il suo desiderio a impadronirsi di lui, avrebbe toccato con mano la propria anima, perché il suo desiderio ne è immagine ed espressione.

Se possediamo l’immagine di una cosa, possediamo la metà di quella cosa. L’immagine del mondo costituisce la metà del mondo. Chi possiede il mondo, ma non invece la sua immagine, possiede soltanto la metà del mondo, poiché l’anima sua è povera e indigente.

La ricchezza dell’anima è fatta di immagini. Chi possiede l’immagine del mondo, possiede la metà del mondo, anche se il suo lato umano è povero e indigente. Ma la fame trasforma l’anima in una belva che divora cose che non tollera e da cui resta avvelenata. Amici miei, saggio è nutrire l’anima, per non allevarvi draghi e diavoli in cuore. Traduzione Marianna Massimello

(© 2009 Stiftung der Werke von C. G. Jung / W. W. Norton & Company, New York, per gentile concessione di Berla & Griffini Rights Agency © 2010 Bollati Boringhieri Editore, Torino)


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