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COMUNITA’ 2009. Festival di filosofia ....

DALLA COMUNITA’ ("DIO CON NOI" - "GOTT MIT UNS") ALLA DEMOCRAZIA (DEL "COMUNE", SENZA "UNITA’" E "SOVRANITA’"?!). «Avec (con)»: Jean-Luc Nancy, seguendo un "segnavia" di Heidegger, cerca la strada per uscire dalla "selva nera" (e dalla "caverna"). Un’anticipazione della lezione magistrale che terrà a Sassuolo, domenica 20 settembre - a cura di Federico La Sala

A seguire, una recensione di Ida Dominijanni di un saggio del filosofo, "Verità della democrazia".
sabato 12 settembre 2009 di Federico La Sala
[...] pensare il «con» ad altezza «esi­stenziale » significa allo stesso tem­po pensare due cose: la possibilità del senso - ovvero di ciò che in ef­fetti Heidegger chiama il «senso del­l’essere », ma che sarebbe meglio di­re, se lo si comprende a fondo, «sen­so d’essere» (il senso che c’è ancora da essere, da essere al mondo e da essere un mondo) - e la necessità di una politica non dominatrice (una «democrazia», se si vuole, ma questo termine richiederebbe altre considerazioni) [...] (...)

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> DALLA COMUNITA’ ("DIO CON NOI" - "GOTT MIT UNS") ALLA DEMOCRAZIA --- Dal comunismo alla community (di Jean-luc Nancy - Un brano del saggio su "Lettera internazionale").

giovedì 17 febbraio 2011

Un brano del saggio del filosofo dal nuovo numero di "Lettera internazionale"

Dal comunismo alla community

Dal troppo poco all’appena sufficiente: non si sa più quale sia l’unità di misura se non la media che passa tra la miseria e l’opulenza

-  Anticipiamo parte del testo di Nancy dal nuovo numero di "Lettera internazionale"

-  di Jean-luc Nancy (la Repubblica, 17.02.201) *

Niente è più comune del comune. Questa affermazione lapalissiana provoca in effetti una vertigine: il comune è talmente comune che non lo si vede, non se ne parla. Lo si teme un po’, sia perché è comune-volgare, sia perché è comune-comunitario. Rischia di abbassare o di soffocare. O entrambe le cose insieme.

Tuttavia, beninteso, il comune è comune; è il nostro destino comune essere in comune. Ma tutto avviene come se le culture - le politiche, le morali, le antropologie - oscillassero continuamente tra il comune dominante, inglobante - il clan, la tribù, la comunità, la famiglia, la stirpe, il gruppo, l’ordine, la classe, il villaggio, l’associazione - e il comune banale, il profanum vulgus (non sacro...) o il vulgum pecus (il gregge...), il popolo, la gente, la folla, tutti (l’inenarrabile uomo qualunque). O è il tutto che ingloba la parte, o è l’umiltà della condizione ordinaria.

Nell’idea di comunismo, una gran parte dell’Europa ha visto la somma di queste due possibili letture: la collettività obbligante e al contempo la mediocrità livellante. Di fatto, il comunismo detto "reale" ha combinato il livellamento delle condizioni con il controllo di un’autorità che si presumeva collettiva. Una forma di uguaglianza - forma ristretta, grigia, e ciononostante effettiva - combinata con un dirigismo brutale: i due fattori permettevano che a questa condizione sfuggissero i dirigenti e un apparato militare e tecnico.

Ne risultava una società duale di cui si potrebbe dire che la ragione d’essere - al di là dell’accaparramento del potere e della ricchezza che in un modo o nell’altro appartengono a ogni società - era di sovrapporre un’ipertrofia dello Stato a una condizione umana decisamente limitata al suo mantenimento meccanico: quasi alla sola riproduzione della specie, ridotta quest’ultima, per un certo periodo, unicamente alla popolazione dell’impero socialista sovietico.

Questo comunismo "reale" che ha tanto derealizzato le relazioni tra le persone e con il mondo (senza impedire la presenza, sorda ma intensa, del rifiuto, della protesta, dell’uomo in rivolta), non a caso ha riunito questi due grandi caratteri del comune: il Tutto e il Basso. Ha riunito ciò che restava del comune perduto. Ci sono state comuni di ogni genere. Qui è necessario fare riferimento a Marx, naturalmente, e alla sua analisi delle forme comuni anteriori al mondo moderno, ma non soltanto a Marx: le modalità dell’esistenza comune sono ciò che caratterizza, senza dubbio in maniera molto diversa, tutte le civiltà che precedono quella in cui il sociale ha sostituito il comune. (...)

Nel frattempo la democratizzazione e la socializzazione delle società industriali nelle quali - con grande disappunto di Marx - la rivoluzione comunista non aveva avuto luogo, ha portato a uno sviluppo di quelle che ancora di recente sono state chiamate le classi medie le quali sono tendenzialmente diventate l’elemento omogeneo di una società in cui la maggioranza è tutta intenta a non prendere troppo in considerazione né la miseria che scava in sé né la confisca della ricchezza che vi corrisponde. Troppo poco, abbastanza, troppo - denaro, sapere, potere, diritto, salute - abbastanza, appena sufficiente, sufficiente... non si sa neppure quale sia l’unità di misura, se non quella media che passa tra la miseria e l’opulenza. Il comune come totalità mediocre. Il valore più comunemente ammesso del comune.

Ma dell’essere insieme, nessuna notizia. Se non questa: abbiamo imparato che l’idea comunista ha tentato di erigere la verità dell’essere insieme contro tutte le forme di dominio, di individualizzazione, di socializzazione. Essa ha portato, in un mondo in cui si percepiva oscuramente la perdita di ogni comune, l’"insieme" o il "con" come condizione allo stesso tempo ontologica e pratica, ancora inaudita. (...)

L’idea comunista - che possa o debba conservare ancora questo nome - designa il meno comune del comune, la sua eccezione, la sua sorpresa. Nessuna totalità, nessuna mediocrità, ma ciò che fa sì, per esempio, che io possa scrivervi qui, a tutti e a tutte, o a ognuno e a ognuna, e senza sapere neanche in che modo condividiamo questa idea. Noi.

* Traduzione di Monica Fiorini © 2010 by & Actuel Marx Per la traduzione italiana © Lettera Internazionale


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