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MARX, BENJAMIN, E GIOACCHINO DA FIORE. PER LA CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA E DELLA TEOLOGIA MAMMONICA CONTEMPORANEA...

Walter Benjamin. Un convegno di Rifondazione, per guarire dai colpi mortali ricevuti dall’alleanza teologico-politica ateo-devota. Una nota di Massimiliano Tomba e di Paolo Ferrero - a cura di Federico La Sala

lunedì 28 settembre 2009 di Federico La Sala
[...] Io penso che per poter correttamente impostare il tema della rifondazione comunista occorre chiarirci le idee su come costruire uno spazio dell’agire politico che tematizzi correttamente il rapporto tra la nostra storia, il nostro presente e il nostro futuro. Benjamin può darci una mano in questa riflessione [...]
Se FERRERO è FERRERO, VENDOLA è VENDOLA, GIORDANO è GIORDANO, BERTINOTTI è (ancora) BERTINOTTI, VELTRONI è (ancora) VELTRONI, e PRODI è (ancora) PRODI ... UNA MOBILITAZIONE (...)

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> Walter Benjamin. --- A Parigi, una mostra "Walter Benjamin Archives". Ghirigori per fare ordine dentro il caos (di Fabio Gambaro). Dietro le sue citazioni il segreto della parola (di Antonio Gnoli))

domenica 29 gennaio 2012

Walter Benjamin

Ghirigori per fare ordine dentro il caos

      • Pensieri, riflessioni, note. Sulle rivoluzioni di Marx, i tempi di Proust, la guerra, l’arte. Su fogli sparsi, taccuini, biglietti. In una mostra a Parigi l’archivio dell’autore di "Angelus novus" Che testimonia non solo il suo metodo di lavoro, ma la costruzione mai sistematica della sua filosofia

di Fabio Gambaro (la Repubblica, 29.01.2012)

Parigi. Walter Benjamin amava Parigi. L’amava tantissimo. Proprio nella città di Baudelaire e Proust, della Bibliothèque Nationale e dei passages, dei caffè frequentati dagli artisti e dei lungosenna inondati di sole, il filosofo tedesco aveva cercato rifugio nel 1933, per sfuggire al nazismo. Per lui la Ville Lumière fu un’oasi di pace e di cultura, dove rimase fino al 13 giugno 1940, quando le truppe del Reich alle porte della città lo costrinsero ancora una volta alla fuga. E non a caso, alla capitale francese Benjamin dedicò uno dei suoi libri maggiori, I passages di Parigi, a cui lavorò fino all’ultimo momento, abbandonando poi il manoscritto incompiuto a Georges Bataille, prima di lasciare precipitosamente il suo appartamento di rue Dombasle.

Quella tra il filosofo tedesco e la capitale francese è una storia fatta di legami forti e di affinità nascoste, che oggi riemerge in occasione della mostra "Walter Benjamin Archives" (fino al 5 febbraio al Musée d’Art et d’Histoire du Judaisme).

Il ricchissimo materiale esposto a Parigi (manoscritti, lettere, appunti, schede, cartoline, registri, taccuini, foto, agende, libri e riviste) consente di leggere tutta l’opera di Benjamin come un archivio del pensiero, della percezione, della storia e delle arti. Archivista di se stesso e grande collezionista, l’autore di Angelus novus compilava elenchi di ogni tipo, liste di libri e di cose da fare, elenchi di argomenti da approfondire e cataloghi di parole.

Tra le carte c’è anche un "archivio dei suoi archivi personali", comprendente ventinove diverse voci, dalle lettere degli amici ai lavori sulla poesia, dalle notizie sui genitori alle ricerche filosofiche, dai ricordi di scuola alle fotografie. Ecco per esempio un attualissimo commento all’idea di Marx sulle rivoluzioni come locomotive della storia: «Forse le cose stanno diversamente. Forse le rivoluzioni sono il gesto della specie umana che viaggia sul treno per tirare il segnale d’allarme». Su un foglio con la pubblicità dell’acqua San Pellegrino redige invece alcune riflessioni sull’aura come «apparizione di un lontano per quanto vicino», mentre su un tagliando della Berliner Staatsbibliothek butta giù il primo schema de Il dramma barocco tedesco.


Dietro le sue citazioni il segreto della parola

di Antonio Gnoli (la Repubblica, 29.01.2012)

Ci sono stili di pensiero che seguono la corrente di un fiume e altri che la risalgono. Walter Benjamin appartiene a questa seconda categoria. È molto più faticoso stargli dietro. Egli ha fatto dell’oscurità la più solenne delle promesse al lettore. Ed è come se il venir meno di un certo ideale di chiarezza e di leggibilità coincidesse con la crescente avversione in lui per i luoghi comuni e le facili spiegazioni. Dunque pensatore complesso. Frammentario. Folgorante. Espressione di quel Novecento che ha fatto dell’inquietudine linguistica l’arma bianca con cui difendersi da una tragedia incombente. Quale? Le cose e i nomi non corrispondono più tanto bene. C’è un crollo denotativo e non si sa più cosa e con chi comunichiamo. Si può constatare - Benjamin lo fa quotidianamente - che l’idea della lingua e l’uso delle parole hanno perso di icasticità. Mancano di quell’autorità che ne legittima l’uso. Adorno osserva che gli scritti di Benjamin «avevano la risonanza del segreto». Essi ci interessano più per quello che non dicono che per quel che mostrano nella loro seducente ellitticità. Nulla è preordinato nella mente di Benjamin che continua a coltivare frasi come fossero fiori in cima a un burrone.

Un aspetto non secondario del suo stile è l’uso della citazione. Niente a che vedere con le ironiche sottigliezze post-moderne. La citazione per lui equivale alle mosse di un esercito che occupa una città. Irrompe, cattura ed espone i suoi trofei di parole. È questa la sua arte di narrare: talmudica e al tempo stesso irriverente. Tutta la sua vita è un insieme di citazioni che riporta nei suoi piccoli quadernetti di appunti. «Quel cumulo di citazioni - nota Hannah Arendt - rappresenta il lavoro principale di fronte al quale la stesura è solo un episodio secondario». Ha occhi, si direbbe, solo per il lavoro altrui. Ma è davvero così?

La citazione interrompe un ritmo, crea un diversivo. Assomiglia a un’operazione di guerriglia. Scrive Benjamin: «Le citazioni nel mio lavoro sono come briganti ai bordi della strada, che balzano fuori armati, estraggono l’assenso all’ozioso viandante». Ma citare non è solo tendere agguati è anche mettere in relazione aspetti e cose molto diversi tra loro. È una rete invisibile di connessioni. È Internet prima di Internet. La citazione è un gesto distruttivo, ma al tempo stesso carico di utopia: «Solo per l’umanità redenta, il passato è citabile in ognuno dei suoi momenti», si legge in una delle Tesi di filosofia della storia. Ma il libro che più di ogni altro riassume lo stile benjaminiano, il suo carattere rapsodico è il Passages di Parigi, il grande affresco metropolitano che egli dipinge come fosse un montaggio-smontaggio di citazioni.

Torniamo al segreto di cui parla Adorno. Si tratta di qualcosa di essenziale che sfuggirebbe senza aver chiaro che ogni frase e ogni pensiero hanno in Benjamin una tensione messianica, una relazione con l’autorità dell’inespresso. Per questo fu uno dei pochi a pensare seriamente che la parola umana tanto più si sarebbe riscattata quanto più avrebbe riecheggiato quella divina.

Appunti che messi insieme diventano un vasto schedario, il supporto necessario di un pensiero proposto per frammenti, frutto della consapevolezza dell’impossibilità di strutturarne la presentazione in modo definitivo. «Per qualcuno i cui scritti sono dispersi come i miei e a cui le circostanze storiche non consentono più l’illusione di vederli un giorno riuniti, è una vera soddisfazione sapere che un lettore, in un modo o nell’altro, si sia sentito a casa sua in mezzo a questi miei scarabocchi», scrive Benjamin.

Possedeva taccuini per ogni occasione. C’era quello in cui annotava i libri letti e quello in cui conservava le citazioni che avrebbero potuto servirgli in futuro, quello per gli schemi e i piani di lavoro, e quello in cui finivano arborescenze di parole e costellazioni di pensieri come quelle relative a Proust, Baudelaire o Karl Kraus. Documenti preziosissimi che evidenziano il modo di procedere del filosofo che avanza per approssimazioni successive, accumulando idee, organizzando il tutto per temi e argomenti, alla ricerca di una presentazione appropriata del pensiero. Proprio come fece negli anni parigini, quando lavorava al famoso libro sui passages. In quel testo incompiuto Benjamin accumulò una gran quantità di citazioni secondo l’immagine cara a Baudelaire dello straccivendolo che raccoglie «gli scarti di una giornata nella capitale». Immagine che trasferì al lavoro dello storico materialista, presentato come colui che raccoglie avanzi e residui della storia. I passages di Parigi doveva essere un’opera fatta di stracci, scarti e residui, in cui - secondo il sommario manoscritto presentato a Parigi - potevano coesistere la moda e la storia delle sette, il sogno e la prostituzione, Jung e Fourier, Marx e Baudelaire, la noia e la pigrizia, il dinamismo sociale e il materialismo antropologico.

A Parigi però Benjamin era anche al centro di una rete di relazioni intellettuali. È a loro che Benjamin confida angosce, dubbi e paure, come ad esempio in questa lettera ad Adorno del 2 agosto 1940: «La totale incertezza di ciò che può portare ogni nuovo giorno, ogni nuova ora, domina la mia esistenza da molte settimane. Sono condannato a leggere i giornali come una sentenza e cogliere in ogni trasmissione radiofonica un messaggio di sventura».

Per sfuggire a quella sventura annunciata Benjamin approderà a Marsiglia nell’agosto del 1940, tentando poi di raggiungere clandestinamente la Spagna. Arrestato e respinto dai doganieri spagnoli, il 26 settembre, si darà la morte con una forte dose di morfina nel paesino di Portbou, dopo aver scritto un ultimo laconico biglietto all’amica Henny Gurland: «In una situazione senza uscita, non ho altra scelta che farla finita. La mia vita si conclude in un piccolo paese dei Pirenei dove non mi conosce nessuno. La prego di trasmettere il mio pensiero all’amico Adorno e di spiegargli la situazione in cui mi sono trovato. Non mi resta abbastanza tempo per scrivere tutte le lettere che avrei voluto scrivere». Queste drammatiche righe sono l’ultimo atto della vita di Benjamin, di cui l’affascinante mostra parigina ricorda la ricchezza di un progetto inclassificabile, che proprio a Parigi conobbe uno dei suoi momenti culminanti.


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