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INTELLETTUALI E POLITICA. LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO, IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE ... E IL BERLUSCONISMO

GLI INTELLETTUALI E L’IDENTITA’ PERDUTA. PUNTO E A CAPO: ASOR ROSA, "FORSE L’UNICO AL MONDO CHE HA LETTO TUTTO MARX E TUTTO DANTE", CERCA DI CAPIRE "CHE FARE OGGI". Una lettura del "grande silenzio" di Ida Dominijanni - a cura di Federico La Sala

sabato 10 ottobre 2009 di Federico La Sala
[...] In fondo, quello che Asor si propone con la sua diagnosi dell’estinzione dell’intellettuale novecentesco è l’elaborazione di un lutto: l’ennesima a sinistra, potremmo chiosare malinconicamente, se non fosse che per una volta qui non è la tonalità malinconica né quella nostalgica a prevalere, e l’intenzione non è di crogiolarsi nella perdita ma di mettere un punto a capo per ripartire. Sapendo però che alle spalle non c’è un usato da liquidare ai saldi, ma un grande patrimonio di cui (...)

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> GLI INTELLETTUALI E L’IDENTITA’ PERDUTA. PUNTO E A CAPO --- ASOR ROSA E LA COM-PASSIONE (di Michele Feo).

lunedì 26 dicembre 2022

ASOR ROSA E LA COM-PASSIONE

di Michele Feo *

Non ho tutte le mie carte in ordine. Ma la cartella di ritagli di giornali riservata ad Asor Rosa conta 200 pezzi, a non dire che certamente molti altri non sono ancora andati a posto. Ieri tutti i quotidiani nazionali dedicavano un articolo ad Asor Rosa, ma solo «il Manifesto» lo sbatteva in prima pagina, come si conviene ai mostri. Gli altri lo respingevano nelle pagine culturali, che inesorabilmente sono andate negli anni a nascondersi verso la fine del giornale, in modo che il buon lettore costumato, divenuto stanco per tanto girar di pagine sportive, politiche e pubblicitarie, senta sopraggiunta l’ora del riposo e così per ragioni igieniche, non per altro, chiuda la partita con la cultura.

Le reazioni sono state, come era da attendersi, diverse e contrastanti. Ma hanno tutte dimostrato che Alberto è stato un pezzo importante della storia di tutti noi. Molti hanno ricordato con orgoglio e commozione i rapporti personali tenuti col morto. I toscani non hanno dimenticato le battaglie in difesa dell’ambiente della Val d’Orcia (dove Alberto aveva una casa) contro la speculazione edilizia. Un pizzico di acido hanno spruzzato a destra quando qualcuno ha inventato per lui la definizione di ’barone rosso’ della critica (dimostrando di aver assimilato la bonomia conciliaristica di Snoopy). Era d’obbligo ricordare i suoi tanti libri, la sua militanza nel PCI e la sua uscita spontanea dal Parlamento per potersi dedicare interamente allo studio e all’insegnamento (aggiungiamo alle polemiche giornalistiche). Sono state rievocate la sua eleganza, la sua facondia e la sua arguzia micidiale. «Scrittori e popolo», il suo primo giovanile e combattivo (anche donchisciottesco) libro è tornato a dominare la scena e la ricostruzione del percorso di una vita.

Alberto è stato il primo dissacratore della mitologia populistica del dopoguerra. Ha esagerato e fin dall’inizio furono molti i dissenzienti. Dispacque ai comunisti fideistici ed eroici del proletariato urbano, ai braccianti, a parti del ceto dirigente, a molti intellettuali la spregiudicatezza con cui si liquidavano le compromissioni del movimento operaio con le tradizioni, i riti, le politiche e le ideologie borghesi e piccolo-borghesi, la religione e la fede parrocchiale, il romanticismo provinciale degli uomini e delle donne semplici di una eredità pascoliana, la strenua fede pasoliniana nel riscatto evangelico del sottoproletariato, nella convinzione che dentro le zolle della terra si annidasse un nuovo e antichissimo verbo di pace, di sesso, di sangue e di felicità poetica. Addolorò molti che nella condanna del populismo fosse coinvolta non solo una classe di borghesi convertiti per convinzione o opportunismo, ma persino Gramsci, il puro dei compagni.

Asor Rosa non si scompose e rincarò la dose, rifiutando l’arte povera o dei pοveri e le preferì quella alto-borghese dei Thomas Mann. La rivoluzione non doveva essere una festa di nozze coi fichi secchi. Alcuni classicisti gli rimproverarono una conoscenza sommaria dell’antichità e della sua eredità, una sorta di conoscenza del presente senza le fondamenta del pensiero greco-romano. Chi scrive si sentì estraneo all’idea della centralità della classe operaia, e ritenne di stare nella massa del popolo di Pellizza di Volpedo che avanza, ma in cuor suo pensava che alla giacca rivoltata sulle spalle una volta si sarebbe sostituita la marra del villano ridotto a bestia dall’alleanza di guerrieri, sacerdoti e anche una parte dei produttori.

Asor Rosa ha percorso tutte le strade impervie della politica italiana, le battaglie contro un ceto accademico mummificato, i conati neo-fascisti, l’adesione al nuovo vento berlingueriano, il terrorismo, senza mai perdere il senso della critica, il distacco, la crudeltà dell’analisi impietosa della sua stessa parte, il rifiuto della guerra per qualunque fine, il rifiuto stesso della politica per amore del mestiere che solum sentì veramente suo, quello del professore e dell’amante della parola scritta.

Alberto nacque da un padre ferroviere, e, come ha osservato Remo Ceserani, non pochi sono stati gli uomini di sinistra figli di ferrovieri, cioè di uomini costruttori di strade ferrate, ogni giorno a contatto con treni merci e treni viaggiatori, a scansare città viaggianti restando fermi a terra su una massicciata di pietre a sognare che su quei treni potessero un giorno correre la corsa libera della vita i loro figli. Asor Rosa veniva da quel mondo di marginali, ma era nato a Roma, e il caso gli aveva dato dunque il desiderio di riempire il vuoto d’origine e la prospettiva giusta di una città che sapeva di essere stata il centro dell’universo.

Quando «Scrittori e popolo» uscì Sebastiano Timpanaro, un socialista e materialista integerrimo, filologo sovrano, figlio di una poetessa storica della scienza e di un fisico, in una famiglia di gentiliani di sinistra, in una casa stracolma di libri, stava licenziando il suo «Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano». Nell’introduzione sentì il bisogno di chiarire: «Per quel che riguarda la specifica forma di populismo che è propria del movimento romantico dell’Ottocento, parecchie mie osservazioni coincidono con osservazioni di Asor Rosa; così pure sono sostanzialmente d’accordo con la battaglia che Asor Rosa conduce contro il mediocre populismo della nostra attuale letteratura e contro la politica culturale che lo ha incoraggiato. Ma inaccettabili mi sembrano sia l’estensione del concetto di populismo a tutto ciò che nell’Ottocento è giacobino, democratico-rivoluzionario, comunista-agrario (il che porta, fra l’altro, al fraintendimento del pensiero di Carlo Pisacane), sia la liquidazione sommaria dell’interpretazione gramsciana del Risorgimento; soprattutto credo che una discussione seria di tale interpretazione debba far centro non sul Gioberti; ma sul De Sanctis, che nel libro di Asor Rosa è quasi del tutto assente».

Eppure qualcuno ha definito Asor Rosa il nuovo De Sanctis, non del tutto a torto. Quanto a Timpanaro, il suo leninismo rigoroso, di quel Lenin che era giunto a definire un rinnegato il Kautsky, che se avesse prevalso su Lenin avrebbe salvato la rivoluzione russa dalla guerra contro i contadini poveri e dalla distruzione della campagna, dallo stalinismo e dalla sua stessa miserabile fine per le mani di boiardi macchinette ideologiche senza anima, Timpanaro, venerato senza se e senza ma, impresse su di me una ferita segreta quando, pur apprezzando nel mio primo scritto scientifico la partecipazione alla dolorosa vicenda storica del contadino, volle rilevarne con crudezza i risvolti a suo dire moralistici, come se la condivisione politica della sofferenza degli ultimi non sia, oltre che un problema filosofico, una deontologia del cuore, una scelta morale, per quale val la pena di rifiutare vita stessa.

Non voglio né saprei fare l’enciclopedia di Asor Rosa, e non servirebbe a nessuno. La corona gliel’ha collocata in capo al momento giusto la collana dei Meridiani Mondadori, accogliendolo con tutti gli onori entro la sua valletta di principi della cultura. Io vorrei qui dire qualcosa di un poco diverso. Tacerò dei molti motivi e occasioni di incontro e di affetto, tutti senza scopo di lucro né mercantile né accademico.

Ho accennato alla sua estraneità alle discipline un tempo dette complementari, soprattutto la filologia. Ma col metodo del passo lento e sicuro dello scalatore approdò a un rispetto senza riserve per la filologia come scienza necessaria, praticata dai compagni di lavoro. E proverbiali sono la visione e la storia asorrosiana come un processo quasi chiliastico di avanzamento verso la società giusta e verso una reincarnazione del francescanesimo nel quale tutti hanno un solo paio di scarpe, una sola tunica, e non hanno case, forse nemmeno amano i loro simili e soprattutto non ridono mai.

-  Ebbene è alla fine del terribile libretto «Fuori dall’Occidente», che vuol dire basta con una civiltà fatta sul sangue, sul sopruso, sulla violenza, sul danaro e sul potere, è lì, al culmine della disperazione che si apre lo spiraglio di una luce che riscopre il verbo incarnato: «In fondo, all’inizio di tutta questa tragica storia, non c’è che un ‘uomo’ il quale ha accettato di lasciarsi mettere su di una croce per testimoniare una verità, una verità che soltanto lui sapeva ...».

-  È dall’esempio del Cristo sulla croce che può nascere la nuova umanità fondata su verità e giustizia. Questa rivoluzione o riforma dovrà nascere non fuori, ma in interiore homine. «È sempre stato così, sarà così anche questa volta. Si può uscire dall’Occidente, solo passando attraverso la propria anima». Qui Asor Rosa, l’uomo che fu per eccellenza il critico politico, esce dalla danza degli equivoci della politica. L’unico luogo dove entrare e uscire, dove restare e andare, è la nostra anima, e lì la libertà non può che essere insindacabile e assoluta. Questi valori assoluti e non trattabili sfociano in un’etica della solidarietà, o, come Alberto preferisce dire, della «com-passione».
-  Il figliolo dell’uomo da allora resta lì appeso, «ad onta di tutti gli sforzi di trasformarlo in un oggetto di culto». Sono mirabili le parole che chiudono questo libretto che - in questi ritornati tempi di guerra - farebbe bene leggere o rileggere: «Sarebbe ora che qualcuno lo staccasse di lì, per rimetterlo sulla sua terra e curargli le piaghe delle mani e dei piedi. Ciò di cui abbiamo bisogno è di questo semplice ’gesto umano’ - un gesto di gratificazione e insieme di risarcimento. Il giorno in cui fossimo in grado di ri-umanizzare il Cristo, avremmo cominciato finalmente a estinguere la storia dell’Occidente in quella del mondo e non viceversa».

* Fonte: Facebook, 24 dicembre 2012


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