Zagrebelsky: potere, stato e chiesa
L’ultimo libro del giurista affronta il rapporto fra politica e fede nel governo dell’uomo
La ricostruzione storica mostra quando si spezza l’alleanza tra trono e altare
Il saggio rivela l’esigenza di una riscoperta delle caratteristiche della laicità
Nelle democrazie moderne le due entità non possono venire sovrapposte e serve un pluralismo
di Carlo Galli (la Repubblica, 18.03.2010)
Merito del libro di Gustavo Zagrebelsky (Scambiarsi la veste. Stato e Chiesa al governo dell’uomo, edito da Laterza, pagg. 160, euro 16) è di afferrare il bandolo di quella complicata matassa che è il ritorno politico della religione - in cui si intrecciano la crisi dello Stato democratico, l’emergere di una diffusa indifferenza verso la religione, ma al tempo stesso anche la ricerca di un supplemento d’anima per una politica sempre più spezzettata, irrazionale, instabile - , e di ricostruire in una sintesi agile, informata, incisiva, la tormentata vicenda del dualismo occidentale fra potere e religione, misurando così le ragioni strutturali del problema.
Quel dualismo fra Stato e Chiesa nacque con l’affermazione - risalente a papa Gelasio, alla fine del V secolo - che la Chiesa, originariamente capace di politica (Cristo ha salvato l’umanità intera nel mondo, non i singoli uomini nel chiuso delle loro coscienze), è altra e superiore rispetto al potere politico mondano: nel disegno della Chiesa il dualismo serviva a creare una gerarchia, a proprio favore; il cristianesimo era la precondizione dell’esistenza politica - essere cristiano e essere cittadino erano la medesima cosa - , e quindi anche della legittimità dei poteri civili. La laicità, quindi, nasce nel mondo cristiano, ma indirettamente; non è una concessione della Chiesa né un esito immediato della religione, ma il risultato di una lotta di lungo periodo contro la pretesa di supremazia che la caratterizza da sempre.
Una pretesa che Zagrebelsky ripercorre nelle sue varie forme - la ierocrazia medievale, e la teoria moderna di Bellarmino della potestas indirecta, ossia l’offerta di sostegno ai re e la parallela affermazione che i cattolici possono essere chiamati dal papa a disobbedire ai loro governanti - . La modernità politica spezza proprio questa alleanza fra trono e altare, e la Chiesa entra in conflitto frontale con il mondo moderno e la sua politica: l’Ottocento è così segnato dal rifiuto del liberalismo e della libertà che questo offriva alla religione (libera Chiesa in libero Stato). Ma nonostante questo arroccamento politico e dottrinario la Chiesa si aprì verso la società, per mobilitare masse cattoliche tendenzialmente antistatali, e per non lasciarle al socialismo; alla fede ormai non più coincidente con la cittadinanza sostituì, con la Rerum Novarum di Leone XIII, la propria dottrina sociale quale centro di una strategia di riappropriazione della politica. La Chiesa inizia così a proporsi come indispensabile non solo per la salvezza ma anche per tenere unita la società che l’insipienza e l’ingiustizia dei laici compromette alle radici.
La conciliazione, brevissima, col Moderno è vista da Zagrebelsky nel Concilio Vaticano II, in cui la Chiesa si rivolge a tutti gli uomini di buona volontà, e chiede di potere servire l’umanità, di difenderne la dignità e i diritti alla luce dell’insegnamento evangelico; il pluralismo delle opinioni politiche e sociali è accettato, e ci si apre anche all’idea della libertà religiosa. Ma, nota Zagrebelsky, il problema sta nel mai allentato rapporto della Chiesa con la Verità: un rapporto che la rende un ospite assai ingombrante nella democrazia, che può facilmente apparire alla Chiesa come nichilismo e instabilità, e destinata alla dissoluzione, se non interviene la Chiesa stessa, come una teologia civile o politica, a sostenerla.
Nell’ormai matura crisi dello Stato moderno, ecco quindi, da Giovanni Paolo II in poi, lo scambio di veste fra Chiesa e Stato - entrambi in gara per governare razionalmente gli uomini - , a cui allude il titolo del libro. Non più ostile in linea di principio alla politica della ragione, la Chiesa con Benedetto XVI (il discorso di Ratisbona) pretende di incarnare in sé la ragione umana al suo grado più alto, di essere l’erede della filosofia greca (intellettualmente preferita alla radice ebraica) e della riflessione filosofica non corrotta (cioè non protestante, non individualistica, non razionalistica): di essere insomma veramente razionale (non razionalistica), veramente laica (non laicista), veramente politica, oltre che veramente salvifica. Verità e ragione si unificano, nella teologia politica cattolica, contro la "dittatura del relativismo", a riaffermare un protettorato cattolico sulla società, della quale la Chiesa rivendica di essere l’origine e la sintesi, sempre operante e vigilante: ancora una volta, extra Ecclesiam nulla salus, fuori dalla Chiesa non c’è salvezza.
Questa struttura pedagogica agisce in nome della Verità (come anche l’ultima enciclica mostra già nel titolo), e quindi potenzialmente relega nell’errore chi non è d’accordo (costringendolo a vivere, appena tollerato, in un mondo dai cui principi è escluso, o nei quali è assimilato); il papa chiede che tutti si comportino come se Dio esistesse, e fosse il fondamento della società. Dopo la stagione conciliare di "credere senza appartenere", oggi i religiosi e anche parecchi laici (gli "atei devoti") vogliono che la politica si svolga all’insegna di un appartenere senza credere, che trasforma la cittadinanza democratica in una sorta di comunità a sfondo confessionale.
Zagrebelsky con forza non settaria pone in evidenza la difficoltà del dialogo fra laici e cattolici, su queste basi; la religione di cui la democrazia ha bisogno accetta infatti il relativismo, il pluralismo, mirando all’unica verità che la democrazia riconosce, l’umanistica affermazione della libertà, dell’uguaglianza, della responsabilità e dell’autonomia. Insomma, la democrazia chiede che gli uomini si comportino politicamente come se Dio non esistesse, e che trovino in se stessi - e non in fondamenti autoritari - la forza di essere liberi e giusti. La democrazia non ha paura di essere priva di fondazioni metafisiche; questo vuoto, infatti, è la condizione stessa della sua missione, che consiste nel far fiorire le contingenze particolari, i progetti di vita degli uomini e delle donne, in uguale dignità e libertà.
Dobbiamo quindi essere grati a Zagrebelsky per la chiarezza e la serenità con cui mostra la distanza - il non possumus laico, speculare ai diktat della Chiesa su tanti aspetti della vita sociale e politica - fra l’attuale posizione della Chiesa e la democrazia. Una distanza - il vero volto del dualismo occidentale - che, mentre indica l’esigenza di una radicale riscoperta delle caratteristiche imprescindibili della laicità, enfatizza la non sovrapponibilità fra politica e fede, fra sfera mondana e sacro, e mette in tensione libertà e obbedienza, rifiutando vecchi e nuovi fondamentalismi.