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In principio, la Costituzione: la Legge dei nostri Padri e delle nostri Madri Costituenti. Per un riorientamento antropologico, e teologico-politico....

IL RISPETTO E LA DIGNITÀ DELLE DONNE E LE 21 "MADRI DELLA REPUBBLICA": LA VIA MAESTRA PER UN’ALTRA POLITICA. Un intervento di Gabriella Manelli, seguito da una nota di Federico La Sala

sarebbe interessante dipanare il filo intrecciato di passione e audacia che lega donne e partigiani. Una cosa è certa: numerose furono le donne che, mentre combattevano insieme ai partigiani per i diritti di tutti, intrapresero il loro cammino di crescita personale e politica.
sabato 12 febbraio 2011 di Federico La Sala
[...] «Solo osando, la politica riesce a fare storia»: è Machiavelli, citato da Romitelli, sempre a proposito di partigiani. La stessa cosa si può dire delle donne, ieri e oggi: se vorranno tornare a incidere sulla storia, come è avvenuto negli anni 60-70 del secolo scorso, non potranno che affrontare in modo inedito, sperimentale, quanto di irrisolto, di incognito vi è oggi nei rapporti fra governanti e governati. Con passione e audacia [...]
DEMOCRAZIA: ABBI IL CORAGGIO DI PRENDERE LA (...)

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> IL RISPETTO E LA DIGNITA’ DELLE DONNE E LE 21 "MADRI DELLA REPUBBLICA" --- Sebben che siamo donne il voto ce l’abbiamo. Il 10 marzo 1946 le italiane alle urne per la prima volta. E furono più numerose dei maschi.

mercoledì 2 marzo 2016

Sebben che siamo donne il voto ce l’abbiamo

Fra timori e diffidenze bipartisan dei partiti, ansie e tremori delle interessate, il 10 marzo 1946 le italiane andarono alle urne per la prima volta. E furono più numerose dei maschi

di Mirella Serri (La Stampa, 02.03.2016)

Meglio evitare il rossetto quando si va a votare. La scheda va incollata. Uno sbaffo vermiglio può essere fatale. Fioccano sulla stampa nazionale gli avvertimenti su come le donne si devono comportare. Senza distinzione di censo o di cultura, signore e signorine, operaie e intellettuali sono attanagliate dall’ansia: la comunista Clelia confessa «mi tremavano le mani, le gambe, le braccia», mentre la scrittrice Maria Bellonci ricorda di aver avuto «voglia di fuggire quando mi trovai in quella cabina di legno antico con in mano il lapis e la scheda», e la romanziera Anna Banti era ossessionata dal terrore di rendere nullo quel passo.

Non c’è da stupirsi: le italiane, in cinque turni dal 10 marzo al 7 aprile 1946, si trovarono di fronte al battesimo del voto, ovvero andarono a deporre per la prima volta la scheda nell’urna. Si trattava di elezioni amministrative. Preoccupazioni analoghe si ripresenteranno il 2 giugno dello stesso anno per la designazione dei membri dell’Assemblea Costituente e la fondamentale scelta tra Monarchia e Repubblica.

Nonostante i diffusissimi timori femminili, però, a inciampare sulla scena politica non furono le neo votanti, ma proprio i rappresentanti dei partiti di massa che si contendevano le loro preferenze, Palmiro Togliatti e Alcide De Gasperi. I due leader del Pci e della Dc, nel decreto n. 23 del febbraio 1945, estesero il suffragio alle italiane che avessero almeno 21 anni. Esclusero le prostitute schedate, quelle che lavoravano al di fuori delle case chiuse dove era concesso di esercitare la professione. Però, mentre riconoscevano quell’ambito diritto alle donne, dimenticarono la loro eleggibilità. Proprio così. Le donne potevano essere solo elettrici ma non elette. E questa svista verrà corretta solo nella primavera del 1946.

Il lamento di Togliatti

Oggi che festeggiamo i 70 anni da quello storico avvenimento che ci rese cittadine a pieno titolo, è lecito dunque porsi la domanda: fu una distrazione intenzionale e voluta oppure si trattava una specie di lapsus freudiano su un voto femminile che preoccupava e intimoriva le forze politiche che pure lo sostenevano? Adesso, dopo anni di studi e di dibattiti (da Anna Rossi Doria, autrice di una delle prime ricerche, al volume di Giulia Galeotti), si può sostenere la seconda ipotesi: il voto alle donne fu concesso quasi alla chetichella, al termine di un affaticato Consiglio dei ministri che aveva esaminato a lungo i collocamenti a riposo dei funzionari epurati. Non vi fu né una discussione né alcuna eco delle animate battaglie sostenute prima e dopo la Grande guerra e durate fino al momento in cui, nel 1925, tra berci, lazzi e rumori molesti (così registra il verbale di quella storica seduta parlamentare), Mussolini eliminò definitivamente ogni speranza di suffragio esteso al gentil sesso («le donne sono sufficienti per un’ora di spasso ma non adatte a un calmo ed equilibrato lavoro»).

Due settimane prima del decreto il liberale Manlio Lupinacci, con una specie di voce dal sen fuggita, dava corpo ai timori maschili: «Ho una certa diffidenza istintiva, tradizionale verso la partecipazione della donna alla vita politica. È questa l’unica vera base di ogni opposizione di noi uomini». Poi però dichiarava di voler battere la strada della ragione. La quale comunque appariva ricca di trappole. «Le donne pencolano verso il passato reazionario», si lamentava Togliatti, e pure la leader comunista Teresa Noce concordava. Il Migliore temeva di turbare l’elettorato persino con la commistione dei sessi: propendeva per liste divise tra uomini e donne nelle circoscrizioni. Per fortuna non se ne fece niente.

Le paure della Dc

Analoghe visioni agitavano i democristiani, i quali presentivano un vantaggio della destra conservatrice portato dalla scheda femminile. Per di più il voto alle donne veniva spesso associato allo spauracchio del divorzio, tanto che il comunista Concetto Marchesi sostenne che era prematuro pure parlarne, considerato il basso reddito delle famiglie. Nemmeno le partigiane si accesero di entusiasmo per l’agognata scheda: votare per le donne «è una cosa normale, naturale», sottolineò Ada Gobetti e anche la piemontese Marisa Ombra riscontrò dentro di sé «una flebile reazione», come qualcosa di dovuto. Tutti poi presagivano l’assenteismo femminile. Era opinione comune che le massaie italiane, nelle domeniche stabilite per legge, più che di recarsi alle cabine elettorali fossero desiderose di attardarsi ai fornelli.

Si realizzarono queste paure condivise da azionisti, esponenti dello Scudo crociato, della Falce e martello e pure dai seguaci di Benedetto Croce? No, la partecipazione femminile diede uno schiaffo alla politica e fu altissima, anzi molto più alta che negli altri paesi europei: le votanti furono l’89 per cento delle aventi diritto, ovvero il 52,2 per cento dell’elettorato.

L’astensionismo femminile fu inferiore a quello maschile, sempre al contrario di quel che avvenne in altri paesi del Vecchio Continente. Le donne, poi, andarono alle urne più nei paesi piccoli che nelle grandi città, in numero maggiore dei votanti maschi del Sud, e assicurarono la loro presenza più alle elezioni politiche del 2 giugno che non alle amministrative. Cancellando il pregiudizio di avere più a cuore gli interessi di casa e bottega che non quelli del Paese.

Un successo inatteso

E le neoelette? Le candidate furono poche, dal momento che i partiti faticavano ad accettare la presenza femminile - la Dc, per esempio, aveva inserito un solo nome in ogni circoscrizione - e per giunta molte liste delle elezioni amministrative erano state preparate prima che fosse riconosciuta l’eleggibilità delle donne. Però la truppa rosa fu più consistente del previsto e nella primavera del 1946 entrarono nei consigli comunali oltre duemila donne, mentre le rappresentanti del gentil sesso alla Costituente furono 21 su 558 componenti, pari al 3,7 per cento dei deputati (9 per la Dc, 9 per il Pci, 2 per il Psiup e 1 per l’Uomo Qualunque). Paradossalmente la presenza femminile andò diminuendo nelle successive elezioni (una tendenza che si riscontrò, per esempio, anche nei consigli comunali piemontesi, dove le 64 elette del 1946 scesero a 47 cinque anni dopo).

Questi incredibili e inaspettati successi aprirono la strada a una nuova considerazione femminile? Teresa Mattei, designata all’Assemblea Costituente, fu assai festeggiata. I suoi meriti? «Era la più giovane, venticinquenne, aveva molti bei riccioli bruni e due occhi vivi». Altro che ingresso da cittadine nella sfera pubblica! Il voto sembrerà per anni un regalo immeritato. Però le italiane imparano dalla loro stessa storia. Il 10 marzo 1946 sanano il lapsus originario andando in massa a eleggere i loro beniamini/e e iniziano un lungo e, bisogna dirlo, per tanti versi fortunato viaggio: nelle istituzioni, nella mentalità, nel costume, nel mondo del lavoro, sempre per mettere una pezza a quella significativa distrazione.


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