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LA SINDONE DI TORINO. Archeologia e Filologia ...

E’ GESU’ NAZARENO: SULLA SINDONE C’E’ LA FIRMA DEL FUNZIONARIO ADDETTO ALLA SEPOLTURA. L’ IPOTESI DI BARBARA FRALE E I DUBBI DI LUCIANO CANFORA E ALTRI STUDIOSI. Un articolo di Michele Smargiassi e uno di Lorenzo Fazzini - a cura di Federico La Sala

domenica 22 novembre 2009
[...] «In base ai confronti svolti, oggi sono convinta che le tracce di scrittura identificate sul lino della Sindone possano appartenere ad un testo derivato direttamente o indirettamente dai documenti originati fatti produrre per la sepoltura di Yeshua ben Yosef Nazarani, più noto come Gesù di Nazareth detto il Cristo». È questo il sasso lanciato nello stagno della scienza della Sindone, il celebre (e discusso) sudario di Cristo conservato a Torino, da una storica di recente balzata agli (...)

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> E’ GESU’ NAZARENO: SULLA SINDONE .... Kafka: «Chi crede non vedrà mai un miracolo. Di giorno non si vedono le stelle» (di Piero Stefani - La Parola e la Sindone)..

mercoledì 5 maggio 2010

La Parola e la Sindone

di Piero Stefani (Koinonia-forum, n. 203 del 4 maggio 2010)

Fa parte del nostro destino di eredi della moderna cultura occidentale aver introiettato un approccio storico ai testi antichi (siano o non siano sacri). Nella post-modernità si è colto il limite di questa impostazione critica senza tuttavia ritrovare l’innocenza di un commento capace di leggere le parole arcaiche a prescindere dalle circostanze in cui furono dette o scritte. Non per nulla, il nostro tempo culturale è indicato con un venir dopo («post») che dichiara la propria implicita incapacità di ignorare quanto lo precede.

Ciò vale anche quando ci si trova di fronte alla pagina biblica. Per il credente, e solo per lui, si apre una specie di alternativa in virtù della quale ci si chiede se sia la «parola eterna» a risuonare come storica o se sia quest’ultima a trasmettere risonanze dell’Eterno. Se prevale la seconda ipotesi il senso della presenza di Dio si scopre unicamente attraverso l’atto dell’interpretazione.

La rivelazione sta non nella Scrittura presa in se stessa ma nel modo di porsi di fronte a essa accogliendola come parola che ci interpella pur provenendo da un tempo che non è più il nostro. In questo caso la dimensione del circolo ermeneutico può dirsi nei seguenti termini: ci si inchina davanti a un testo perché è sacro, mentre esso diviene tale anche in virtù del fatto che ci si inchina di fronte a lui.

Nell’interpretazione la pagina eccede la temporalità che l’ha originata non a motivo della sua astoricità, bensì a causa di una paragonabilità di circostanze in cui la distanza storica è mantenuta e negata a un tempo. La situazione di partenza è «loro» e non «nostra»; soltanto il modo di intendere la Parola, venerandola, la rende anche e soprattutto nostra.

È proprio di una fede adulta essere interpellati da una Parola che si sa storicamente distante. Se il punto di partenza fosse costituito da avvenimenti, la lontananza sarebbe incolmabile. In realtà, noi lettori siamo messi di fronte non a dei fatti ma ai modi in cui essi vennero vissuti e interpretati ed è stato proprio lo sforzo volto a dare a essi un determinato senso che rende la Parola attestazione di un significato eccedente offerto al suo attuale lettore. Se la Bibbia fosse cronaca, descrizione letterale e fedelissima di quanto è avvenuto non sarebbe parola di Dio.

Se è questo il modo autentico di leggere nella fede la Parola è facile comprendere perché chi accetta su di sé il primato della Bibbia sia per lo più distante dalla maniera corrente di intendere i miracoli e la venerazione delle reliquie. Né è occasionale notare l’incompatibilità, su questo terreno, tra la tradizione cattolica e il mondo della Riforma. Le norme di canonizzazione che (salvo nel caso dei martiri) richiedono di provare che siano effettivamente avvenuti dei miracoli sono penose. Esse infatti fanno dipendere l’accertamento di questi eventi dalla mancanza di spiegazioni di ordine scientifico. Spesso si cade perciò nell’assurdo che, almeno in una certa misura, a determinare la canonizzazione sia l’incapacità dei medici di trovare una qualche spiegazione a un fenomeno. Se Dio entrasse in quest’ambito sarebbe, per definizione, consegnato alla funzione di tappabuchi.

Si possono venerare le reliquie? Forse sì, a motivo della simbologia, a volte molto alta, che trasmettono. Tuttavia questa possibilità è data in modo autentico soltanto quando si riesce a prescindere dal problema della loro autenticità. Se invece esso irrompe in modo prepotente il discorso si avvita su se stesso: negatori e sostenitori si trovano schierati su sponde opposte solo perché collocati sullo stesso terreno. Entrambi, per stabilire il vero e il falso, dipendono, volenti o nolenti, dalle scienze storiche o da quelle della natura. Essi perciò, per sostenere la loro tesi, tendono ad assolutizzare quanto è relativo e questa operazione si riflette, per forza di cose, nella sopravvalutazione dell’oggetto a cui si riferisce la loro venerazione o la loro confutazione. Solo se fosse possibile prescindere da ogni discorso circa la sua autenticità o la sua falsità avrebbe senso andare a Torino per vedere la Sindone. C’è da dubitare che ci si trovi in queste condizioni.

Resta in ogni caso certezza di fede che leggere e meditare la narrazione della morte di Gesù secondo i quattro evangeli costituisca l’accesso più autentico per cogliere il senso della morte di Gesù. Nel credere, l’ascoltare prevale sempre sul vedere. Scrisse Kafka: «Chi crede non vedrà mai un miracolo. Di giorno non si vedono le stelle».


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