I miei figli all’estero con il cuore italiano
di Umberto Veronesi (la Repubblica, 03.12.2009)
Ciò che non è emerso nel dibattito dopo la bella lettera a questo giornale di Pier Luigi Celli è che questo Paese si è trasformato. Il confine, sia geografico sia culturale, per le nuove generazioni non è una barriera, una linea oltre la quale c’è il diverso. La loro realtà è il villaggio globale.
In poche ore e con costi abbordabili si spostano da uno Stato all’altro, o da un continente all’altro; tramite Internet comunicano in tempo reale con il mondo, scambiando parole e immagini. Che senso può avere per loro il concetto del «restare in patria»?
E dove, varcata la fatidica frontiera, troverebbero un Nuovo Mondo? Io penso che sia bene che i ragazzi vadano all’estero, almeno per un periodo della loro vita - e che gli stranieri vengano da noi - e credo sarebbe antistorico rinchiudersi in forme di neonazionalismo. Certo, la tentazione dell’emigrazione delle intelligenze è forte, c’è una verità importante nell’invito amaro di Celli - "Figlio mio, lascia questo paese" - , e bisogna prendere atto delle sue motivazioni.
È innegabile che viviamo un momento di confusione e di instabilità politica, e di incertezza circa i valori etici ereditati dall’Illuminismo. Io per primo ho espresso molte volte, da anni, anche dalle pagine di questo giornale, la mia amarezza, spesso la mia indignazione, nel denunciare la mancanza di una visione del futuro, di una valorizzazione della creatività, e della capacità dell’innovazione, di una cultura della scienza, in sostanza, e di una strategia della ricerca scientifica in grado di rilanciare l’Italia.
Ma l’amarezza non è una ragione sufficiente per incoraggiare l’abbandono dell’Italia come entità culturale. Sarebbe una emigrazione capovolta che ci svuoterebbe: un secolo fa era l’emigrazione di chi non aveva mezzi, oggi sarebbe di chi ne ha di più. Conosco il problema da vicino: ho sette figli di cui uno è a Chicago, un altro a Berlino e un terzo è in partenza per New York. Con ognuno ho discusso a lungo il dove e il come del loro futuro, ma non ho mai incoraggiato nessuno ad andarsene, né a restare.
Devo dire, però, che chi è rimasto qui non è stato penalizzato nella propria carriera professionale. È legittimo andare alla ricerca del luogo in cui meglio esprimere le proprie potenzialità, ma è doveroso considerare anche la situazione generale del Paese dove si va ad esprimerle.
Andare all’estero, ma dove? L’oriente e i Paesi emergenti non sono un’alternativa realistica. Il mito degli Stati Uniti appartiene, appunto, al secolo scorso. Oggi negli Usa la scuola è sicuramente più evoluta e moderna; ma l’assistenza sanitaria è pessima, la criminalità è altissima e la sicurezza individuale e famigliare nelle grandi città è un valore quasi da dimenticare. Non si può ignorare che l’Italia ha invece il livello di omicidi fra più bassi del mondo, un sistema sanitario nazionale fra i migliori a livello internazionale, un tasso di mortalità neonatale bassissimo e un livello di povertà e analfabetismo accettabile. Certamente in Europa ci sono paesi che appaiono più avanzati dal punto di vista civile, come l’Olanda; oppure che attraggono per una cultura più critica e libera da schemi, come la Gran Bretagna. Eppure nessuno di questi appare davvero come ideale.
La verità è che oggi gli stessi problemi si pongono in tutte le regioni del mondo. Il conformismo è imperante, la mediocrità è la regola e l’arte del compromesso, che scade spesso nella meschinità, non è un male solo italiano. È vero che in una cultura tendenzialmente conservatrice (con sconfinamenti nell’oscurantismo) come la nostra, il talento e il merito, di natura «rivoluzionari» fanno più fatica ad emergere.
Questa cultura, per quanto tradizionalista, ha però dei lati positivi. Primo, la libertà di pensiero è tuttora inviolata. Ci sono a volte attacchi indiretti all’espressione di pensiero, ma nella sostanza il diritto fondamentale della nostra Costituzione è stato fino ad ora rispettato. Secondo, l’intolleranza, che è madre dei conflitti sociali e della violenza, è un fenomeno marginale. Terzo, la solidarietà e il senso di giustizia sociale esiste ed è fattore di coesione per molti giovani. I ragazzi italiani impegnati nelle grandi missioni umanitarie in tutto il mondo sono numerosissimi. C’è un «fondo collettivo» di forti valori nei giovani di oggi che possiamo sviluppare anche qui. Anzi dobbiamo.
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