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I SEGNI DEI TEMPI. L’ECONOMIA DELLA SALVEZZA ("Deus charitas est": 1 Gv., 4.8) E L’ECONOMIA DELLA RICCHEZZA, DI "MAMMONA" E "MAMMASANTISSIMA" ("Deus caritas est": Benedetto XVI, 2006): UNA TENSIONE SPEZZATA ...

"IL TEMPO CHE RESTA": UNA DOMANDA DI GIORGIO AGAMBEN A UNA CHIESA PERSA NEL TEMPO. Un discorso pronunciato presso la cattedrale di Notre-Dame a Parigi l’8.3.2009 - a cura di Federico La Sala

CHIESA E SECOLARIZZAZIONE. (...) si deciderà la Chiesa a cogliere la sua occasione storica e a riprendere la sua vocazione messianica?
domenica 27 dicembre 2009 di Federico La Sala
[...] mano a mano che la percezione dell’economia della salvezza nel tempo storico si appanna nella Chiesa, si vede l’economia stendere il proprio dominio cieco e derisorio su tutti gli aspetti della vita sociale. Allo stesso tempo, l’esigenza escatologica che la Chiesa ha trascurato ritorna sotto una forma secolarizzata e parodistica nei saperi profani, che sembrano fare a gara per profetizzare in tutti i campi delle catastrofi irreversibili. Lo stato di crisi e d’emergenza permanente che (...)

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> "IL TEMPO CHE RESTA" ---- Viviamo in una guerra civile globale. Un’analisi di Giorgio Agamben (di Donatella Di Cesare)

lunedì 23 febbraio 2015

Viviamo in una guerra civile globale

Un’analisi di Giorgio Agamben che prende le mosse dall’antichità ed evoca le riflessioni di Carl Schmitt e di Thomas Hobbes

I nuovi conflitti hanno perso ogni legame con un territorio. Il terrore avanza, come le lotte fratricide nella polis greca

L’interrogativo. Se la politica è abitata sempre dalla guerra, che si presenta quale fenomeno ricorrente, come si può riuscire a pensare la pace?

La minaccia inedita. Si affaccia sulla scena una figura di combattente irregolare con il quale la radicalizzazione dello scontro non ha più limiti

di Donatella Di Cesare (Corriere della Sera - La Lettura, 22.02.2015)

Che guerra è quella che si combatte in Libia? In Siria? In Ucraina? E nelle numerose aree di conflitto del mondo? Sebbene in alcuni casi gli Stati nazionali svolgano ancora un ruolo di rilievo, appare chiaro che la guerra coinvolge direttamente la popolazione civile. Questo vuol dire che civili sono non soltanto le vittime inermi, ma anche i combattenti. Basti pensare ai miliziani jihadisti, ai peshmerga curdi, agli indipendentisti filo-russi.

La guerra civile sembra essersi diffusa ovunque negli ultimi anni, persino entro i confini europei. Il che conferma una delle grandi intuizioni di Carl Schmitt, formulata in un testo pubblicato a Berlino all’inizio degli anni Sessanta e intitolato Teoria del partigiano (Adelphi). L’autore parla di un nuovo ordine mondiale in cui viene meno il reciproco riconoscimento fra gli Stati sovrani e perciò la guerra non è più né circoscritta né regolamentata. Il nuovo «nomos della terra», la nuova politica dello spazio, deve considerare questo mutamento epocale. Il duello fra gli Stati viene sostituito dalla guerra senza limiti e senza regole, una guerra che criminalizza il nemico fino a volerne l’annientamento. Nella figura del «partigiano», il combattente irregolare, Schmitt vede emergere questo mutamento. Con le sue rappresaglie, il ricorso a ogni mezzo per sopperire alla sua inferiorità militare, il partigiano piega l’esercito regolare alle proprie modalità belliche; così radicalizza la contrapposizione amico-nemico. Per Schmitt non vi è alcun dubbio: guerra e nemico sono due concetti che si sono trasformati, assumendo tratti estremi. Dopo le due grandi guerre mondiali l’«ostilità assoluta» è destinata a divenire fenomeno planetario.

Quel che ha inciso profondamente sulla guerra, sul suo carattere e sulle sue forme, è la tecnica. L’apocalisse nucleare è lo sfondo minaccioso delle tante guerre, ammantate di delega, e dissimulate con la procura, che si combattono nell’intento paradossale di prevenire all’infinito la catastrofe. Ma la tecnica ha modificato anche condizioni e modi dell’intervento militare. Si può combattere a distanza, e colpire su scala globale, senza neppure venire in contatto con il nemico. Il drone è oggi il simbolo del nuovo high tech che ha inaugurato la guerra senza volto.

Che ne è allora del partigiano di Schmitt? La tecnica ne recide il legame con la terra, ma non ne cancella la figura: il partigiano autentico, una volta sradicato, diventa il combattente che può operare ovunque e la cui irregolarità, prima mitigata dalla difesa del proprio territorio, diventa aggressività senza fine. Schmitt non poteva sapere del terrorista. Eppure intuì quel che sarebbe avvenuto di lì a poco: mentre si legittimava, anche giuridicamente, il partigiano, si affacciava sulla scena della storia un’altra figura di combattente irregolare, il terrorista, con il quale la radicalizzazione dello scontro sarebbe giunta a una guerra senza limiti.

Non si esagera dicendo che la globalizzazione è il mondo in guerra. Nell’epoca del terrore la guerra si diffonde; non ha più frontiere. Gli eventi bellici si moltiplicano, realizzandosi in spazi e tempi differenti.

Ogni conflitto potrebbe dar luogo a una deflagrazione cosmica, perché si accende nel disordine planetario che non lo contiene, ma piuttosto lo asseconda. La guerra globale fa saltare i confini fra militare e civile, esterno e interno, criminale e nemico. Al punto che, sotto il profilo concettuale, diventa difficile distinguere persino tra guerra e terrorismo.

Stasis. La guerra civile come paradigma politico (Bollati Boringhieri) è il titolo del libro di Giorgio Agamben uscito in questi giorni. Il volume, che fa parte dell’opera complessiva Homo sacer (II, 2), contiene i testi di due seminari tenuti all’Università di Princeton. Che cos’è la guerra civile? Per rispondere a questa domanda, Agamben risale per un verso al pensiero greco, per l’altro alla riflessione di Thomas Hobbes.

Le guerre degli ultimi anni, che non sono più conflitti internazionali, hanno indotto molti studiosi a parlare di internal wars o di uncivil wars - guerre interne o «incivili». Perché sembrano dirette non alla trasformazione del sistema politico, ma solo a rendere più acuto e esteso il disordine. Mentre si è affermata l’esigenza di gestire i conflitti, è stata trascurata la questione della guerra civile.

Non si può dire che i filosofi non abbiano mai riflettuto su questo tema. Tuttavia manca una dottrina della guerra civile. Il che è tanto più eclatante di fronte al diffondersi della «guerra civile mondiale» - un’espressione usata sia da Schmitt sia da Hannah Arendt. Proprio Arendt, che distingue la rivoluzione dalla stasis, cioè dalla «discordia civile che tormentò la polis greca», nel suo libro Sulla rivoluzione (Einaudi) ha contribuito a mettere in ombra la guerra civile.

La stasis, nella Grecia classica, ha un suo luogo preciso: si situa tra la famiglia e la città, fra l’oikos e la polis. La «guerra familiare» - come la chiama Platone - investe tragicamente la città; non viene dall’esterno, ma nasce dai legami di parentela. Questo vuol dire che l’ordine politico della città è costantemente minacciato dall’interno, dalla discordia tra fratelli, dalla «guerra in casa».

Agamben, però, non accetta di vedere nella guerra civile un semplice segreto di famiglia. Altrimenti non sarebbe un paradigma politico. Ecco perché la sposta, ne fa la soglia tra la famiglia e la città. Quando la discordia si scatena, il fratello uccide il fratello come se fosse un nemico. La guerra civile non permette più di distinguere l’intimo e l’estraneo, il dentro e il fuori, la casa e la città, la parentela di sangue e la cittadinanza. In tal modo «il legame politico si trasferisce all’interno della casa nella stessa misura in cui il vincolo familiare si estranea in fazione». La stasis non è allora guerra in famiglia. Piuttosto funziona «in modo simile allo stato di eccezione», lo stato, cioè, in cui il diritto è sospeso. Così Agamben salvaguarda la irregolarità della guerra civile.

Ciò appare chiaro anche nella lettura dei testi di Hobbes, in particolare del Leviatano. Che cos’è un popolo? A questa domanda, molto dibattuta nella filosofia contemporanea, Agamben risponde con Hobbes: una volta unito nel sovrano, o nell’assemblea democratica, il popolo resta infatti moltitudine. Non è la moltitudine disunita, che precede il patto, ma è piuttosto la «moltitudine dissolta» dal cui interno può scaturire il conflitto. Sta qui la minaccia della guerra civile, che è quindi sempre possibile.

Per Agamben la forma che la guerra civile ha assunto oggi è il terrorismo. Proprio quando la città prende le sembianze rassicuranti della famiglia, la «casa Europa» o «il mondo come assoluto spazio della gestione economica globale», la guerra civile diventa il paradigma di ogni conflitto e assume la figura del terrore.

Molti sono gli interrogativi che restano aperti. Pur se accomunate dalla violenza planetaria, come differiscono le varie forme di terrorismo globale? Esiste una peculiare teologia politica della guerra civile che - come ha suggerito lo storico Dan Diner - influisce sull’islam radicale? E se la politica è abitata sempre dalla guerra, che si presenta come un fenomeno ricorrente, come può essere pensata in modo non ingenuo la pace?


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