Inviare un messaggio

In risposta a:
I SEGNI DEI TEMPI. L’ECONOMIA DELLA SALVEZZA ("Deus charitas est": 1 Gv., 4.8) E L’ECONOMIA DELLA RICCHEZZA, DI "MAMMONA" E "MAMMASANTISSIMA" ("Deus caritas est": Benedetto XVI, 2006): UNA TENSIONE SPEZZATA ...

"IL TEMPO CHE RESTA": UNA DOMANDA DI GIORGIO AGAMBEN A UNA CHIESA PERSA NEL TEMPO. Un discorso pronunciato presso la cattedrale di Notre-Dame a Parigi l’8.3.2009 - a cura di Federico La Sala

CHIESA E SECOLARIZZAZIONE. (...) si deciderà la Chiesa a cogliere la sua occasione storica e a riprendere la sua vocazione messianica?
domenica 27 dicembre 2009 di Federico La Sala
[...] mano a mano che la percezione dell’economia della salvezza nel tempo storico si appanna nella Chiesa, si vede l’economia stendere il proprio dominio cieco e derisorio su tutti gli aspetti della vita sociale. Allo stesso tempo, l’esigenza escatologica che la Chiesa ha trascurato ritorna sotto una forma secolarizzata e parodistica nei saperi profani, che sembrano fare a gara per profetizzare in tutti i campi delle catastrofi irreversibili. Lo stato di crisi e d’emergenza permanente che (...)

In risposta a:

> "IL TEMPO CHE RESTA" ---- NEGARE A HITLER LA VITTORIA POSTUMA (EMIL FACKHENEIM, 1970). "TIQQUN. RIPARARE IL MONDO" (EMIL FACKENHEIM, 1982).

giovedì 18 febbraio 2010


-   “È fatto divieto agli ebrei di concedere a Hitler vittorie postume”
-  614ma norma del canone ebraico istituita da Emil Fackenheim, in La presenza di Dio nella storia

Auschwitz: una sfida per la fede di Israele

La presenza di Dio nella Storia, di Emil Fackenheim, uscì nel 1970. Al centro della riflessione dell’autore sta la crisi di tutte le precedenti categorie utilizzabili, per spiegare la sofferenza di Israele. Ciò nonostante, Fackenheim conclude in modo imperativo affermando che non si deve abbandonare la fede dei Padri: chi lo facesse, concederebbe a Hitler una clamorosa vittoria postuma. *

È chiaro che il lungo silenzio teologico era necessario. Il silenzio sarebbe forse la cosa migliore anche se non fosse per il fatto che le barriere tra le nazioni sono infrante e che per questa sola ragione il tempo del silenzio teologico è irrimediabilmente passato.

Ma cominciare a parlare significa mettere radicalmente in questione alcune dottrine midrashiche [= tipiche della tradizione ebraica - n.d.r.] onorate nel tempo; e tra queste una è immediatamente sconvolta. Come abbiamo visto, anche gli antichi rabbini furono costretti a sospendere il biblico “siamo puniti per i nostri peccati”, forse non in risposta alla distruzione del tempio da parte di Tito ma alla paganizzazione di Gerusalemme da parte di Adriano. Anche noi possiamo al più lasciare momentaneamente in sospeso la dottrina biblica solo per il fatto che, come i rabbini, non possiamo né negare i nostri peccati né isolarli dalla storia. Eppure dobbiamo sospenderla. Perché, comunque noi giriamo e rigiriamo tale dottrina in risposta ad Auschwitz, essa diventa un’assurdità religiosa e addirittura un sacrilegio.

“Peccato” ed “espiazione” devono assumere una connotazione individuale? Che idea sacrilega, quando si pensi che tra le vittime dei nazisti vi furono più di un milione di bambini! Dobbiamo dar loro una connotazione collettiva? Che idea terribile, se si pensa che non furono le nostre comunità ebraiche, occidentali, agnostiche, infedeli e ricche, ma quelle più povere, devote e fedeli che furono più duramente colpite! Quando nel nostro tormento ci rivolgiamo in un ultimo tentativo alla dottrina tradizionale per cui tutti gli israeliti di tutte le generazioni sono responsabili l’uno per l’altro, noi continuiamo a sentirci completamente sconcertati perchè non un solo dei sei milioni morì perché esso non mantenne il patto divino-ebraico: essi morirono tutti perché i loro nonni lo avevano rispettato, al limite solo per aver allevato bambini ebrei. Ecco il punto in cui tocchiamo l’assurdo religioso radicale. Ecco lo scoglio contro il quale naufraga senza rimedio l’idea che “siamo puniti per i nostri peccati”.

Ma allora gli ebrei morirono forse ad Auschwitz per i peccati degli altri? Il fatto è evidentemente abbastanza ovvio, ed è sempre più evidente che questi atti corrispondevano ai criminali nazisti. Il problema sta però nel sapere se si può scoprire in questo fatto un significato religioso, se noi, come tante generazioni precedenti, possiamo far ricorso all’idea del martirio. [...] Può ancora confortare la coscienza ebraica dopo Auschwitz? Quando le bande dei crociati si scatenarono contro gli ebrei delle città renane di Worms e Magonza (1096 d. C.) esse offrirono loro in teoria, se non in pratica, la scelta tra morte e conversione permettendogli quindi di scegliere il martirio. Ad Auschwitz, invece, non ci fu scelta; vecchi e giovani, fedeli e non fedeli furono sterminati senza discriminazione. Vi può essere martirio quando non vi è scelta? [...] Auschvitz fu il tentativo supremo, il più diabolico che sia mai stato fatto di uccidere lo stesso martirio e di privare ogni morte, compreso il martirio, della sua dignità. [...]

Che cosa comanda la voce di Auschwitz?

Gli ebrei non hanno il diritto di concedere a Hitler delle vittorie postume. Essi hanno il dovere di sopravvivere come ebrei, perché il popolo ebreo non abbia a perire. Essi non hanno il diritto di disperare dell’uomo e del suo mondo e di trovare rifugio sia nel cinismo sia nell’aldilà, se non vogliono contribuire ad abbandonare il mondo alle forze di Auschwitz. Infine essi non hanno il diritto di disperare del Dio di Israele, perché l’ebraismo non perisca. Un secolarista ebreo non può trasformarsi in un credente per un semplice atto di volontà, né gli si può imporre di farlo... Ed un ebreo religioso che è stato fedele al suo Dio può essere costretto ad un nuovo rapporto magari rivoluzionario con lui. Una possibilità comunque è del tutto impensabile. Un ebreo non può rispondere al tentativo di Hitler di distruggere l’ebraismo cooperando egli stesso a tale distruzione. Nei tempi antichi il peccato impensabile per gli ebrei era l’ateismo. Oggi consiste nel rispondere a Hitler compiendo la sua opera.

* E. L. Fackenheim, La presenza di Dio nella storia. Saggio di teologia ebraica, Brescia, Queriniana, 1977, pp. 97-99 e 111-112



-  Esce in Italia il saggio di Emil Fackenheim che indaga come ricucire le ferite provocate nella storia dai totalitarismi

Riparare il mondo dopo la Shoah

Non serve a nulla demonizzare il pensiero anti-umano: quel che occorre è salvarlo, purificarlo dalle sue patologie in un vasto programma educativo

di PAOLA RICCI SINDONI (Avvenire, 13.02.2010)*.

Strani destini regolano, a volte, la vita dei libri, messaggeri poten­ti e silenziosi dei loro creatori: al­cuni messi rapidamente nel circolo dell’industria editoriale che ne segna la fama, altri, meno fortunati e trascu­rati, anche se grandi, rischiano di ca­dere nell’oblio. È questo il caso di Emil Fackenheim (1916-2003), filosofo e­breo-tedesco di altissimo livello, rifu­giatosi - dopo la persecuzione e l’in­ternamento - in Canada, dove visse per quarant’anni prima di trasferirsi nel 1983 a Gerusalemme. Solo nel 1977 è apparso in Italia un piccolo e denso saggio, La presenza di Dio nella storia, e poi nulla, sino ad oggi quando esce nelle librerie, per i tipi della Medusa di Milano, il suo capolavoro del 1982: Ti­qqun - Riparare il mondo. I fondamenti del pensiero ebraico dopo la Shoah.

Un libro splendido, ricco di suggestioni e di sane provocazioni alla filosofia e al­la teologia, opera che non si può che avvicinare ad altri classici del ’900, co­me La stella della redenzione di Franz Rosenzweig o Totalità e infinito di Em­manuel Lévinas, come giustamente nota Massimo Giuliani nella sua in­tensa prefazione. Né si pensi che queste riflessioni che intrecciano filosofia, storia, politica e teologia, appartengano solo all’ebrai­smo, siano cioè circoscritte ai super­stiti e alla loro capacità di sopravvi­venza, dal momento che sono legate alla grande questione di come curare le ferite della ragione, del pensiero, del­la cultura umanistica e della civiltà oc­cidentale, che non solo non hanno pre­visto Auschwitz, ma che non possono passare indenni dentro quell’immane disastro.

È lo stesso Fackenheim a chia­mare in causa, in questo serrato con­fronto con alcuni protagonisti del pen­siero filosofico, da Kant a Hegel, da Spi­noza a Rosenzweig e a Heidegger, la necessità di una riprova storica non tanto con la memoria ferita dei so­pravvissuti, quanto con la responsabi­lità dei loro carnefici, quei tedeschi, in prevalenza cristiani, che hanno colla­borato consapevolmente alla costru­zione dell’orribile macchina burocra­tica e tecnologica dell’annientamento degli ebrei.

L’urgenza di ’riparare’ questa enorme frattura dentro il mondo consiste per­ciò non nel demonizzare quel pensiero cercando altre alternative, ma nel doverlo salvare, purificare dalle sue stesse patologie, coinvolgendo in un vasto programma educativo e cultura­le cristiani, ebrei e tedeschi delle nuo­ve generazioni, insieme volti a neutra­lizzare quelle spinte negative, culmi­nate ad Auschwitz, luogo simbolico del nichilismo fattosi esperienza storica antiumana per milioni di persone e per lunghi anni. Per evitare il ripetersi di simili tragedie, che oggi potrebbero an­cora colpire Israele nella sua stessa ne­cessità di sopravvivenza come Stato, bisogna in primo luogo stare dentro la storia, sfuggendo ad ogni tentazione teoretica di leggerla con gli occhi im­poveriti del pensiero astratto.

Da qui la tensione etica che promana da questo libro, in cui finalmente Fackenheim riesce a trovare una sintesi coraggiosa e sofferta fra le due anime che lo abitavano, i due ’cappelli’, che di volta in volta era chiamato ad in­dossare (come icasticamente dirà nel­la sua Autobiografia, fra poco in usci­ta per Giuntina): da una parte l’esi­genza di redimere l’’età d’oro’ della fi­losofia classica tedesca che da Kant si­no a Hegel ha disegnato il volto della cultura umanistica occidentale, ma che è apparsa impotente a fornire an­tidoti contro l’inumano che ha avvol­to i lager, dall’altro la teologia ebraica, custodita negli anni durante gli studi a Berlino per il rabbinato e che sembra­va rappresentare l’unica forma di cu­stodia di sé, oltre gli orrori della storia.

Questi due ’cappelli’ non potevano che rinvenire un momento di felice sintesi in questa opera, dove la forma simbolico-cabalista del tikkun (se­condo cui al momento della creazio­ne scintille divine si sono sperdute nel mondo, fuoriuscite dalla rottura dei va­si che le contenevano) riesce a dise­gnare la forza d’urto del bene che va ri­costruito dentro le oscurità del pen­siero e della storia.

Quando nel 1967, durante la Guerra dei Sei giorni, gli i­sraeliani hanno tremato ancora per la loro sopravvivenza, si è tragicamente compreso come ancora ’tutto’ pote­va accadere di nuovo, che il male scon­fitto covava dentro la storia, che i mor­ti nei lager rischiavano davvero di es­sere morti invano, che il nazismo po­teva guadagnare la sua vittoria postu­ma.

Nasce da questo nuovo sussulto del male storico l’esigenza a moltiplicare le energie morali per una nuova ope­ra di resistenza verso tutte le forme di disumanizzazione dell’umano, per co­struire un fronte comune dove ebrei e cristiani, soprattutto, lavorino insieme per aggiustare il mondo e renderlo più abitabile per tutti.

Molta letteratura ebraica sulla Shoah sembra ancora incapace di individua­re forme di identità comune, oscillan­do fra la soluzione ’confessionale’ del­la comunità religiosa, unita nell’iden­tità del Patto che ancora vive fra Israe­le e il suo Signore, e la soluzione ’po­litica’ e laica che oggi sostiene lo Sta­to e le sue istituzioni. Per Fackenheim però né supremazia né contraddizio­ne fra questi due poli, perché è la sto­ria, ancora una volta, a dettare il suo verdetto.

Ricorda al riguardo un dram­matico episodio, avvenuto il giorno dello scoppio della Guerra dei Sei gior­ni. Era la festa di Yom Kippur e moltis­simi si trovavano in sinagoga a prega­re, quando i giovani, richiamati im­mediatamente alle armi, correvano per raggiungere le loro postazioni. Fu al­lora che alcuni anziani a Gerusalemme interruppero le loro preghiere, corse­ro fuori e strappando i loro libri sacri, donarono fogli sparsi ai soldati in par­tenza. Da parte loro - nota Fackenheim - i militari non esitarono ad accettare il dono, sia che fossero religiosi o laici: «A Yom Kippur alcuni combatterono perché altri potessero pregare, e alcu­ni pregarono perché altri potessero combattere». Un modo intenso e tra­gico per ridire la forza della volontà di sopravvivere insieme e di restituire al mondo una lezione di resistenza al ma­le, oltre le divisioni, oltre le ricadute.

*

-  Emil Fackenheim
-  TIQQUN
-  Riparare il mondo. I fondamenti del pensiero ebraico dopo la Shoah
-  Medusa. Pagine 300. Euro 24,50.


Questo forum è moderato a priori: il tuo contributo apparirà solo dopo essere stato approvato da un amministratore del sito.

Titolo:

Testo del messaggio:
(Per creare dei paragrafi separati, lascia semplicemente delle linee vuote)

Link ipertestuale (opzionale)
(Se il tuo messaggio si riferisce ad un articolo pubblicato sul Web o ad una pagina contenente maggiori informazioni, indica di seguito il titolo della pagina ed il suo indirizzo URL.)
Titolo:

URL:

Chi sei? (opzionale)
Nome (o pseudonimo):

Indirizzo email: