Inviare un messaggio

In risposta a:
SUDAFRICA, 1995. RAZZISMO, APARTHEID, E UN RAGGIO DI SOLE: UN PASSO AL DI LA’ DEL DIRITTO DEL SANGUE E DELLA TERRA. UBUNTU: "Le persone diventano persone grazie ad altre persone".

A NELSON MANDELA, UN OMAGGIO SOLARE: "INVICTUS". Il film di Clint Eastwood, con Morgan Freeman. Una nota di Francesco Merlo e il testo della poesia ("Invictus") di William Henley - a cura di Federico La Sala

INVICTUS. Il nuovo film del regista americano racconta la storia del mitico incontro di rugby del 1995. Si affrontarono gli All Blacks e gli Springbocks del Sudafrica multirazziale voluto dal Presidente Nelson Mandela.
sabato 16 gennaio 2010 di Federico La Sala
[...] un’ora e mezza di epica dello sport coniugata con la democrazia e con l’antirazzismo, non sembrava più di essere al cinema ma a teatro o meglio ancora allo stadio Ellis Park di Johannesburg dove appunto i ragazzi verde oro, gli Springbocks, battevano gli avversari, i leggendari All Blacks della Nuova Zelanda, ma soprattutto battevano i pronostici e se stessi, l’apartheid, l’odio razziale, i pregiudizi che sino ad allora, sotto la commedia del tifo civile ed elegante, avevano (...)

In risposta a:

> A NELSON MANDELA, UN OMAGGIO SOLARE: "INVICTUS" --- MANDELA TRILOGY. La lunga strada per la libertà (di Carla Moreni)

mercoledì 25 maggio 2016


Sulla lunga strada per la libertà

Una trilogia per Mandela

di Carla Moreni (Il Sole-24 Ore, Domenica, 22 maggio 2016)

È difficile raccontare la vita di un uomo in un libro, in un film. Figuriamoci in un’opera o addirittura in un musical. La sfida sembra impossibile. Eppure Mandela Trilogy coglie nel segno: nella forma ibridata del musical, che però suona anche come opera; con molti richiami al Novecento di Britten, molti inserti di jazz, ma anche molti sguardi al repertorio sudafricano. Il ritratto che ne esce è insieme storia e teatro. Con tanti pugni chiusi. Teso sulla velocità di cambi continui di scena e situazione, contagioso per l’esuberanza fisica del canto e della recitazione.

Si parte con un Prologo, come nella più classica tradizione. Vista dall’alto, siamo nella cella di un prigioniero, con branda, cuscino, orinatoio: archetipo di claustrofobica reclusione. Il prigioniero in questo momento è fuori dalla cella. Siamo nel 1976 e Nelson Mandela ha già scontato 14 anni di prigione. Su di lui pesa una condanna all’ergastolo con l’accusa di alto tradimento, per le battaglie contro la segregazione razziale e l’incitazione alla lotta armata. Lo vediamo mentre ha di fronte un bianco in divisa, che gli offre con poche parole scandite la libertà. Ma a condizione che accetti di trasferirsi nel Transkei, uno dei ghetti creati dal governo sudafricano per i neri.

Mandela rifiuta. Sorridendo, cantando pacatamente. Non potrebbe essere altrimenti la sua lotta per la libertà, quel cammino sulla lunga strada per la libertà al quale è intitolato Ravenna Festival. Coraggiosamente, in una città fortemente caratterizzata dalla presenza di comunità di colore e in un teatro a palchetti come l’Alighieri, si rompono gli schemi.

Si racconta una storia passata, che tuttavia nella forma immediata dell’impianto di Mandela Trilogy non potrà che riflettersi sul presente. Colorata, giocata tutta sui corpi, semplice ma possente nei gesti di gruppo, l’opera viene da Cape Town. È una produzione nata il 18 giugno 2012, giorno del novantaquattresimo compleanno del più famoso presidente del Sudafrica, dal 1994 al 1999: primo presidente eletto dopo l’apartheid e premio Nobel per la pace nel 1993. Alle spalle quei 27 anni di prigione, interrotti nel 1990 per una pressione contro la sua condanna a vita che aveva preso ormai dimensioni mondiali.

Un coro etnico, parlato, sulle sonorità e gli accenti caratteristici della lingua xhosa, la lingua madre di Mandela, fa da sfondo al suo rifiuto ad accettare una libertà individuale e condizionata. Che avrebbe solo il sapore di una resa. Madiba non accetta. Non viene liberato. Non può sottostare alla regola del bantustan, del ghetto, del territorio forzato.

Il racconto della sua storia, scritto su libretto di Michael Williams, anche regista, e con la collaborazione di due compositori, Péter Louis van Dijk, per il primo e terzo atto, e Mike Campbell, per il secondo, diventa una Trilogy. Scandita in tre atti, in ciascuno presenta un Mandela diverso: prima quello giovane, il ragazzo cresciuto tra i riti iniziatici e i combattimenti della madre Africa, nel paese natale di Mvezo, un piccolo villaggio incontaminato; poi quello disinvolto e seduttivo dei cinema e dei jazz club di Sophiatown, la Harlem sudafricana, dove Mandela svetta, tra echi di jazz e canzoni di Miriam Makeba, nello storico Jig Club, prima delle incursioni della polizia; e infine il Mandela della prigione, delle tre diverse carceri di Robben Island, Pollsmoor, Victor Verster.

Le celle sono linde, forse troppo per una ricostruzione realistica. Le divise ben stirate. La piccola biblioteca ha i libri in ordine: Mandela legge tenacemente, tra compagni mansueti, interrogativi, pacati. Non vuole scaldare gli animi, quest’opera-musical, né rilanciare sguardi retrospettivi che scatenino ribellioni sul vissuto. E questo si spiega pensando alla matrice originaria, di Mandela Trilogy: uno spettacolo di canzoni, al debutto a Cape Town il 17 luglio 2010, intitolato African Songbook.

Anche qui, pur nello stile diverso dei due compositori, van Dijk e Campbell, uno più vicino a Gershwin e alla canzone americana, al pianoforte, l’altro più sperimentale, corale e con citazioni evidenti, ad affiorare in primo piano rimane soprattutto un elemento: la difesa di una cultura identitaria, di tradizione. Attraverso la musica canta e ritma la volontà di libertà. Non di omologazione. La dice la richiesta di attenzione rispettosa, magnetica e sensuale nelle danze arcaiche delle donne di Mvezo, dagli enormi copricapi colorati. Viene echeggiata nei Songs di Dolly Rathebe, la fantastica giovane e procace star del Jig Club, dove Mandela balla e canta in elegantissimo gessato.

Con un triplice protagonista, la Trilogia offre anche una triplice scansione cronologica. Nel primo atto siamo tra il 1934 e il 1941 (dai 16 ai 23 anni del protagonista) il maggiormente caratterizzato sotto il profilo etnico, con abbondante uso della lingua xhosa; nel secondo si passa al 1955, con un eclatante salto dal folklore della campagna africana alla libertà felice della città, tra cinema e jazz-club. È fulmineo il rapido annientamento di queste isole felici, cancellate dalla violenza delle leggi sull’apartheid. Nel terzo atto si copre invece la lunga arcata che va dal 1960, coi primi processi e le prigione, al 1994 dell’elezione alla presidenza del Sudafrica.

Regia e libretto, efficacissimi, si sposano con due ore di musica continuamente variata, polistilistica, che comprende un grande uso di percussioni, ma anche un moderno declamato, per il grande discorso di insediamento di Madiba, presidente eletto il 10 maggio 1994. La produzione originale dell’Opera di Cape Town, già festeggiata in Inghilterra e Germania, è al debutto in Italia. Solisti e coro sono sudafricani, ma in buca batte il cuore dell’Orchestra Cherubini.


Questo forum è moderato a priori: il tuo contributo apparirà solo dopo essere stato approvato da un amministratore del sito.

Titolo:

Testo del messaggio:
(Per creare dei paragrafi separati, lascia semplicemente delle linee vuote)

Link ipertestuale (opzionale)
(Se il tuo messaggio si riferisce ad un articolo pubblicato sul Web o ad una pagina contenente maggiori informazioni, indica di seguito il titolo della pagina ed il suo indirizzo URL.)
Titolo:

URL:

Chi sei? (opzionale)
Nome (o pseudonimo):

Indirizzo email: