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PRESIDENTE NAPOLITANO, NELLA REALTA’ E NELLA COSTITUZIONE LA PRIMA PAROLA DI OGNI CITTADINO E DI OGNI CITTADINA E’ " ITALIA" ...

MA L’ITALIA NON C’E’ PIU’: UN POPOLO ALLA GOGNA!!! LA PRIMA PAROLA DELLA COSTITUZIONE "ITALIA" E’ SOTTO "COPYRIGHT" DEL PARTITO DEL CAVALIERE DAL 1994. E SOTTO "COPYRIGHT" E’ ANCHE IL "POPOLO DELLA LIBERTA’"!!! "L’ITALIA SONO IO": AVANTI TUTTA, "FORZA ITALIA"!!! A futura memoria, alcune note - di Federico La Sala

COSTITUZIONALMENTE, FORMALMENTE E LEGALMENTE, RIPRENDERSI LA PAROLA!!!
lunedì 24 maggio 2010 di Federico La Sala
STORIA D’ITALIA (1994-2010). CON un Partito camuffato (e tuttavia autorizzato dalle Istituzioni, non una ma due volte!) da PARTITO DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA, IL CAVALIERE SFERRA L’ATTACCO AL QUIRINALE E ALLA COSTITUZIONE: "FORZA ITALIA"!, FORZA "POPOLO DELLA LIBERTA’"! - "L’ITALIA SONO IO" E IL DIRITTO E’ "UN DIRITTO AD PERSONAM"!!!
PRESIDENTE NAPOLITANO, A MATERAZZI UNA MULTA, MA A BERLUSCONI CON LA MASCHERA DI "PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA" (1994-2010) COSA?! Facciamo chiarezza ... * (...)

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> UN POPOLO ALLA GOGNA!!! LA PRIMA PAROLA DELLA COSTITUZIONE "ITALIA" E’ SOTTO "COPYRIGHT" --- Il trionfo elettorale di B. 27 marzo ’94: il Caimano mostra i denti all’Italia (di Pino Corrias)

giovedì 27 marzo 2014

Il trionfo elettorale di B.

27 marzo ’94: il Caimano mostra i denti all’Italia

di Pino Corrias (il Fatto, 27.03.2014)

Il 27 marzo 1994, poche ore prima che l’Italia voltasse pagina per sempre, ipnotizzata dalla perpetua colonna sonora di Forza Italia, musica di Renato Serio, parole di Silvio Berlusconi, per infilarsi in un ventennio ad alta intensità lisergica e banditesca, soffiava, sulle impolverate macerie della politica, un venticello che annunciava tempesta. Specie a Milano, dove noi cronisti annotavamo, dopo i 5 mila arresti di Tangentopoli, la quotidiana carognata degli automobilisti che riconoscendolo per strada sputavano in faccia al giovane Bobo Craxi, colpevole di niente. E assistevamo increduli alla irresistibile ascesa di Umberto Bossi che sputava anche lui, ma solo ire secessioniste, contro “i porci di Roma”.

Di quasi nulla si accorgevano gli eleganti narratori della bella primavera romana, politici e giornalisti protetti dagli eterni velluti dei Palazzi, che avevano già assorbito gli sfracelli del Nord con un’alzata di spalle, archiviandoli come suoni gutturali dei barbari. E il nuovo potere dei magistrati neanche li impensieriva, persuasi com’erano che il vuoto in politica non poteva esistere: le foto segnaletiche dei vecchi politici non sarebbero state sostituite, semmai truccate con qualche artificio, la gioiosa macchina da guerra di Achille Occhetto avrebbe perfezionato il compromesso storico, la Dc e i socialisti erano pronti a cambiare pettinatura, qualche mariuolo si sarebbe offerto di pagare il conto, e tutto sarebbe tornato come prima.

Il mio ex direttore Paolo Mieli, appena passato al Corriere , pronosticava che Berlusconi avrebbe incassato al massimo il 10 per cento dei voti per poi affidarli a Francesco Cossiga esperto di labirinti romani: “Cosa volete che ne sappia Berlusconi di Palazzo Chigi?” diceva in riunione, rasserenando tetre avvisaglie di imminenti sfracelli che filtravano dal mondo reale. Il suo giovane allievo Marcello Sorgi, responsabile romano de La Stampa, aspettava “il sicuro ritorno di De Mita”, o al massimo del suo amato Nicola Mancino. Eugenio Scalfari, il fondatore di Repubblica , si limitava a prevedere l’insuccesso del “ragazzo Coccodè”. Mentre l’altro genio della politologia, Ernesto Galli della Loggia, rassicurava che quello di Berlusconi “era un partito di yuppies” che non conteneva nulla delle speranze, dei bisogni, delle idealità “della politica nobile”.

Come le tre scimmiette

Facevano tutti finta di non vedere, non sentire, non capire. Otto mesi prima, Raul Gardini, l’uomo più riccod’Italia,sierasparatoallatempiaalle9delmattino, in accappatoio, dopo avere bevuto il succo d’arancia preparato dal suo maggiordomo. Avrebbe dovuto andare a Palazzo di giustizia, dove Di Pietro lo voleva interrogare sulla tangente Enimont destinata al penta partito e sulla valigia di soldi consegnata al Pci in via delle Botteghe Oscure. Lo sparo era riecheggiato nei saloni di Palazzo Belgioioso, a pochi isolati dalla chiesa di San Babila dove in quei minuti si stavano officiando i funerali di Gabriele Cagliari, ex presidente Eni, che si era suicidato nella sua cella a San Vittore, soffocato dai rimorsi e da un sacchetto di plastica. Per salvare Gianni Agnelli, la Fiat aveva consegnato alle manette dei magistrati una modica quantità dei suoi manager maggiori, e pure Cesare Romiti si era genuflesso nella contrizione. Carlo De Benedetti era stato addirittura arrestato, anche se solo per una manciata di ore.

E l’impero di Silvio su quale cornicione stava? Sul più alto, sul più pericoloso. Nel tetro villone di Arcore, dove ancora aleggiava come una premonizione il fantasma della marchesa Casati Stampa distrutta dalle ossessioni sessuali del marito, Berlusconi stava respirando da molti mesi il rischio incombente. Fininvest stava per crollare sotto il peso dei debiti: 7 mila miliardi di lire, 4,2 lire di debito per ogni lira di capitale. Le banche più esposte - Monte Paschi, Banca di Roma, Bnl, Cariplo, Comit - avevano imposto Franco Tatò al vertice del Biscione, come garanzia del debito. E Tatò, dopo aver dato un’occhiata alla voragine dei conti aveva sentenziato: “Dobbiamo portare i libri in tribunale”. Berlusconi, che sa tutto di quello che c’è scritto e (specialmente) non c’è scritto sui libri contabili, non ci pensa proprio.

Nei 24 mesi appena passati ha visto il fuoco di Tangentopoli divorare uomini, carriere, aziende, patrimoni, partiti. Ha visto la macchina del Palazzo di Giustizia di Milano inghiottire un mondo e restituirlo in pezzi. Il suo mondo. Quello di Bettino Craxi, Arnaldo Forlani, Giulio Andreotti che lo hanno coccolato nella bambagia. Di Oscar Mammì, repubblicano che gli ha cucito una intera legge televisiva a sua misura, tre reti Fininvest contro tre reti Rai. Di tanti altri soldatini - da Giorgio La Malfa a Francesco De Lorenzo - che pretendevano e incassavano come fossero generali.

Da sei mesi aveva visto con chiarezza le alternative: consegnarsi alle indagini dei magistrati, sperando di uscirne vivo. Ma per farlo avrebbe dovuto sciogliere fin troppi misteri di bilancio del suo impero, a cominciare dai primi miliardi spuntati dalla Svizzera a metà degli anni Settanta, quando Stefano Bontade, il principe di Villagrazia, veniva a fargli visita, con quell’altro mafioso, Vittorio Mangano che si sarebbe installato per anni nel villone a guardia dei soldi e della incolumità dei figli, Marina e Pier Silvio. Oppure resistere, consegnare una rete alla sinistra postcomunista, come gli consigliavano Fedele Confalonieri e Maurizio Costanzo, per poi trattare la sopravvivenza con il nuovo potere politico. “Si è sempre fatto così, guarda la Rai” gli ripetevano i suoi colonnelli nei consigli di guerra del lunedì pomeriggio. Tranne uno, che da molti mesi gli diceva: “E noi faremo diverso”.

L’uomo chiave è Dell’Utri. Si tratta di Marcello Dell’Utri, palermitano, che da un decennio guida i mille venditori di Publitalia, organizzati regione per regione, città per città, riempie di spot le reti, fattura 2.500 miliardi di lire l’anno, organizza convention con migliaia di imprenditori, conosce i gusti, i sogni, i bisogni, le idealità degli italiani molto meglio di tutti i Galli della Loggia che galleggiano nel loro inchiostro. Dice: siamo lo scrigno dei desideri, abbiamo i soldi, le star televisive, i nostri capi area, i club del Milan che sono il doppio delle sedi Dc. Se siamo orfani dei partiti che ci proteggevano le spalle, è venuto il momento di tutelarci da soli. Propone l’impensabile, trasformare la Fininvest in un partito e il pubblico televisivo in un elettorato. Il Dottore mette in scena un ponderoso tormento, o almeno ce lo racconterà: “Non dormivo la notte. E qualche volta, sotto la doccia, piangevo”. Poi decide, si parte. La rumba comincia a gennaio, con il messaggio urbi et orbi “Questo è il Paese che amo”. Incassa la benedizione di Craxi e quella di Agnelli: “Se perde, perde lui. Se vince vinciamo tutti noi”, dirà l’Avvocato, credendo di essere un dritto.

Gli avversari in campo sono già metà della sua vittoria. Mino Martinazzoli, fuoriclasse della vecchia guardia democristiana, fuma, legge, fa politica, Berlusconi nessuna delle tre cose, gli italiani non hanno dubbi a scegliere tra i due. Achille Occhetto, traghettatore del post comunismo, veste giacchette di tweed marroncine. Ha i baffi, il ciuffo, ma passando (e parlando) non lascia traccia. Bossi lo chiama “paperello”. Nell’unico confronto tv con Berlusconi inciampa parlando della sua piccola barca a vela. Silvio (che di barche ne ha una dozzina) lo trafigge: “Meno male che lei ha il tempo di andare in barca. Io lavoro”.

Il quieto Segni, che pure era il trionfatore del referendum per il maggioritario e l’abolizione delle preferenze, ha il suo destino nel nome: Mariotto; fatta la legge elettorale non la capisce, come gran parte dei suoi alleati. Berlusconi invece la capisce eccome e la incorpora nel suo imbroglio di nuovo marketing politico: alleanza al nord con la Lega secessionista che “si pulisce il culo” col tricolore, e al centro-sud con gli orfani di Almirante, i post camerati guidati da Gianfranco Fini, che davanti al tricolore fanno ancora finta di lacrimare per l’emozione.

Una certezza per tutti

Durante la campagna elettorale Berlusconi orienta le sue parole d’ordine secondo la bussola dei sondaggi macinati dalla Diakron di Gianni Pilo. Parla male dei vecchi politici, tanto non gli costa niente. E benissimo dei magistrati, anche si gli costa moltissimo. Promette il taglio delle tasse sotto “la soglia naturale” del 33 per cento. E un milione di nuovi posti di lavoro: “In Italia ci sono 4 milioni di aziende. Basta che una su quattro assuma almeno un giovane e il gioco è fatto”. Con lui sembra tutto facile, tutto a portata di mano. È monopolista, ma predica il liberismo. Gli va bene l’Europa, il federalismo, l’autarchia. È massone, ma anche unto del Signore. È filo americano, ma fa affari in Russia. È libertino e credente. Ha due famiglie e tre zie suore. Ai suoi alleati dice: “Se vinciamo ce ne sarà per tutti”. Agli italiani: “Sono ricco, non ho bisogno di rubare”.

Tante ragioni preparano il suo trionfo. Offre sogni invece che sacrifici. Conosce la pancia degli italiani, le loro debolezze, la loro insofferenza alle regole: lui la pratica e se ne vanta. È nuovo, o almeno sembra. È allegro, o almeno sembra, in un’Italia cupa, che in 15 anni è diventata la nazione più anziana d’Europa. Che contiene la guerra strisciante delle tre mafie: 5 mila morti ammazzati nell’ultimo decennio in Sicilia, 3 mila in Calabria, altrettanti in Campania. Fino alla nuova stagione delle stragi, aperta con il boato di Capaci, durante la quale la mafia e lo Stato ridisegnano le loro reciproche compatibilità. Una classe dirigente corrotta. Una università a pezzi e una scuola in malora. Lui se frega, mostra tutti i denti del sorriso e dice: “Abbiamo il sole in tasca”.

Quando si apre il cristallo elettorale, ecco il portento: Forza Italia incassa il 21 per cento dei voti, Alleanza nazionale il 13,5, la Lega supera l’8. Il Polo è maggioranza. La sinistra esce annichilita e sconfitta. Come Napoleone, Silvio è sceso in campo e in tre mesi ha conquistato l’Italia, ma stavolta con un alleato formidabile, gli italiani. Il governo nascerà a maggio, con il voto decisivo di tre senatori a vita - Agnelli, Cossiga, Leone - a dire che il nuovo potere sì è già alleato con quello vecchio e peggiore. Comincia l’era delle grandi bugie. E della finta opposizione guidata da Massimo D’Alema, la volpe del Tavoliere e della Bicamerale. Qualche anno dopo persino l’inno di Forza Italia verrà accusato di plagio per aver copiato un brano americano, This Is The Moment, tratto dal musical Dottor Jeckyll & Mr Hide. La verità si nasconde nei dettagli.


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