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ACCADEMIA DEI LINCEI: DISCORSO DEL PRESIDENTE NAPOLITANO, SUL PASSATO E SUL FUTURO DEL L’ITALIA ....

PER IL 150° DELL’ITALIA UNITA, UN ESAME DI COSCIENZA COLLETTIVO E UN AUTENTICO SCATTO DI CONSAPEVOLEZZA. Testo della conferenza del Presidente Napolitano all’Accademia dei Lincei - a cura di Federico La Sala

E’ indispensabile, ritengo, un nuovo impegno condiviso per suscitare una ben maggiore consapevolezza storica del nostro essere nazione e per irrobustire la coscienza nazionale unitaria degli italiani.
venerdì 12 febbraio 2010 di Federico La Sala
[...] l’impegno condiviso di cui parlo implica una svolta da parte dell’insieme delle classi dirigenti, un autentico scatto di consapevolezza e di volontà in modo particolare da parte delle forze che hanno, o possono assumere, responsabilità nella sfera della politica.
Spero ci si risparmi il banale fraintendimento del vedere sempre in agguato l’intento di un appello all’abbraccio impossibile, alla cessazione del conflitto, fisiologico in ogni democrazia, tra istanze politiche e sociali (...)

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> PER IL 150° DELL’ITALIA UNITA, UN ESAME DI COSCIENZA COLLETTIVO E UN AUTENTICO SCATTO DI CONSAPEVOLEZZA. ---- Cara Italia mai nata (di Ermanno Rea).

sabato 29 maggio 2010

Cara Italia mai nata

di Ermanno Rea(il manifesto,29.05.201)

Ho letto con grande attenzione l’intervento di Giorgio Ruffolo pubblicato dal manifesto (mercoledì 26 maggio) sotto il titolo «Federalismo, un patto tra Nord e Sud» e desidero, per quel poco che possano valere le mie parole, spenderne un po’ a favore dell’ipotesi avanzata dall’illustre economista e uomo politico a giudizio del quale il futuro dell’Italia potrebb’essere anche, o meglio forse, quello di suddividersi in alcune (poche) macro-regioni federate tra loro ma dotate di grande autonomia.

Ruffolo avanza la sua proposta senza alcuna iattanza o sicumera, non pretende affatto di avere in tasca la ricetta utile a salvare l’Italia dalle tempeste che la vanno squassando ormai da tempo immemorabile (fino a rendere fumosa ogni speranza di riassetto virtuoso soprattutto sotto il profilo economico, in un tempo ragionevolmente breve). No, egli si limita a richiamare l’attenzione generale su una possibilità che merita quanto meno di essere discussa, non fosse altro che per guardare meglio dentro noi stessi e per comprendere quanto gravi siano le ferite presenti sul corpo del paese e come sia impensabile che la disunità italiana possa continuare a produrre mostri, senza che vengano adottati rimedi radicali. Rimedi capaci di rivoluzionare lo stesso modo di pensare e di essere dei cittadini e soprattutto delle classi dirigenti sia al Nord che al Sud.

Imprevedibilmente, la sortita di Ruffolo (vedi il suo bel libro Un paese troppo lungo, pubblicato da Einaudi) ha ricevuto però un’accoglienza improntata a una certa sufficienza, nella convinzione che ogni discorso federalistico sarebbe nient’altro che un modo per consegnarsi nelle mani di Bossi .

Come Ruffolo, anch’io ritengo che le cose non stiano così, e non soltanto perché un pensiero federalista è presente in tutta la storia del Risorgimento, sostenuto con spirito patriottico da illustri intellettuali che non possono certamente essere annoverati tra i padri ispiratori dell’attuale leader leghista, tipico figlio di nessuno dal punto di vista politico e culturale. Ma perché non riesco a intravedere alternative diverse dal divorzio a un matrimonio così manifestamente andato in frantumi.

Inutile bendarsi gli occhi: dal punto di vista statuale l’Italia non esiste; non è mai nata. Il divario Nord/Sud, così come lo abbiamo costruito pazientemente, un po’ alla volta, in maniera deliberata e consapevole lungo centocinquant’anni di storia, non ha uguali in tutto il mondo, fa dell’Italia un caso unico nella sua anomalia socio-economica con riflessi perfino di natura neurologica (come negare che ormai la "faglia" attraversa la nostra stessa psicologia?).

Semmai c’è da apprezzare lo sforzo di Ruffolo nel formulare una proposta che, pur smontando l’idea di Stato, salva e rafforza quella di Nazione, secondo una distinzione che fu particolarmente coltivata a metà dell’Ottocento da Bertrando Spaventa, esponente di punta di quel neo-hegelismo napoletano (Bertrando e Silvio Spaventa, Francesco De Sanctis, Luigi Settembrini, Vittorio Imbriani...) che incarnò nel secolo XIX l’ideale unitario come organizzazione organica e rigidamente integrata di un popolo. Nello Stato, ebbe a dire Bertrando Spaventa, «la coscienza nazionale sale e si perfeziona a coscienza politica».

Non ricordo a caso la figura di questo pensatore ingiustamente depennato dai libri di scuola. Se lo faccio è soprattutto per ricordare da quale accademia e da quale milizia provengono tanti di noi in quanto meridionali convinti del valore salvifico dell’ideale unitario, di uno Stato italiano forte, coeso e soprattutto affrancato dalla tutela di santa romana Chiesa. Come predicava Bertrando Spaventa.

Per la verità il buon filosofo diceva di più. Sosteneva che la figura del cittadino responsabile era stata inventata dall’Italia, dalla cultura dell’Umanesimo e del Rinascimento, ma che essa era stata subito messa in ceppi dal Sant’Uffizio che non aveva tardato a trasformare il suddetto cittadino responsabile in suddito, perfetto figlio della Controriforma.

Tutto questo vuole dire che oggi, accettando di discutere di federalismo e di macro-regioni, stiamo smentendo noi stessi e i nostri maestri, stiamo facendo commercio dei nostri ideali? Non credo. Stiamo soltanto prendendo atto di un fallimento epocale, ci stiamo semplicemente interrogando se non sia possibile pervenire agli stessi risultati progettati un tempo attraverso una strada sicuramente più tortuosa e insidiosa, ma non per questo senza sbocchi e tassativamente perdente come l’ha dichiarata Eugenio Scalfari in un suo articolo (la Repubblica del 16 maggio scorso).

In ogni caso, coloro che si dichiarano indisponibili a ogni discorso sul federalismo e le macro-regioni dovrebbero quanto meno spiegarci quale possa essere oggi un rimedio credibile alla situazione di malessere, di sfascio e di spaccatura in cui versa l’Italia; soprattutto, dovrebbero spiegarci se siamo ancora in tempo a fare quello che non è stato fatto in passato, e cioè realizzare una unificazione del paese, oltre che di natura amministrativa, anche di tipo economico e sociale. Il marcio infatti è tutto qui. Personalmente ho il torto di pensare che ormai sia troppo tardi per correre ai ripari. Obbiettivamente e anche soggettivamente, nel senso che ritengo difficile orientare consolidati modi di pensare e di agire in direzioni opposte a quelle del passato.

L’Italia che si unisce lo fa infatti precostituendo il proprio fallimento di cui tutti oggi patiamo l’insopportabile peso. Tradizionalismo e arretratezza tarpano le ali a tutti: al Sud, dove prospera il latifondo e dove arcaici rapporti di proprietà e di produzione condannano le popolazioni agricole a una povertà senza scampo (a fronte dell’illimitata ricchezza dei proprietari terrieri assenteisti); al Nord, dove una miope borghesia produttiva non sa guardare oltre il proprio ombelico, senza riuscire a capire che l’unificazione l’ha investita di un grande ruolo: farsi promotrice dello sviluppo generale di tutta la nazione.

Sia concessa anche a me una illuminante citazione di Gramsci. «La egemonia del Nord sarebbe stata ’normale’ e storicamente benefica se avesse avuto la capacità di ampliare con un certo ritmo i suoi quadri per incorporare sempre nuove zone economiche assimilate. Sarebbe stata allora questa egemonia l’espressione di una lotta tra il vecchio e il nuovo, tra il progressivo e l’arretrato, tra il più produttivo e il meno produttivo; si sarebbe avuta una rivoluzione economica nazionale (...) e al contrasto sarebbe successa una superiore unità. Ma invece non fu così...».

La citazione è curiosa. Innanzi tutto per lo spirito che la ispira, squisitamente liberistico. Per Gramsci la borghesia produttiva del Nord va messa sotto accusa per la sua incapacità di guadagnare al capitalismo moderno nuove aree, si potrebbe dire per scarsa fiducia in se stessa e nel proprio verbo. La diresti l’opinione di un protestante.

Ma, detto questo, come negare che il passo è di rara lucidità e fa comprendere quanto l’unificazione italiana, così priva di progetti e ambizioni, appaia sin da principio destinata a produrre nient’altro che mostri? Che infatti non tardano ad arrivare, attraverso il congelamento della già debolissima economia meridionale , colpita negli anni Ottanta dell’800 da una grave crisi agricola internazionale che la mette completamente alla mercè del Nord.

A partire da quel momento, come spiega lo storico Francesco Barbagallo in un suo corposo studio intitolato Stato, Parlamento e lotte politico-sociali nel Mezzogiorno, il divario tra Nord e Sud «non cesserà più di accrescersi: allo sviluppo industriale del Nord si accompagnerà il sottosviluppo economico e sociale del Sud in un rapporto di stretta dipendenza destinato a perpetuarsi».

E’ tempo di concludere. Lo farò con una semplice domanda. E’ davvero impensabile che il Mezzogiorno non possa trovare dentro di sé quelle risorse di dignità, di energia e anche d’immaginazione in grado di salvarlo, sia pure in un tempo non breve e tra mille sacrifici, dal baratro nel quale è precipitato? In ogni caso, chi ha meglio da proporre si faccia avanti.


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